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Perché Berlino non ha avuto il suo Balzac o il suo Proust?

Come mai la città di Berlino non ha prodotto alcuno scrittore capace di esplorarne l’anima, come Parigi ha avuto Balzac e Proust, o come Londra ha avuto Dickens ed Eliot, e come Vienna ha avuto Schnitzler e Roth? Anche Boston ha avuto Henry James e perfino la modesta Providence ha avuto Lovecraft. Dunque, a cosa si deve il fatto che Berlino non ha saputo ispirare una propria letteratura, pur avendo dato i natali ad alcuni scrittori di prima grandezza, come Gerhart Hauptmann, autore di drammi come «I tessitori» e come «E Pippa balla!»?

Altre città tedesche hanno pure avuto la loro letteratura specifica, i loro autori innamorati di esse: e non solo le maggiori, come Monaco o Amburgo, ma anche quelle relativamente minori, come Danzica o Lubecca: Danzica ha avuto Günther Grass, con il (troppo) celebrato «Il tamburo di latta», mentre Lubecca ha avuto Thomas Mann con «I Buddenbrook». E potremmo immaginarci Königsberg senza Immanuel Kant, che — pur non essendo uno scrittore, ma "solo" un filosofo – ne misura le strade col suo passo regolare, ogni santo giorno che Dio manda in terra, così regolare che i suoi concittadini — si dice — regolavano su di esso i propri orologi, al punto che l’autore della «Critica della ragion pura» era chiamato, con bonaria scherzosità, "l’orologio di Königsberg"? Solamente Berlino, si direbbe, non è riuscita ad ispirare una tale confidenza, o a suscitare uno speciale interesse da parte di qualche letterato.

La cosa, a prima vista, lascia piuttosto sconcertati: Berlino è Berlino; non si tratta di una città anonima e secondaria, ma di una delle capitali più vive d’Europa, uno dei maggiori centri culturali al mondo, e uno dei luoghi-simbolo del Vecchio continente. Possibile che non abbia saputo ispirare nessun grande scrittore tedesco — e, per dire tutta la verità, nemmeno alcun altro scrittore dell’Europa o del mondo? Sì, generalmente Berlino piace al turista che la visita; piace e rimane impressa, piace e suscita una sincera ammirazione. Ha saputo leccarsi le ferite della storia con molta dignità e non si è lasciata spingere nell’angolo, non ha permesso ad alcuno di rinchiuderla nel cerchio stregato dei suoi ricordi. Però non ha saputo destare, a quanto sembra, abbastanza amore o abbastanza odio, abbastanza tenerezza o abbastanza malinconia, da spingere nessun grande poeta, nessun grande romanziere, a dedicarle uno di quei libri, o di quelle poesie, che s’imprimono nell’immaginazione dei contemporanei e che son destinati a restare.

Certo, potremmo tirar fuori un regista come Josef von Sternberg ed il suo «L’Angelo Azzurro», tratto dal romanzo di Heinrich Mann ed ambientato, però, in una Berlino fatta solo di interni cupi e alquanto sordidi; ma un regista è un regista e non uno scrittore o un poeta — salvo casi eccezionali, come René Clair nel caso di Parigi. No, non basta davvero «L’Angelo Azzurro» per riscattare Berlino dal disinteresse degli scrittori, né basta il sorriso provocante di Marlene Dietrich, e neppure bastano le sue sigarette o le sue lunghissime gambe da ballerina. Tanto è vero che, mentre i giornali di Berlino, all’indomani della prima del film, la proclamavano — non senza molta esagerazione – la più grande attrice tedesca del momento, e forse di tutti i tempi, la bella Marlene stava già viaggiando a bordo della nave che l’avrebbe portata definitivamente in America. E non solo per ragioni di dissenso politico dal regime nazista, come vorrebbe dare a intendere la vulgata del politicamente corretto.

