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Manlio Faggella non capisce le donne dell’«Eneide» perché non comprende Virgilio

La poesia di Virgilio è paragonabile ad una musica in apparenza facile da comprendere, perché possiede una notevole orecchiabilità: per cui si è portati a credere d’averla capita, solo perché la si è orecchiata, ossia ci si è lasciati trasportare dalla sua melodia. Ma essa è profonda, della profondità abissale dei classici: quando si crede d’averla afferrata, si scopre che essa è molto, ma molto più profonda, e dunque più lontana, di quel che credevamo; si scopre che non è affatto alla nostra portata, perché eccede di molto la lunghezza del nostro braccio. Accade per essa quel che si può dire di certi laghetti di montagna, dalle acque limpidissime: così limpide che si può vederne perfettamente il fondo, se ne possono contare i sassi ad uno ad uno, distinguerne agevolmente i più piccoli particolari; e se ne deduce che il fondo sia vicino, a due, tre metri al massimo sotto la superficie. Invece il fondo si trova a dieci, a quindici metri; sembrava vicino per la trasparenza meravigliosa dell’acqua, e solo per essa: una trasparenza ingannevole.

Così, se applichiamo a questo gigante della poesia gli stessi criteri che siamo soliti applicare a poeti e scrittori anche grandi, ma insomma, pur sempre d’una misura non troppo dissimile dalla nostra, siamo portati facilmente a cadere in errore: scambiamo la sua apparente semplicità per ingenuità, o persino per manierismo: qui crediamo di aver scorto una cattiva imitazione di Omero, là ci sembra di aver riconosciuto una contraddizione logica, una forzatura o una semplificazione arbitraria della psicologia umana. Riconosciamo la sua grandezza di verseggiatore, ma ci sembra d’averlo colto in fallo quanto ad autentica ispirazione, a verità del sentire. E, quasi sempre — non diciamo sempre, perché infine Virgilio è un uomo e non un Dio, e anche lui, qualche volta, sonnecchia, come del resto accade perfino a Omero — sbagliamo. Clamorosamente. Perché ci siamo dimenticati della sua ingannevole, abissale profondità: ci siamo presi troppa confidenza con lui, lo abbiamo giudicato secondo il nostro metro, secondo il metro degli uomini normali. Ma lui non è un uomo dalla statura ordinaria: è un gigante, semplicemente. E dobbiamo sempre tenerlo a mente.

Prendiamo il caso delle donne dell’«Eneide», sul quale sono state dette molte cose, e sovente inesatte, o incomplete, o azzardate, appunto perché non lo si è compreso sino in fondo. Per capire i personaggi di Virgilio, bisogna tentar di entrare nell’anima di Virgilio: un’anima grande, dal sentire immenso. In Virgilio, ogni elemento della sua poesia, e anche i suoi personaggi, scaturiscono dall’unica fonte della sua sensibilità: vivono di vita propria nella misura in cui appartengono al suo mondo poetico e ideale, che è unitario e compatto come un tempio, come una cattedrale; ogni cosa, in lui, fino all’ultima tessera del mosaico, fino all’ultimo fregio e all’ultima decorazione, fa parte del tutto, e non può essere intesa facendo astrazione dal contesto. Perciò le donne dell’«Eneide» restano enigmatiche e incomprensibili, si sottraggono allo sguardo di colui che pretenda di valutarne pregi e difetti separatamente e astrattamente, come taluni critici fanno con un quadro o una scultura: quel che conta è l’insieme, come se tutte le donne virgiliane fossero un’unica donna che vive in tante vite diverse, ma con un’anima sola. O si capisce questo, o non si capisce nulla.

Un filologo classico della seconda metà del Novecento, Manlio Faggella, traduttore dell’«Eneide», ha creduto di poter demolire le figure femminili del poema virgiliano, e addirittura di ridicolizzarle, adoperando, verso di esse, un criterio estetico e letterario di tipo riduzionista: isolandole l’una dall’altra, banalizzando i loro comportamenti, semplificando i loro sentimenti e i loro atteggiamenti, con la freddezza con cui il chimico pone una determinata sostanza sul vetrino del microscopio. Ha avvicinato troppo l’occhio all’immagine: e così non ha visto nulla; ha solo creduto di vedere.

