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Alfred Bassermann, il pellegrino dantesco che rivelò l’Italia di Dante agli italiani

Alfred Bassermann fu, tra gli studiosi tedeschi, insieme a Paul Pochhammer (di cui abbiamo palato in un altro articolo, e a parte Eric Auerbach, che non fu solo un esegeta di Dante, ma un filologo a tutto tondo – quello che più contribuì, tra la fine del XIX secolo e il principio del XX, a far conoscere Dante e la «Divina Commedia» presso i suoi connazionali, fino a creare un vero e proprio culto del nostro massimo poeta; e, se Pochhammer fu il classico filologo di formazione accademica, Bassermann fu, invece, l’autodidatta vivace ed entusiasta, dallo zelo trascinante e contagioso, nonché l’instancabile viaggiatore che dedicò buona parte della propria vita a riscoprire, per usare la metafora di un suo celebre libro, le orme lasciate da Dante in Italia.

Questo particolare interesse per la figura fisica e per la vita dell’Alighieri è alla base del tratto forse più originale della sua personalità di dantista: la curiosità instancabile per i luoghi che Dante visitò nel corso del suo ventennale esilio (1301-1321), curiosità che si riflette nella più notevole delle sue intuizioni di studiosi: che Dante, cioè, il poeta della vita e del mondo soprannaturale, sia stato, nondimeno, un uomo e uno scrittore saldamente ancorato alla dimensione terrena, un attento osservatore della natura ed un acuto, instancabile osservatore degli uomini e delle cose del suo tempo e della sua patria.

La logica applicazione di questo principio è che se Dante, nel suo poema, si serve di una determinata immagine, se ne può dedurre che egli, molto probabilmente, non l’abbia desunta da qualche altro autore, non l’abbia semplicemente rielaborata, ma che sia stato personalmente osservatore di quel certo fenomeno naturale: che debba aver visto con i suoi occhi una valle rocciosa scolpita a quel modo dal millenario scorrere di un torrente, o che debba avere osservato un fiume ghiacciato con quelle tali caratteristiche, o aver assistito alla migrazione autunnale di uno stormo d’uccelli che evoluivano in cielo in quella data maniera.

Ora, è chiaro che un tale principio può condurre a degli eccessi e a delle vere e proprie forzature interpretative, e, soprattutto, che esso tende a trasgredire ad un principio universalmente ammesso dagli studiosi di formazione accademica: che nulla si possa affermare con sicurezza, cioè, di quanto non viene adeguatamente supportato da una documentazione certa e incontrovertibile, o, comunque, sufficientemente solida da resistere ad una critica rigorosa. Insomma, non bastano tradizioni più o meno antiche, ma non ben documentate sul piano strettamente storico e filologico, per sostenere una certa tesi; e questo principio, ancora oggi imperante, fa sì che, nella «Enciclopedia dantesca», si parli tuttora del soggiorno di Dante a Treviso, presso Gherardo da Camino, come di una mera possibilità, anche se gli indizi a favore di esso, anche quelli di ordine letterario e filologico (chi altri poteva scrivere «dove Sile e Cagnan s’accompagna», se non uno che avesse visto coi proprio occhi il punto di unione dei due corsi d’acqua, di differente trasparenza?) sono tali e tanti, da lasciare ben pochi margini d’incertezza al riguardo.

Questo pose il Bassermann in latente conflitto con i dantisti della scuola positivista, per i quali era eresia affermare, ad esempio, che, negli anni dell’esilio — anni, com’è noto, assai poco documentati — Dante fosse stato in questa o quella città, quando di ciò esistono, sì, delle tradizioni, anche di tipo popolare — come a Tolmino, sull’alto Isonzo — o degli indizi, non però definitivi — come nel caso di Pola, in Istria -, mentre il Bassermann non si faceva tanti scrupoli di ordine scientifico e tendeva a prendere sul serio ogni tradizione e ogni traccia e, come se ciò non bastasse (il che era quasi insopportabile per essi) si fidava parecchio anche del suo "sesto senso". Ad esempio, dopo aver visitato le Grotte di Postumia, sul Carso, e dopo aver visto, d’inverno, il lago Circonio (di Cerknica) ghiacciato, egli si disse certo che Dante avesse visitato entrambe le località, dal momento che vi sono descrizioni dell’Inferno — e soprattutto quella del Cocito — che, a suo giudizio, coincidono perfettamente con ciò che si può tuttora osservare (cfr. anche il nostro ampio saggio «Dante e la Venezia Giulia», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 04/05/2006, e, nuovamente su «Il Corriere delle Regioni» il 10/08/2015, oltre che, in formato cartaceo, su «L’Universo», rivista dell’Istituto Geografico Italiano, n. 5, 2006, e sugli «Atti» della Società Dante Alighieri, comitato di Treviso, vol. 5, 2003-2006).