Joseph Goebbels le offrì insistentemente di farne l’attrice protagonista del cinema del Terzo Reich, accettando le sue condizioni: aveva istruzioni dal Führer di riportarla a casa da Hollywood, concedendole perfino di portare con sé il regista ebreo Josef von Sternberg. Tuttavia c’era una cosa che il ministro nazista della propaganda non aveva tenuto presente. La bella Marlene era bisessuale, ma prevalentemente lesbica e, dopo l’avvento al potere di Hitler (che era anch’egli un suo segreto ammiratore, e si faceva proiettare i suoi film in una sala privata), forse pensò che in America avrebbe potuto vivere la sua omosessualità con più disinvoltura che nel severo clima della Berlino nazista. Chissà se di questa circostanza si è ricordata la scrittrice statunitense Mary McCarthy nel delineare il personaggio di Leakey, ragazza sofisticata, coltissima e affascinante, nel romanzo «Il gruppo», del 1962 (ripreso per il cinema, nel 1966, dal regista Sidney Lumet, che sceglierà, per interpretare quel personaggio, la bella e brava Candice Bergen): una ragazza che ha lasciato il Vassar College, nello Stato di New York, per unirsi ad una baronessa austriaca, notoriamente lesbica, insieme alla quale ritorna in America anni dopo, solo quando l’avvento del nazismo viene a disturbare il loro nido d’amore. Più tardi (in piena Seconda guerra mondiale), divenuta l’amante — en passant – del famoso attore francese Jean Gabin, Marlene Dietrich si prese con buona pace (e dichiarandogli amore eterno) anche le botte dal focoso innamorato, il quale non si preoccupava di nascondere il gran gusto che provava nel picchiare di santa ragione una tedesca, ora che i Boches avevano issato la bandiera del Terzo Reich sulla Tour Eiffel. Tutto il mondo (tutto il "mondo libero") è paese: nel romanzo dello scrittore ebreo-americano Norman Mailer «Un sogno americano», del 1965, il protagonista, Stephen Rojack, subito dopo aver assassinato la ricchissima moglie, penetra analmente la cameriera tedesca, Ruta, e, al momento dell’orgasmo, le grida, senza sapere perché (ma il buon vecchio Freud lo avrebbe saputo di sicuro): «Sei una nazista!» (cfr. il nostro precedente articolo: «Oltrepassare la delusione per non sciupare la bellezza del mondo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 25/07/2008).

Nella sua patria, l’attrice berlinese era destinata a non ritornare, se non al termine della guerra, in mezzo alle macerie e al seguito dell’esercito di occupazione americano, del quale aveva interamente ed entusiasticamente sposato la causa; nel frattempo si era fatta cittadina statunitense e ora intratteneva le truppe con i suoi spettacoli. Non solo: si faceva fotografare, in pose da diva, accanto ai carri armati del vincitore, indossando ella stessa la divisa delle Forze armate statunitensi. Una mancanza di stile e di rispetto filiale che i suoi ex compatrioti non le avrebbero perdonato: per i Berlinesi e per tutti i Tedeschi, nel 1945, lei non era altro che «la puttana delle truppe». La Dietrich sarà anche diventata una leggenda in tutto il mondo, ma in Germania, per lei, non ci sono stati che disprezzo e una silenziosa rimozione, durati fino ai nostri giorni. Solo recentemente, con l’allestimento di una mostra «alla diva che disse di no al nazismo», come recitavano i media politicamente allineati, la pace è stata fatta, in memoriam, fra lei e i suoi concittadini berlinesi — o, per meglio dire, fra il suo ricordo e i nipoti di quella generazione.