Vale la pena di riportare la stroncatura delle donne dell’«Eneide», perché rappresenta un buon esempio della incomprensione, da parte del Nostro, della poesia virgiliana («Antivirgiliana», di Mario Faggella, in appendice a: Virgilio, «Eneide», introduzione, traduzione e note di M. Faggella, Roma, Signorelli, 1965, p. 618):

«Tolte Didone e Camilla, l’una amante rabbiosa e l’altra eroina un po’ stilizzata, nemmeno valgono gran che le donne. O vi par seria Amata, che fa la trottola, si piglia in braccio la figlia già da marito, volteggia con lei pei monti, e nella ridda le fanno circolo le signore del Lazio? Perché il genero non le piace! Ella preferisce il nipote. È una scena delle "Baccanti" di Euripide, trapiantata con poco garbo: la causa del delirio non è adeguata. Tanto adora la zia il nipote, che appena lo crede morto, s’impicca! Troppo precipitosa! La notizia era prematura. Non ci riesce di entrar nel cuore di questo dramma. E il vecchio marito allora rovescia gli altari, incappa nella coda del suo mantello regale, ruzzola, si rinchiude imprecando a Turno, lui che così leggermente ha esibito la figlia a un avventuriero! Ed Enea impreca a sua volta a lui, non lo apprezza.

Non parliamo della Lavinia: è slavata! Ma cosa c’è in quella testa? Ed ha proprio una testa, un cuore? Chi preferisce? Turno od Enea? Ma questo neppur lo ha visto! Se ne sta come una giovenca, a leccarsi i fianchi, aspettando quale di quei due tori uscirà vincente dal cozzo. E questa sarà la nostra progenitrice? Su che omeri esili poggia il futuro Impero Romano! Male si commisura la statura di lei col ruolo! Il Parenti la ha assomigliata a Lucia. Ma questa è una villanella, non ha pretese, non sale i cieli dell’epopea, non posa a figura mitica. È proprio quel "pauper spiritu" che Gesù amava! Creatura semplice, il verginale rossore a lei sta d’incanto. Il suo accusare se stessa, per cui la madre, che si stima navigatissima, e della vita invece non ha capito nulla, le fa gli occhiacci, è la sua idea più stupenda, il lampo che le conquista l’ammirazione del cardinale, che a tanta semplicità resta estatico. Un moto così felice, che, se non si conoscesse il soggetto, maligneremmo che è fatto ad arte. Ma Lavinia? Che effluvi manda quest’anima? Dove ha Virgilio una fresca pittura come Nausicaa?»

Già l’inizio è curioso: tolte Didone e Camilla. Già, come se fossero due personaggi da nulla. Sarebbe come dire, parlando di Tasso: «tolte Clorinda e Armida»; oppure, parlando di Manzoni: «Tolte Lucia e la monaca di Monza»; o anche, parlando di Leopardi: «Tolte Saffo e Silvia». Assurdo. La critica di Manlio Faggella, che vorrebbe essere demolitrice e senza appello, si demolisce da se stessa, già dalla prima riga.

Quanto, poi, al fatto di liquidare Didone con l”espressione "amante rabbiosa" (e passi, casomai, se proprio si vuol semplificare a oltranza, per Camilla, qualificata come "eroina un po’ stilizzata"), anche qui: quale abisso di superficialità, di giudizio frettoloso, di positivistica incomprensione per un personaggio così immensamente grande e vero, da aver riempito di ammirata commozione e di trepidante stupore innumerevoli generazioni di lettori (e di critici)! Via, un po’ di modestia. Se Didone si riduce ad una amante rabbiosa, allora tanto vale affermare che la Francesca di Dante è una sensuale esaltata, o che la Giulietta di Shakespeare è una adolescente morbosa, o che Anna Karenina di Tolstoj è una eroina senza qualità. Andiamoci piano con queste freddure: stiamo parlando di un personaggio talmente grande e complesso, che, per fare un’unghia del suo dito, ci vorrebbe la materia con cui si fanno quaranta donne di misura ordinaria. E ottanta critici letterari smaniosi di far vedere quanto sono acuti i loro strali.

Non staremo qui a tessere l’elogio di Didone: già tanti lo hanno fatto; diremo solo che ella è la più superba creazione dell’anima virgiliana, colei nel cui carattere, nella cui vicenda, nel cui dramma, si compendia tutta la concezione del mistero dell’essere umano e della vita umana (e non solo umana: perché gli animali ci sono fratelli nel dolore); anzi, è una delle più grandi figure della letteratura d’ogni tempo. Nella sua bontà e generosità, nella sua passionalità fiduciosa, nell’amarezza del suo disinganno, c’è qualcosa di infinitamente più grande della rabbia di un’amante abbandonata: c’è tutta la tragedia umana, lo slancio verso l’assoluto e la bruciante delusione della caduta, in una tensione affannosa che vorrebbe appagarsi d’una Verità eterna, soprannaturale, e non vi riesce.

Per Amata, è vero, il discorso è diverso. Ma Faggella, come al solito, lo rimpicciolisce, lo immiserisce, lo banalizza. In realtà, anche Amata è un personaggio tragico, e ha una sua profonda serietà: che Virgilio si sia ispirato o no alle «Baccanti» di Euripide, resta il fatto che il suo dramma, la sua angoscia, il suo suicidio, ancorché misteriosi, certo non mancano di serietà e di una cupa grandezza: ne abbiamo già parlato a suo tempo, e non è il caso di ripetere cose già dette (cfr. il nostro articolo: «Perché si è uccisa la regina Amata? Quando le ragioni del cuore sono indicibili», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 11/12/2008).

