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La lirica di Walther von der Vogelweide celebra la bellezza e la santità della vita

Ancora c’è un’idea, largamente diffusa presso il pubblico di media cultura, che il Medioevo altro non abbia saputo fare che calunniare la vita, maledire le gioie terrene o ritrarsene spaventato, come il pastore allontana il piede dalla serpe che stava, inavvertitamente, per calpestare; ancora vi sono molti che guardano ad esso come ad una lunghissima era di tetraggine e di cupo pessimismo, di rifiuto di quel che di bello, di puro, di luminoso, offre la vita terrena, in nome di quell’altra vita, posta in opposizione ad essa, ma da lei separata mediante gli spettri paurosi e le tormentose angosce del Giudizio finale.

Eppure, a parte l’evidente incongruenza di voler considerare come un unico fenomeno storico ben dieci secoli della vicenda europea — quasi un millennio, che va dalla caduta dell’Impero romano di Occidente e quella dell’Impero romano d’Oriente -, basterebbe pensare al «Cantico delle creature» di san Francesco d’Assisi per rendersi conto che una tale immagine del Medioevo è totalmente falsa e distorta; oppure, per uscire dai limiti geografici e linguistici della nostra Penisola, basterebbe sfogliare le poesie dei trovatori provenzali o quelle dei Minnesänger germanici che scrivevano e recitavano le loro liriche d’amore nella lingua del medio alto-tedesco.

Un posto particolare spetta alle poesie d’amore del più grande poeta tedesco vissuto a cavallo fra il XII e il XIII secolo, Walther von der Vogelweide, nelle quali si raggiunge la perfetta e squisita fusione dei motivi spirituali, di origine ascetica cristiana, e dei motivi edonistici, legati ad un sano, robusto e tuttavia gentile e "religioso" sentimento della vita, della natura, della donna: in una parola, la celebrazione della santità e della bellezza di tutto quel che Dio ha creato sotto il sole, di quell’universo meraviglioso del quale l’uomo è stato fatto l’abitante privilegiato, a immagine e somiglianza di Dio stesso.

La poesia di questo grande lirico tedesco è particolarmente significativa di una esperienza, artistica e umana al tempo stesso, che segna profondamente la cultura europea e che getta arditamente, ma serenamente, un ponte fra la tradizione cristiana medievale ed un nuovo modo di guardare al mondo, alla natura, all’amore e alla donna: senza lasciarsi inebriare in maniera disordinata e senza cadere nell’eccesso di glorificazione della dimensione terrena fine a se stessa, Walther von der Volgelweide contempla con trepida ammirazione la bellezza del mondo terreno, e vede nell’amore e nella donna il frutto più bello, la gemma più preziosa del creato intero, nel quale la stessa bontà e perfezione divine si riflettono gloriosamente. Egli riesce nel miracolo di presentare la donna in tutto lo splendore della carne, senza essere neppure sfiorato dal demone della lussuria; l’amore umano è celebrato come una cosa bella, sana, naturale e gioiosa, niente affatto contraria al volere di Dio, e la donna non è più una creatura inaccessibile, ma una creatura stupenda, che merita tutta la devozione ammirata dell’uomo se sa conservare, pur nell’abbandono della passione, la sua naturale dignità, la sua compostezza, il suo innato pudore. E il miracolo è proprio questo: essere riuscito a descrivere in modo casto il nudo femminile, là dove nessuno aveva osato spingersi, e rimanere in equilibrio fra le due opposte tentazioni di vedere nella donna solo la creatura angelica e asessuata, oppure, al contrario, di umanizzarla troppo e di farne una dea pagana, splendente, sì, ma di una luce ambigua e pericolosa, che non innalza il sentire dell’amante, ma lo abbassa.

Molto chiare ed efficaci, a questo proposito, sono le osservazioni svolte dal germanista Carlo Grünanger dell’Università di Milano, nella sua classica monografia «La letteratura tedesca medievale» (Edizioni Sansoni/Accademia, 1967, pp. 177-9):

«Il grande conflitto fra l’amor cortese e l’amore di dedizione è superato e vinto solo nell’opera dei due massimi poeti dell’età sveva, Walther von der Vogelweide (circa 1170-circa 1230) e Wolfram von Eschenbach, nella cui personalità morale e artistica il "miles" si immedesima col "poeta".