Ma ora lasciamo perdere il rapporto di odio e amore fra Marlene Dietrich e la sua città natale e torniamo al nostro interrogativo: perché mai Berlino, e solo Berlino, fra le grandi capitali europee, non abbia avuto il suo cantore letterario. O, per essere precisi, perché ne abbia avuto uno solo, che, nell’immaginario dei Berlinesi stessi, non la rappresenta affatto: quell’Alfred Döblin, ebreo tedesco (1878-1957), che, nel romanzo «Berlin Alexanderpltaz», del 1929, ha riversato sulla società della capitale tedesca tutti gli strali della sua critica più feroce: il protagonista, Franz Biberkopf, appena uscito di galera, vaga per i quartieri proletari come un Leopold Bloom ancor più stralunato del protagonista dell’«Ulysses» di Joyce, al quale si ispira (facendo la sua apparizione sulle scene sette anni dopo l’ebreo dublinese). Criminale senza arte né parte, sbandato, solo, lebbroso e reietto di una società che non lo vuole e che non sa cosa farsene di lui, Franz Biberkopf sta alla Berlino degli anni Venti come le tele e i disegni di Geogre Grosz stanno alla borghesia tedesca, ai militari, ai giudici e soprattutto ai capitalisti: immancabilmente cinici, ripugnanti, paonazzi per il troppo bere, obesi per il gran mangiare, rappresentati mentre ostentano le loro ricchezze, ambiguamente accumulate, davanti a una folla di reduci, di mutilati, di disoccupati, di vagabondi

A proposito del nostro tema, ci sembrano pertinenti, e degne di accurata riflessione, le osservazioni svolte da Enrico Altavilla nel volume «Qui Berlino» (Milano, Touring Club Italiano, 1975, p. 25):

«È stato rimproverato a Berlino di non aver avuto un Balzac o un Proust, un Dickens o un Maupassant. E Oswald Spengler sprezzantemente ignora, nei suoi scritti, la letteratura di questa città che ha avuto tre suoi figli insigniti del premio Nobel: lo storico Theodor Mommsen, il poeta Paul Heyse e Gerhart Hauptmann, autore drammatico. Si è detto che la città ha saputo ispirare un solo romanzo che affonda le radici nella vita di Berlino: e cioè "Berlin, Alexanderplatz" di Alfred Döblin. Forse l’accusa è giusta, ma va ricordato che Berlino non ha mai avuto le proporzioni — fisiche e spirituali — d’una Londra e d’una Parigi, che erano già metropoli quando Berlino era ancora una "Residenzstadt" di scarsa importanza. Non v’è mai stata a Berlino una vera corte, i suoi sovrani non sono stati mecenati, la città non ha mai avuto nel popolino personaggi da "Opera da tre soldi" o da "Pigmalione". Un Villon, a Berlino, si sarebbe annoiato. Un Balzac avrebbe trovato una società borghese e senza vizi. A un Proust sarebbero mancati i salotti letterari. Non bisogna forse meravigliarsi se prima delle grandi guerre Berlino non ha saputo ispirare un capolavoro. Ma bisogna stupirsi vedendo che anche la tragica Berlino dei nazisti — la Berlino dell’incendio del Reichstag e della "notte di cristallo" — e la Berlino del dopoguerra — la Berlino del ponte aereo, del muro, del blocco — non hanno ancora trovato se non un Dickens almeno un Norman Mailer o un Irvin Shaw.

Eppure i berlinesi amano la letteratura. Già chi veniva a Berlino negli anni Venti vi trovava la "Literarische Welt", uno dei migliori settimanali letterari europei, e poteva incontrare scrittori e poeti, non soltanto tedeschi, nel "Romanisches Café". Vi erano centinaia di librerie, vi erano bar in cui si vendevano libri e acquavite. In uno di questi bar Kurt Tucholsky, autore de "Il castello di Gripsholm" — e poi suicida in Svezia, dove si era rifugiato per salvarsi dalle persecuzioni naziste — firmava autografi e serviva, per divertimento, gli avventori. V’erano anche biblioteche ambulanti, a motore o tirate da cavalli, che vendevano libri, stampe, litografie.

Molti di questi libri — e precisamente le opere di 24 autori tedeschi — furono dati alle fiamme dai nazisti, il 10 maggio 1933, davanti all’Università di Unter den Linden. <L’azione fu diretta dallo stesso ministro della propaganda, Joseph Goebbels, e al rogo assistetteero, ben nascosti tra la folla, due degli scrittori — Erich Kästner ed Ernst Gläser — i cui volumi vennero bruciati insieme al busto ligneo di Magnus Hirschfeld, pioniere nello studio della sessualità.