In un certo senso, e sia pure indirettamente, l’opera del Bassermann, «Orme di Dante in Italia», servì ad incoraggiare il nazionalismo italiano, o almeno l’irredentismo, perché pareva confermare una presenza del sommo poeta in molte località della Venezia Giulia e fino al Quarnaro, che, per usare l’espressione dantesca, bagna gli estremi termini d’Italia, località che, all’epoca, facevano parte dell’Impero asburgico; e, infatti, non mancarono le manifestazioni dantesche che sfociarono in veri e propri conflitti con la polizia di Vienna, come accadde nel teatro di Gorizia, in cui una commemorazione dantesca venne proibita dalle autorità con la motivazione che la presenza di Dante in quella città era «un falso storico» (l’episodio è riportato da Cesare Marchi nel suo libro «Dante in esilio»).

Ad ogni modo, l’atteggiamento di Bassermann nei confronti della materia dantesca contribuì non poco a togliere Dante dalla polvere dei musei e dalla naftalina degli armadi, per attualizzarlo e familiarizzarlo ai lettori; egli contribuì più di chiunque altro a d accreditare l’immagine di un Dante "vivo", sottratto alla solenne, ma pedantesca immagine del Poeta ieratico e paludato, cara ai filologi di professione e ai professori universitari. Lo studioso tedesco ebbe quindi il non piccolo merito di svecchiare e di liberare da eccessivi formalismi il culto di Dante e di rifarlo rientrare nelle case delle persone comuni, combattendo il monopolio delle aule accademiche; di incoraggiarne una lettura personale da parte del pubblico, accessibile anche ai non specialisti, e perciò di avvicinarlo e renderlo accessibile a molte persone che, prima, non osavano accostarsi a lui, perché la cultura ufficiale lo aveva dichiarato troppo difficile per i comuni mortali.

Non a Carducci e ai professori italiani, quindi, e nemmeno ai severi professori tedeschi, così rigorosi nella loro prospettiva critico-letteraria e così scientifici nei loro metodi di studio, va il merito di aver popolarizzato l’opera dantesca, ma a questo "irregolare" dall’entusiasmo contagioso e incontenibile, che "sentiva" lo spirito di Dante così come Ernest Renan – se ci è lecito fare un paragone -, visitando la Palestina, "sentiva" le tracce dell’autore della Buona Novella: nel solco dell’estetismo e del decadentismo, dunque, e non del positivismo che, allora come oggi, dominava negli atenei e dettava le regole sulle riviste specializzate.

Così ne rievoca la figura e l’opera W. Theodor Elwert nella «Enciclopedia Dantesca» (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. I, 1970, pp. 530-31):

«Dantista tedesco (Mannheim 1856 — Heidelberg 1935), di famiglia agiata di banchieri, studiò giuirisprudenza a Heidelberg; dopo essere entrato nell’amministrazione, lasciò il posto nel 1886 per dedicarsi agli studi. Recatosi in Italia, divenne un fervido ammiratore della cultura italiana,. Il Bassermann è caratteristico esponente della’estetismo delle cerchie colte tedesche prima del 1914; elemento integrante di questo estetismo era il culto di Dante, di cui il Bassermann fu uno dei più cospicui e zelanti diffusori. La sua opera è disuguale, rivelando per vari aspetti l’autodidatta, ma non fu priva di valore ed esercitò un influsso notevole sia in Germania che altrove. Fin da giovane il Bassermann si propose di dare al popolo tedesco una versione dela "Commedia" che riproducesse tanto le caratteristiche della lingua di Dante quanto la bellezza del testo originale. Perciò il Bassermann, che rifiutava le traduzioni non rimate, si accinse a tradurre in terzine dantesche, patteggiando con la purezza della rima per non sacrificare l’esattezza del senso. Pubblicò l’"Inferno" nel 1892, il "Purgatorio" nel 1909 e il "Paradiso" nel 1921. Per ‘Paradiso’ creò il neologismo "Fegeberg", dapprima combattuto dalla critica, poi accettato (F. Schnedier). Questa traduzione non ebbe fortuna presso la critica dominante, che esigeva una traduzione di più limpida resa stilistica e rimproverò al Bassermann un’eccessiva preoccupazione filologica. Del commento che preparava man mano che progrediva la traduzione il Bassermann non pubblicò che un saggio (1932).