Figlio della "Felix Austria", che, pur tenendo fede alla tradizione nazionale germanica, ha saputo conservare in ogni tempo un sano equilibrio spirituale, Walther combatte fino dagli anni giovanili su due fronti la sua buona battaglia spirituale per il rinnovamento della lirica tedesca: contro il rigorismo degli asceti, che condannavano i canti d’amore come fonte di corruzione e di peccato e in pari tempo contro il suo emulo Reinmar, ch’era già stato suo maestro, opponendo all’evangelo del "cruciato martire" della "hohe Minne" una concezione più umana dell’amore. L’amore non è peccato, ma è fonte di virtù e di perfezione: pecca anzi chi osa affermare il contrario. Agli uni e agli altri, agli ottusi denigratori e ai ciechi adoratori della nuova dea, egli oppone scolasticamente il suo "distinguo", il suo "scheiden": non a tutte le donne d’alto lignaggio spetta la lode e l’omaggio del poeta, ma solo a quelle che in ogni atto della loro vita si lasciano guidare dall’innato senso della "Scham", del pudore, e serbano il cuore puro da ogni macchia. Il corpo è il tempio della spirito, e quando questo è incontaminato, tutti i veli possono cadere; onde il pota può rappresentare la sua donna, in una poesia giovanile, cantata alla stessa corte di Vienna, il cui poeta ufficiale era Reinmar, con inaudito ardimento, mentre esce ignuda, "tutta pura", dal bagno. Ma questo può fare perché nelle strofe precedenti ci ha descritto a una a una le bellezze di quel corpo come l’opera più perfetta di Dio.

Anche la carne è santificata dal dito dell’Artefice eterno, che gode della sua creatura e in lei si rispecchia, come effonde la sua luce in tutto l’universo:

"Con quanta arte Iddio ha formato quelle sue tenere gote, come le ha dipinte coi più preziosi colori, il candore del giglio e lo smagliar della rosa! Se non fosse peccato, oserei quasi dire che in eterno vorrei vagheggiarle: vista per me più graziosa e più cara del cielo e delle stelle dell’Orsa."

E quando, compiuto ormai il ciclo evolutivo della sua arte e adeguati […] i mezzi espressivi della realtà affettiva, Walther ritorna ancora una volta alla poesia d’amor cortese, la donna gli riappare, in quella delle sue canzoni che, accanto alla ballata "Sotto il tiglio", può definirsi il suo capolavoro, in questa stessa luce: come la "domina", la "frouwe", non più di una corte comitale o principesca, ma di tutto il creato, che nella gran festa dell’esultante maggio, mentre i fiori fan capolino dall’erba e gli uccellini cantano le loro melodie più belle, passa, umile e alta, bella e pudica, tra gli sguardi estasiati di una folla che a lei s’inchina, volgendo a ora a ora all’intorno il suo fulgido sguardo, come il sole risponde al saluto delle stelle. Nell’ora di grazia in virtù di una catarsi non più estetica, ma cosmica e cristiana, la creatura in sé beata è vista dal poeta, con trepido riverente affetto, come la novella Eva, sullo sfondo della natura trasfigurata in un nuovo Eden: lontano preannuncio del grande sogno rinascimentale.

Il paragone, gradualisticamente concepito e svolto, fra la bellezza della donna e la bellezza della natura, ora, nella piena maturità dell’arte waltheriana, che affonda ormai le sue radici nella concreta realtà dell’essere, non può che culminare nell’invito, rivolto a tutti gli astanti, ad uscire dalla cerchia delle mura nell’aperta campagna, per convincersi coi propri occhi che la donna gentile è veramente nel mondo regina. E la chiusa scherzosa — "Messer Maggio, e cangiatevi pure in Marzo, ch’io non lascerò per questo la donna mia!" — è il suggello inconfondibile di una poesia la quale, poggiando saldamente nell’ordine dei valori da Dio "ab aeterno" costituiti, è sicura di sé e pienamente consapevole della sua nuova missione: la celebrazione della gloria dell’Uomo, che Iddio ha posto, secondo le parole del Salmista, "a capo delle opere delle sue mani, tutto a lui sottomettendo": Umanesimo cristiano.»

La donna, dunque, per Walther von der Vogelweide, è, sì, una nuova Eva, ma non la tentatrice, non colei che si frappone, come un elemento d’impaccio, fra l’uomo e Dio, fra la nobiltà del sentire e il torbido richiamo dei sensi; bensì una Eva restituita all’innocenza originaria, pura come era uscita dalle mani del Creatore, ammantata di beltà, ma anche d’innocenza: innocenza nel suo incedere nuda. E come nel libro della «Genesi» è detto chiaramente che Adamo ed Eva si vergognarono e corsero a coprirsi, dopo aver trasgredito al comando divino, perché solo allora si accorsero di essere nudi, così nei versi di questo grande poeta medievale, che canta l’amore con la libertà, l’empito e la scioltezza gioiosa di cui non son capaci i trovatori provenzali, tutti invischiati nel loro "male d’amore", tutti macerati nella loro pena segreta, l’uomo e la donna si ritrovano come se il dramma della caduta fosse stato lasciato alle spalle e come se la ferita della cacciata dall’Eden si fosse pressoché rimarginata.