Per la nascita della letteratura berlinese si potrebbe scegliere il 1740, l’anno in cui venne abolita la censura. I primi libri portavano le firme di Lessing e del re Federico II. Quali altri grandi nomi ha dato Berlino alla letteratura? Kleist, Fontane, Hauptmann. Quali grandi libri potrebbero esser definiti "berlinesi"? "Il principe di Homburg", "Minna von Barnheim", "La pelliccia di castoro", "I topi". E le polemiche fra i sostenitori del romanticismo e del realismo, tanto vivaci in altre città, videro schierati a Berlino, e pacificamente, soltanto Kleist e Fontane. Anche le polemiche nei circoli letterari — eccettuate forse quelle nel "Tunnel" — non hanno mai varcato i confini della città. E Berlino non soltanto non ha dato i natali a un autore di romanzi polizieschi, ma non ha neanche ispirato romanzi di questo genere.»

Anche nel caso di Alfred Döblin (come, del resto, in quello di George Grosz), i Berlinesi non hanno certo potuto sentirsi rappresentati dalle pagine di quel romanzo, che, della metropoli tedesca, offre uno spaccato così deprimente e nauseante: non più di quanto, crediamo, i cittadini di Belfast possano essere stati lusingati dalla scelta di James Joyce della loro città, per ambientarvi le grottesche e lubriche avventure dell’Ulisse moderno, alias Leopold Bloom (a proposito del quale cfr. il nostro precedente articolo: «Tra Gerty McDowell e Leopold Bloom l’antico gioco sterile della "seduzione ingenua"», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 20/05/2011).

È ben vero che, dai naturalisti in poi, e specialmente da Zola in poi, il gusto di scavare nel fango delle grandi città moderne è divenuto una costante degli scrittori europei, una sorta di macabro compiacimento, al limite della perversione e della necrofilia; ma bisogna riconoscere che scrittori come Döblin e artisti come Grosz ci hanno messo un sovrappiù di nichilismo estremo e di gusto per la dissacrazione, una particolare ricerca dell’oscenità e della irrisione verso i valori tradizionali, un disprezzo tutto particolare per ciò che, agli occhi del popolo tedesco, ha sempre rappresentato l’orizzonte irrinunciabile dei valori "sacri": Dio, patria e famiglia. Non c’è da stupirsi che i nazisti abbiano incluso le loro opere nel gran fascio della cosiddetta "arte degenerata", da eliminare e dimenticare: non solo dal punto di vista dei nazisti, ma da quello del tedesco medio (che è, non lo si dimentichi mai, un europeo colto, più colto e più amante dei libri e dell’arte di quanto non lo sia la maggior parte degli altri europei; e, inoltre, un cittadino molto disciplinato e molto legato ai valori della tradizione), tali opere apparivano peggio che provocatorie: erano ripugnanti, perché irridevano nella maniera più compiaciuta e provocatoria il sentire comune.

Con tutto ciò, non abbiamo ancora risposto alla domanda perché Berlino non abbia avuto il suo cantore; abbiamo solo chiarito perché Döblin non lo è stato, né avrebbe mai potuto esserlo. Ebbene la spiegazione, forse, è più semplice di quanto si possa immaginare: crediamo dipenda dal fatto che Berlino è stata, prima che la capitale della Germania, la capitale della Prussia, cioè di uno Stato con una struttura socio-economica prevalentemente rurale, posto nella sezione centro-orientale del continente europeo. La sua classe dominante era quella degli Junkers, i grandi proprietari terrieri abituati al modus vivendi della campagna, fieri delle loro tradizioni aristocratiche e militari, conservatori nel senso più ampio del termine, operò abbastanza efficienti da non disprezzare i lati utili del progresso e del mondo moderno. Berlino era la capitale di un hinterland siffatto: austera, sobria e con una tradizione culturale relativamente modesta, certo più modesta di Monaco di Baviera, o Dresda, o delle città renane; per non parlare di Vienna. I Berlinesi amavano la buona tavola e la buona musica, la natura e le parate militari; la loro università era prestigiosa, ma la sua tradizione non superava certo quella di Tubinga, di Halle, di Norimberga, di Gottinga, di Magonza, di Ratisbona, di Friburgo in Brisgovia. A parte il fatto che era l’università della capitale tedesca e che vi aveva insegnato Hegel, nulla la distingueva da tante altre; né si dimentichi la struttura federale del Reich tedesco, sia prima che dopo l’unificazione del 1871.

