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Educare tutta la persona, non solo la razionalità: ripensare la modernità per salvare l’uomo

Nella società moderna, "educare"è diventato sinonimo di educazione dell’intelligenza, della sola parte razionale dell’individuo, anzi, di un solo tipo di razionalità: quella logico-matematica, "positiva", "galileiana", strumentale e calcolante; ma vi è stato un tempo in cui grandi pensatori hanno ben visto che la vera educazione deve, per forza di cose, rivolgersi alla totalità della persona, non solo alla razionalità che descrive oggettivamente le cose, ma anche alla volontà, al gusto, alla sensibilità, alla fantasia, alla creatività, che ci danno lo spessore di un mondo caldo e vivo, tridimensionale, infinitamente attraente e affascinante: .

Fra di essi si annoverano lo spagnolo Baltasar Gracián e il francese Blaise Pascal: due filosofi assai diversi tra loro, ma accomunati dalla medesima passione: ricordare ai loro contemporanei, in pieno secolo della Ragione, che vi sono ragioni che il cuore soltanto conosce, e che la persona è un tutto, fatto anche di razionalità scientifica, non solo di essa; né l’uno, né l’altro, erano dei negatori della ragione o degli avversari della scienza, anzi, Pascal fu egli stesso un grandissimo scienziato: eppure essi videro che il sapere non è vero sapere, senza il comprendere; e che per comprendere le cose, bisogna amarle e accostarle con apertura, benevolenza, attenzione, sensibilità: bisogna accoglierle in tutto il loro "sapore".

Che altro è, infatti, l’esprit de finesse, di cui parla Pascal, se non il sapore delle cose, il gusto delle cose, che la sola ragione matematica è incapace di cogliere, perché ciò non fa parte della sua natura e non rientra nelle sue possibilità? Esiste uno statuto ontologico della ragione calcolante, ed esiste uno statuto ontologico della persona: il conoscere non può essere il conoscere della ragione, perché la ragione, slegata dalla persona, è una mera astrazione: o si conosce con tutta la persona, o non si conosce affatto; e nulla si può conoscere, se si pretende che la sola conoscenza logico-matematica sia capace di offrire le chiavi del reale.

Sapere e conoscenza sono due cose diverse: si può sapere una cosa, senza conoscerla: si può sapere che cos’è la fotosintesi clorofilliana, senza aver mai visto un bosco, anzi, senza aver mai visto un albero; ma è un sapere che rischia di diventare sterile, o peggio: efficace finché rimane entro il proprio ambito specifico, esso diventa improprio e fuorviante se pretende di salire in cattedra e di accreditarsi come la sola e vera forma del conoscere.

Abbiamo lasciato per la strada, nella marcia trionfale dello scientismo e del suo discutibile "progresso", ciò che rappresenta l’essenziale: abbiamo dimenticato l’essere. Perciò tutto è diventato relativo: e anche il sapere ha preteso di estendersi al di fuori del proprio ambito e di assorbire tutta la conoscenza. Ma la conoscenza non può essere assorbita da nulla e da nessuno, tanto meno dal Logos strumentale e calcolante: essa è illimitata e misteriosa, perché confina con l’assoluto, che è al di fuori della portata dell’uomo.

Nondimeno, esiste, nella persona — nella persona tutta intera, e non nella sola parte razionale, anzi, logico-matematica — una tensione, nonché una nostalgia, verso l’assoluto: questa, sì, fa parte dello statuto ontologico della natura umana; e negarla è dannoso, oltre che sconsiderato, perché reprime una facoltà e nega un bisogno che appartengono all’uomo in quanto tale, non a questo o a quell’uomo, non all’uomo di ieri o di oggi o di domani, ma all’uomo di sempre, all’uomo in quanto creatura sensibile, pensante, sognante, amante e adorante.

Pertanto, quando ci si occupa dei problemi relativi all’educazione — ammesso che qualcuno se ne occupi ancora, nella società odierna – non ci si deve preoccupare solamente del sapere del discente, ma anche del sapore delle cose che egli viene ad apprendere: "sapere" e "sapore" hanno, infatti, la stesa radice: una seria educazione al sapere deve essere anche, in parallelo, una costante e attenta educazione al sapore delle cose, al sapore della vita, al sapore e alla bellezza del reale.