Di nuovo, come dovette avvenire all’alba della Creazione, l’amante e l’amata possono guardarsi senza vergogna, possono giacere senza rimorso, possono godere senza turbamento: essi rappresentano una umanità pacificata, rasserenata, proiettata in avanti, verso la vita, e che sa gioire di tutto ciò che giunge ai sensi: dalla vista, dall’udito, dall’olfatto, come in una festa primaverile di bellezza, come quella dei corpi nudi che si cercano, di suoni, come quelli degli uccelletti che cantano sui rami, e di profumi, come quelli che esalano dai cento e cento fiori colorati in mezzo al prato. Altro che cupo Medioevo, altro che repressione, malinconia, senso del peccato;: l’amore naturale fra l’uomo e la donna non può essere un male, perché sorride alla vita e riconcilia con essa, in una atmosfera così trepidante e rarefatta, da far pensare a quella di un rito sacro, di una cerimonia religiosa.

Certo, Walther von der Vogelweide non rappresenta tutta la cultura, né tutta la poesia del suo tempo; pure, nella sua lirica tesa e pure senza sforzo, nei fremiti di gioia e d’esultanza che si sprigionano da essa, nel sentimento umanissimo, caldo, appassionato che celebrano, noi sentiamo che risuona una nota certamente nuova, come osserva il Grünanger — una nota già quasi umanistica, di lode al mondo e alla vita nel loro significato e nel loro valore autonomo; ma anche una nota antica, da tempo immemorabile conosciuta e mai del tutto dimenticata: quella, per intenderci, del biblico «Cantico dei cantici», ove l’amore umano è celebrato con altrettanta freschezza e delicatezza, ma anche con immagini audacissime nel loro candido erotismo, e nel quale le bellezze femminili sono, lì pure, enumerate ad una ad una, mediante le allegorie più poetiche e gli accostamenti più originali, senza che ciò tolga dignità, pudore o delicatezza al mistero dell’amore e della donna.

Bisognerebbe andare cauti, pertanto, nel parlare di pre-umanesimo nell’opera di scrittori e poeti medievali, come Walther der Vogelweide; a meno, beninteso, di considerare tutto, o quasi tutto, il Medioevo, come una lenta, e tuttavia sicura, transizione e preparazione all’Umanesimo: poiché l’Umanesimo non nasce dal nulla e la celebrazione della vita terrena, dell’amore umano e della bellezza femminile, viste come cose buone in se stesse, non appartiene solo all’Umanesimo, ma è già presente in un robusto filone della poesia medievale, di cui il Nostro è un esempio insigne, non però unico o stonato.

Di suo, Walther von der Vogelweide mette, nel delicato sentimento d’amore che promana dai suoi versi, così come nel fresco e vivo rapporto con il mondo della natura, una spontaneità, una grazia, una sensibilità, ma soprattutto una benevolenza e un senso della misura, che fanno di lui uno dei massimi poeti dell’intera letteratura europea: un poeta che il grande pubblico conosce poco solo a causa dei vieti pregiudizi che gravano, fin dalle aule scolastiche — grazie all’opera nefasta di professori "progressisti" e neo-illuministi — sull’intera cultura medievale, dalla filosofia alla teologia, dall’arte alla poesia. Se si conoscesse meglio quella cultura, si proverebbe uno stupore più contenuto, o non ci si stupirebbe affatto, davanti ai versi, apparentemente così trasgressivi, di un poeta come il Nostro: ché il Medioevo è stato meno bigotto, meno retrivo, meno chiuso, di quel che amano dipingerlo molti intellettuali e storici moderni.

Ecco, il Medioevo è stato anche questo: non solo castelli turriti e cattedrali severe; non solo prediche e penitenze; non solo austerità e senso del peccato: ma anche celebrazione della gioia dei sensi, nella cornice più ampia di una celebrazione delle cose create e quindi, indirettamente, anche del loro Creatore. Come è giusto che avvenga in un contesto di poesia profana. Ma la distinzione fra sacro e profano, contrariamente a quel che si può immaginare, non è poi così rigida; e ciò vale in entrambe le direzioni: perché il sacro spiritualizza il profano, ma questo umanizza e santifica quello.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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