Si potrebbe obiettare che anche Parigi era la capitale di uno Stato a vocazione rurale, circondata da vaste campagne, unica metropoli dell’intera Francia. Vero: ma la proprietà terriera francese aveva un altro carattere, era più piccola e aveva eliminato la tradizione feudale prima, e in maniera più radicale, di quanto fosse accaduto in Germania. Inoltre Parigi è a poche ore di viaggio da Anversa e da Londra: è nel cuore dell’Europa occidentale, mentre Berlino è quasi smarrita nel Bassopiano tedesco-polacco, in una regione più nordica e molto più orientale, quasi in vista del mondo slavo (oggi ancor di più: a soli 100 km. dall’Oder, che fa da confine con la Polonia); alla fine del XIX secolo e al principio del XX, somigliava di più, per clima, cultura e tradizione (rigorosamente luterana), a Lubecca e Copenaghen, che alle grandi metropoli europee dell’Occidente. In breve: pur convivendo con la modernità, e avendola accettata, Berlino era una città a vocazione pre-moderna, lievemente contegnosa verso i valori e i costumi del mondo moderno; laddove Parigi, Londra, Amsterdam, Francoforte, Milano, non si sono limitate a subire la modernità: le hanno fornito la forza motrice e ne sono state i laboratori teorici e le punte avanzate, sempre protese un po’ più innanzi.

Non c’è poi tanto da stupirsi se una città del genere non ha prodotto il suo poeta, il suo Balzac o il suo Proust. I Balzac ed i Proust, i naturalisti e i decadentisti, sono i figli della modernità, preparano l’avvenire, assorbono e fanno lievitare gli umori del cambiamento e della trasformazione sociale; in breve, sono il prodotto di una borghesia abbastanza sviluppata da accogliere la sfida del progresso industriale, e abbastanza matura da condurre la critica a se stessa, ma senza cadere nell’eccesso del furore auto-distruttivo. Tali condizioni, a Berlino, non esistevano. Se Parigi era la capitale delle sfumature, della complessità, delle contraddizioni, ed è questo che la rendeva viva e curiosa di se stessa, Berlino era la capitale dell’ordine, delle certezze, delle verità tutte d’un pezzo: difficile trovarvi le mezze tinte, impossibile cogliervi l’auto-ironia.

Si dice che la Berlino degli anni Venti del Novecento fosse una città piena di vitalità, di sperimentalismo, aperta alle avanguardie e ad ogni forma di innovazione: ma questa è una mezza verità. La verità completa è che l’anima di Berlino era morta nel 1918 e che la Berlino della Repubblica di Weimar era più simile ad una Kasbah, a un baccanale, a un manicomio: era corrotta e febbricitante, piena di case da gioco e di prostituzione, di faccendieri e d’invertiti; più simile a L’Avana dei tempi di Fulgencio Batista che a una grande capitale europea. Comunisti e nazisti si battevano per le strade, giornali e tipografie erano presi d’assalto, la delinquenza dilagava; e tutti quanti si sprofondavano in gigantesche ubriacature di birra, per annegare angosce e foschi presentimenti. Sì, c’erano le avanguardie artistiche, c’era lo sperimentalismo: nei teatri, nei cabaret, nei ritrovi dei poeti, nei circoli letterari, nelle gallerie d’arte: ma erano avanguardie che i Berlinesi sentivano come corpi estranei, artisti che non rappresentavano il sentire del cittadino comune, ma vivevano in un mondo a parte, che aveva poco a che fare con quello del lavoratore medio.