Hanno scritto, a questo proposito, Giuseppe mari ed Enza Sarni (in: «Educazione e cultura dal XX secolo a oggi», Brescia, 20012, vol. 2A, pp. 351-352:

«Quella che si rende continuamente manifesta è la complessità del mondo che richiede un pensiero altrettanto complesso e un’educazione che non sia da meno. Comprendiamo, allora, perché si sta esaurendo la spinta della "forma del sapere" che ha guidato la modernità all’affermazione di sé; ci siamo accorti che la scommessa sul metodo "unico", sulla capacità di formalizzare le osservazioni riconducendole al solo linguaggio della matematica, sulla prospettiva di orientare tutto quello che conosciamo nell’unica direzione della trasformazione e manipolazione tecnologica del pianeta e della vita, della società e dell’uomo, comporta un impressionante impoverimento della conoscenza stessa.

Nel momento in cui conta solo ciò che serve, ossia ciò che torna utile, che cosa ce ne facciamo dell’arte? Ma l’arte rimanda alla sensorialità e i sensi al corpo: un mondo che non fa posto all’arte è un mondo in cui non trova posto nemmeno il corpo a meno che non accetti di diventare "cosa" da usare, manipolare, obiettivare. Il problema è che, se trattiamo il nostro corpo o quello degli altri come una cosa, in realtà trattiamo noi stessi — oltre che gli altri — come cose. Ne possiamo essere soddisfatti? Il fenomeno del disagio, cioè delle condotte irresponsabili, segnate dall’alcool oppure dal consumo di sostanze stupefacenti, dal divertimento vissuto come evasione, dall’aprogettualità e dalla violenza, sta a dirci che siamo ben lontani dal trovare soddisfazione nelle cose. Ben inteso, le cose servono, ma appunto perché servono, non sono l’essenziale. Ciò che vale è quello in vista di cui ci si serve delle cose.

Come venire a capo di quella che oggi in molti chiamano "emergenza educativa"? Allargando la razionalità, tornando quindi sulla modernità per vedere se non sia possibile ripercorrerla considerando che il sapere non va ricondotto al potere, come scriveva Francesco Bacone (1561-1626), ma a qualcosa d’altro.

È interessante osservare che la parola "sapere", la quale distingue la nostra stessa specie vivente (Homo sapiens sapiens), è imparentata con la parola "sapore". Che cosa c’è di simile tra due condizioni così diverse, come quelle dell’assunzione della conoscenza e dell’assunzione del cibo? In realtà, le somiglianze sono più d’una. Ad esempio, in entrambi i casi parliamo d "assimilazione", come se volessimo dire che la conoscenza e il cibo devono essere incorporati per avere effetto. Ancora: di una persona che apprezza la buona tavola diciamo che è un "buon-gustaio"; della persona che sa scegliere bene, diciamo che ha "buon gusto"… e si potrebbero fare molti altri esempi. Il sapere e il sapore convergono sull’idea di gusto, che è proprio quella a cui si rifanno coloro i quali, all’interno della modernità, si sono ispirati a una idea di conoscenza diversa da quella che ha prevalso. Quando Baldasa Gracián (1601-1658) afferma che il "gusto" identifica la pratica dell’educazione, intende dire che è l’originalità della persona a essere impegnata nella sfida della crescita e del sapere, e che questa sfida la coinvolge totalmente: nel corpo come nell’anima, nell’intelligenza ma anche nella volontà, nell’affettività non meno che nel pensiero.

Si potrebbe avere il sospetto che si tratti della divagazione di una persona poco attenta alla scienza che della modernità ha rappresentato il vettore principale. Ma questa obiezione non regge se si considera che del "gusto" parla anche Blaise Pascal (1623-1662), scienziato a tutti gli effetti, ideatore della prima macchina calcolatrice, quando scrive dell’"esprit de finesse", il gusto appunto.

Ciò significa che possiamo tornare sulla modernità per farne emergere un vettore rimasto in ombra: quello del protagonismo dell’essere umano giocato, oltre che sul versante della razionalità calcolatrice e tecnica, su quello della razionalità sapienziale e della saggezza. Ne abbiamo bisogno perché le sfide da cui siamo partiti (globalizzazione, complessità, pluralismo…) non si possono affrontare come meccanismi da aggiustare tecnicamente: rimandano infatti alla persona che sa associarvi un significato che va oltre la dimensione materiale della vita e intercetta le domande di senso che solo l’essere umano si pone.»