Maggiore fortuna ebbe la seconda sua opera, "Dante Spuren in Italien", che pubblicò in un’edizione di lusso a proprie spese, con 67 tavole illustrative (Heidelberg 1897). Della seconda edizione (non illustrata, Monaco 1898) fece una traduzione E. Gorra, "Orme di Dante in Italia" (Bologna 1902). Frutto di un lungo studio che aveva condotto il Bassermann a fare lunghi viaggi per l’Italia, anche in luoghi impervi e a piedi, il libro mirava a "rendere Dante più abbordabile e famigliare, dimostrando come il poeta dell’aldilà era radicato nella realtà". Il Bassermann seppe unire a una vasta erudizione una felice vivacità nella descrizione dei luoghi visitati. Grande suo merito fu l’aver dedicato un terzo del volume ai riflessi danteschi nelle arti figurative. Il libro contribuì non poco alla conoscenza di Dante e rimane fino a oggi il miglior manuale per tanti pellegrinaggi danteschi. Inoltre il Bassermann pubblicò vari studi di critica dantesca, nonché una sua traduzione del "Fiore", la prima versione in lingua tedesca (Heidelberg 1926), accettando l’ipotesi che Dante ne fosse l’autore. Fra i più aspri e accesi critici figurarono R. Borchardt e K. Vossler, ai quali il Bassermann replicò nel 1928; trovò in B. Wiese (1928), E. Wechssler (1928) e E. Köhler (1957) sostenitori della sua tesi, che è stata confermata dalle più recenti indagini italiane. Il Bassermann riprese anche (1931) la tesi che la "Commedia" avrebbe avuto una prima redazione comprendente i primi sette canti dell’"Inferno", che egli datava intorno al 1290.

La meno felice trovata del Bassermann fu la sua interpretazione del Veltro, in cui ravvisò il simbolo di un mito solare venuto da oriente, divenuto poi il simbolo di un imperatore salvatore del mondo. Questa tesi, che egli propugnò fin dal 1902, sostenne ed espose con caparbietà fino alla fine della sua vita. Abbagliato dal nascente nazismo, finì con l’identificare ingenuamente mito solare, Veltro e Adolfo Hitler, poi anche Veltro, Dux ("Purgatorio" XXXIII, 43) e Mussolini. La sua tesi non rimase inoppugnata, e suscitò dissensi con la Deutsche Dante-Gesellschaft da cui si ritirò. Gli errori della sua vecchiaia non tolgono che nei suoi anni migliori il Bassermann con la sua erudizione e con il suo entusiasmo fu uno dei dantisti più autorevoli e più influenti in Germania.»

Da quando, agli albori del nuovo secolo — il XX – il libro di Alfred Basserman, «Orme di Dante in Italia», apparso in Germania nel 1897 (con il titolo «Dantes Spuren in Italien: Wanderungen und Untersuchungen»), venne tradotto e pubblicato anche nel nostro Paese (precisamente nel 1902, dall’editore Zanichelli di Bologna), ebbe inizio lo strano fenomeno per cui gli Italiani incominciarono a sentire un po’ più familiare, un po’ più umano, un po’ più "loro", il massimo poeta italiano di tutti i tempi, studiato e venerato, sì, nelle scuole e nelle accademie, però mettendolo su un piedistallo così alto, da sfuggire, quasi, alla facoltà visiva degli uomini comuni: e ciò avvenne per opera di uno straniero, di un tedesco, ossia di un figlio di quella terra e di quella cultura che, dal Risorgimento in poi, sempre fu vista e presentata come a noi fatalmente "nemica", anche se così non la pensava per l’appunto il padre Dante (il «ghibellin fuggiasco» di foscoliana memoria!), che non esitò, nella sua «Commedia», a rimproverare g’ imperatori germanici per avere troppo a lungo trascurato e disertato il "giardino" dell’Impero, l’Italia appunto.

In realtà, se non si inserisce il culto di Dante in Germania nel più ampio contesto del tenace rapporto d’amore (mai corrisposto) fra la cultura tedesca e l’italiana, si rischia di non capire nulla della nostra stessa storia, che, per tutti i lunghi secoli del Medioevo, e anche oltre, s’intreccia continuamente con quella germanica (e, da ultimo, austriaca). La Germania è sempre stata ossessionata — anche politicamente — dall’Italia: da Ottone il Grande fino a Hitler, è impossibile non vedere come la prima abbia sempre cercato, nella seconda, un qualcosa che non trovava in se stessa: nella letteratura e nella musica, nell’arte e perfino, appunto, nella politica (non è forse, il nazismo, una rielaborazione, imbastardita e stravolta, del fascismo?). Anche Bassermann, anche Spengler, hanno sentito quel fascino: perché scandalizzarsi, dunque, se, per un attimo, hanno creduto di vedere in Mussolini (come Ezra Pound, del resto) quanto di più simile al Veltro dantesco?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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