Veniamo a Lavinia: "è slavata", dice il Nostro. Può darsi: non sarebbe, comunque, una osservazione particolarmente originale. Ma proviamo a scendere un poco sotto la superficie. Lavinia è, anch’essa, una figura dolente, addirittura tragica: non è vero che se ne sta inerte come una vacca fra due tori che si prendono a cornate per i suoi begli occhi (o piuttosto per la dote regale ch’ella reca al futuro marito: la successione del re Latino, che non ha figli maschi). È una timida fanciulla che si trova presa negli ingranaggi della Politica, anzi, della Storia: è la vittima designata di un destino troppo più grande di lei. Però si capisce per chi palpita il suo giovane cuore: per Turno; e si capisce che la sua vita non sarà felice, come sposa del vincitore Enea. Anche lei, come Didone, come Turno, come lo stesso Enea, è una povera creatura umana che serve a un Destino più grande, e le cui lacrime servono a lastricare la storia futura, la grandezza di Roma di là da venire, che appena s’intravede dai colli boscosi sulla riva del Tevere, ove regna Evandro, il mite re-pastore, in fiduciosa attesa del compiersi dei Fati. Il dramma di Lavinia è il dramma umano in quanto tale, così come lo vede Virgilio: un vivere, un illudersi e un soffrire che alimentano un Qualcosa di molto più grande degli uomini, e che di essi si serve, così il muratore si serve dei mattoni per edificare un palazzo che nessuno, al momento, sa come e quanto diverrà grande, o bello, o ammirato: un Qualcosa o un Qualcuno che Virgilio presente, ma che non sa identificare, non può riconoscere. E qui il suo sguardo si ferma e il suo gesto ricade, pensoso, sconcertato, perché il velo del futuro è troppo fitto per lo sguardo umano: «e qui chinò la fronte / e più non disse, e rimase turbato» (Dante, «Purgatorio, III, 44-45).»

L’elenco delle figure femminili dell’«Eneide», comunque, non si ferma qui: Didone, Camilla, Amata, Lavinia, non sono che le più appariscenti; altre ve ne sono, che compaiono appena nello spazio di pochissimi versi, ma che restano indelebilmente impresse nella mente e nel cuore del lettore, un po’ come la madre di Cecilia nei «Promessi Sposi» (che, artisticamente, vale forse più della stessa Lucia). Pensiamo, ad esempio, alla madre di Eurialo (nel nono canto del poema), alla sua disperazione, al suo urlo tremendo, disperato, allorché, dagli spalti del campo troiano, vede lo spettacolo orrendo, straziante, delle teste di suo figlio e dell’amico Niso, infilzate sulle picche e agitate dal nemico in segno di scherno. Quale madre, nella storia della poesia mondiale, ha mai gridato più forte di lei, concentrando in quell’urlo tutto il dolore di tutte le madri davanti ai figli morti: vera e propria Madonna laica del paganesimo, simbolo di tutta l’angoscia e di tutta la sofferenza del genere umano? «Alla poveretta il calore lasciò le ossa, / le cadde di mano il fuso, le si rovesciò la conocchia / L’infelice volò fuori, e urlando e strappandosi / i capelli, corse come una pazza alle mura / e alle schiere, senza pensare agli uomini, al rischio, / alle armi, e riempie il cielo di gemiti… »

Oppure pensiamo alla sorella di Didone, Anna, dolce e premurosa, di sentimenti delicati e altruisti; pensiamo alla sventurata e dolcissima Creusa, che si perde per sempre nei bagliori notturni, e quasi infernali, dell’incendio di Troia; oppure alla malinconica e soave Andromaca, la madre di tutti gli esiliati: sono tutte figure dolenti e cariche di umanità, e tutte ci rimangono impresse nella memoria, perché tutte vivono di autentica vita poetica. Come si fa a non vederlo? Come è possibile accostarsi a Virgilio, leggere l’«Eneide», e non restare colpiti dalla intensità quasi insostenibili di queste donne, dai loro destini infranti, da queste anime protese alla ricerca di un senso del loro personale destino, dell’umana vicenda costellata d’illusioni perdute («sunt lacrimae rerum»)? Molto vi sarebbe da dire anche sulle divinità: su Venere, la tenera madre di Enea; su Giunone, l’implacabile nemica; sulla terribile furia Alletto, che sconvolge le menti e sospinge gli uomini verso la guerra. No, non siamo d’accordo col Faggella: i personaggi più grandi di Virgilio, sono proprio le donne…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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