Anche qui, si potrebbe obiettare che le avanguardie e gli sperimentalismi, per definizione, sono estranei ed ostili alla tradizione; che ciò è fisiologico e non rappresenta affatto una eccezione. Vero anche questo: tuttavia, nessuno potrebbe affermare che Montmartre fosse estranea a Parigi, o che il Parigino medio sentisse i suoi artisti e i suoi poeti come dei corpi estranei, e che non si riconoscesse assolutamente nelle loro opere. Anche quando contestavano e sbeffeggiavano, gli artisti parigini si sentivano figli di una certa tradizione: non venivano dal nulla, ma da Parigi e dalla Francia. Le avanguardie berlinesi erano cosmopolite, nel senso di anti-nazionali: disprezzavano e detestavano la società tedesca e gran parte della cultura tedesca, forse non tanto perché rappresentavano il "nemico" di classe, ma perché avevano condotto la Germania alla sconfitta e al disinganno del 1918. La tradizione tedesca aveva deluso i suoi figli ribelli, come il grande padre freudiano che viene contestato non perché sia autoritario, ma perché si rivela non all’altezza della situazione: un po’ come Nora Helmer, in «Casa di bambola», se ne va dal marito Torvald non perché questi si sia rivelato troppo maschilista (come si ostinano a credere le anime belle della vulgata femminista), ma perché non ha saputo esserlo abbastanza: ha mancato al suo ruolo di "padre" protettivo e rassicurante, proprio nel momento della crisi.

Il fatto che Berlino non ha avuto il suo poeta è altamente significativo del vicolo cieco e della disperazione cui era giunta l’anima tedesca: esisteva un divario incolmabile tra l’intellighenzia e il cittadino comune, perché l’intellighenzia aveva divorziato dalla propria società e si limitava a farne la satira impietosa, a sbeffeggiarla, a parodiarla. Il cittadino comune, disorientato, offeso, abbandonato a se stesso, finì per rivolgersi a coloro che proponevano la restaurazione dei valori tradizionali: cioè ai nazisti. Il nazismo non era un destino né per la Germania, né per Berlino: le classi intellettuali tedesche, e particolarmente berlinesi, dovrebbero farsi un serio esame di coscienza, non per ciò che hanno fatto, ma per ciò che non hanno fatto, quando ne avevano la possibilità. Invece di contribuire a ricompattare e riorganizzare il tessuto sociale, sconvolto dal terremoto del 1914-18, e invece di indicare alla società delle mete realizzabili, condivisibili, unitive, gli intellettuali preferirono disertare e impiegare i loro talenti per aggravare la crisi, per tenere ben aperte le piaghe, per seminare ancora più confusione, incertezza e depressione. Essi, pertanto, accrebbero il vuoto culturale, spirituale, morale, in cui brancolava la capitale, e, dietro ad essa, gran parte della società tedesca.

E tuttavia, lo ripetiamo, il nazismo non era scritto nel destino dei Berlinesi: tanto è vero che esso venne, sostanzialmente, da fuori: da Monaco di Baviera. Venne, e fu accolto come si accoglie il male minore, in presenza di un pericolo grave e immediato, quando già le fiamme incominciano a crepitare e a lambire le prime stanze dell’edificio; quando ancora non si sa che il pompiere è, a sua volta, un forsennato incendiario. Poveri Berlinesi: il loro dramma è stato il dramma dell’Europa contemporanea. E quando l’incendio ebbe infuriato e devastato tutto, e quando non restavano che macerie e rovine fumanti, tra mucchi di cadaveri insepolti, essi dovettero subire ancora l’onta finale: il ritorno della loro concittadina, della grande artista famosa ormai nel mondo, vestita con l’uniforme dell’esercito nemico, che canta e recita per gli occupanti, poi se ne riparte, insalutata ospite, a cogliere nuovi allori ed altri applausi, dagli schermi di Hollywood…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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