La modernità non è stata solo quella aperta e indicata da Francis Bacon, per il quale "sapere è potere"; c’è stata anche un’altra maniera di pensare la modernità, e questo fin dai suoi esordi: la maniera di un Baltasar Gracián e di un Blaise Pascal; la maniera dell’esprit de finesse affiancato e complementare, non contrapposto, all’esprit de géometrie. Ed è questa maniera che dobbiamo riscoprire, valorizzare, attuare: senza negare o rifiutare le conquiste valide e positive del pensiero moderno, dobbiamo tornare indietro, invece, là dove il pensiero moderno ha imboccato il sentiero sbagliato, e ricominciare a percorrere la strada giusta: quella della persona umana come totalità, e del conoscere umano come l’atto di apertura della persona nei confronti del reale.

Vi è qualcosa di terribilmente angusto, di terribilmente povero, di terribilmente meschino, nella maniera in cui i pensatori del filone principale della modernità, scientisti e meccanicisti, si sono posti di fronte al reale. Si pensi alla cicala di Galilei, di cui egli parla nella cosiddetta "favola dei suoni", che fa parte del «Saggiatore»: una bestiola che viene vivisezionata, e infine uccisa, affinché lo scienziato possa arrivare a comprendere il segreto dei suoni da essa prodotti. Curiosità che, alla fine, rimane insoddisfatta, senza che allo scienziato in questione — così come ai moderni commentatori di quel brano famoso — sfugga una sola espressione di rimpianto o di rammarico, un solo particolare che tradisca emozione o dispiacere per la sorte dolorosa inflitta a una creatura vivente; per una cosa viva e bella, che ora è morta e non è più bella, è diventata soltanto un moncone straziato e silenzioso.

Ebbene, l’uomo contemporaneo è figlio di Galilei, di quell’atteggiamento duro e insensibile, presuntuoso e arrogante; di quella scienza crudele, che non si cura del dolore da essa provocato; che non prova stupore e ammirazione per le meraviglie del creato, se non da un punto di vista meramente astratto, cioè unicamente intellettuale: mentre il vero stupore è stupore di tutta la persona, stupore dell’anima, stupore da cui scaturiscono, a loro volta, gratitudine, ammirazione, desiderio di lode e di ringraziamento per tutta la bellezza che ci viene offerta, così generosamente, ogni giorno della nostra vita, in qualsiasi luogo e circostanza — solo che noi sappiamo vederla, riconoscerla, apprezzarla.

A forza di considerare il sapere scientifico come un conoscere, anzi, come il solo e legittimo conoscere, abbiamo trascurato e dimenticato il più ed il meglio: abbiamo letteralmente disimparato a percepire le cose nella loro interezza, che è fatta di una parte visibile e di una pare invisibile, di una parte contingente e di una parte assoluta; siamo diventati analfabeti del vero conoscere e siamo sprofondati nell’ignoranza più grossolana circa il mondo in cui viviamo. Mondo che non è fatto solo di cose riducibili a fenomeni: perché il fenomeno può essere spiegato, il mistero no, esso va accettato nella sua smisurata grandezza, che eccede ogni nostra capacità di spiegazione. E le cose, nella loro essenza, sono misteriose; di più: esse sono abitate da un mistero sacro, perché partecipano del divino: chi non riconosce in esse quella scintilla divina, non le tratta con il dovuto rispetto, pretende di conquistarle, di piegarle, di sottometterle al proprio volere, alla propria comodità, al proprio utile. Si comporta verso il reale come un barbaro conquistatore e distruttore, come un Attila o un Gengis Khan, interessato solo all’aspetto visibile e materialmente suscettibile di sfruttamento: atteggiamento che ha prodotto, al culmine di una progressione logica e coerente, il fungo atomico di Hiroshima e Nagasaki e che condurrà il genere umano all’autodistruzione, se non vi sarà un pronto ripensamento di questa strada, arrogante e catastrofica, intrapresa dal pensiero moderno in senso meramente strumentale e calcolante.

Se si ha a cuore il destino dell’uomo, bisogna ripensare alla radice il progetto educativo della modernità; bisogna tornare a parlare ai bambini non solo della scienza, ma del vero, del buono, del giusto e del bello; bisogna togliere i piedi dal terreno scivoloso del relativismo e poggiarli sulla roccia incrollabile dei valori perenni, che hanno il loro fondamento e la loro suprema garanzia nell’Essere. Chi nega l’Essere, nega i valori perenni e crea le premesse per la dissoluzione sociale e morale, per l’auto-annullamento dell’uomo, mediante la sua mortificazione e la sua degradazione…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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