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Ma quanta supponenza politicamente corretta nel giudizio di Antonino Pagliaro su Carducci

I testi scolastici e universitari sui quali hanno studiato almeno un paio di generazioni di studenti italiani, dopo la seconda guerra mondiale e specialmente a cavallo del ’68, sono stati il principale e più efficace strumento di condizionamento culturale, intellettuale e spirituale con cui l’egemonia della sinistra marxista si è insediata, consolidata e perpetuata, sfornando milioni di diplomati e laureati fabbricati con lo stampino, tutti politicamente allineati e corretti, tutti debitamente progressisti e "rivoluzionari", tutti convinti della propria intrinseca superiorità morale su qualunque esponente della infame società borghese.

In quel clima di conformismo piatto, assoluto, becero, nel quale i professori e gli studenti di diverso orientamento venivano sistematicamente bollati come "fascisti", e nel quale il delirio demagogico della sinistra era giunto al punto di introdurre nei programmi scolastici autori ed eventi che oggi, giudicati con un minimo di pacatezza e di obiettività, non meriterebbero di comparire nelle antologie e nei testi di storia e filosofia, se non come triste documentazione di un pensiero e di una pratica aberranti, si sono gettate le durature fondamenta di una sistematica distruzione del senso critico, della vera autonomia di giudizio, della pura e semplice capacità di pensare — se pensare è esercitare una riflessione autonoma sul reale e non ripetere sciocche formule imparate a memoria o, tutt’al più, emettere, di volta in volta, giudizi e pregiudizi stereotipati e prodotti in serie, ma, beninteso, sempre politicamente corretti e dunque, senz’altro, giusti e veritieri.

Si prenda, a titolo di esempio — uno su mille, uno per capirli tutti – il giudizio su Giosue Carducci espresso dallo storico della letteratura, nonché linguista, glottologo e orientalista, Antonino Pagliaro: una delle figure di spicco della cultura politicamente corretta durante gli anni dei quali stiamo parlando (da: A. Pagliaro, «Storia di Carducci», in «Ritratto di Manzoni e altri saggi», Bari, Laterza, 1960, pp. 223-225):

«Questa involuzione è evidente, e documentabile, sul terreno ideologico nel suo complesso, in tutti i campi e gli aspetti della vita culturale letteraria ed artistica italiana, ed evidentissima nel Carducci. A questa involuzione corrisponde, dal punto di vista dell’arte, un impoverirsi e restringersi della materia sentimentale, del lievito umano e poetico; una carenza affettiva e un ristagno formale; un distacco sempre più grave dai temi della vita reale, che si risolve di volta in volta nel conformismo della rettorica o nell’abbandono ai miraggi dell’evasione, del sogno. In questo senso il Carducci fu veramente il poeta rappresentativo di un momento della nostra storia: il giacobino Carducci prima, e poi il Carducci retore e filisteo della fine del secolo. In lui, ad accelerare e aggravare il processo involutivo, s’aggiunse anche il carattere fin dal principio tutto letterario, e pertanto più povero, più chiuso, più indiretto, della sua esperienza (a paragone, per esempio, degli "scapigliati"): donde anche la portata minore e la manifesta sterilità del suo esempio.

Eppure proprio questo Carducci precocemente decaduto fu, e in parte ancora resta, il più ammirato (non si dice già dai letterati di gusto più scaltro). Questa singolare fortuna è incominciata dal momento in cui tutta l’Italia peggiore, quella dei salotti e della accademie, dei professori e delle signore per bene, della rettorica provinciale e della demagogia nazionalista, credette d’aver trovato finalmente il suo poeta, si riconobbe in lui e intorno a lui si raccolse per festeggiarlo ed acclamarlo. Senonché proprio questa ammirazione unanime, in cui si trovavano e si trovano d’accordo cattolici e massoni, monarchici e mazziniani, e i retori di tutte le tinte e di tutte le razze, era la miglior prova del fallimento della sua ambizione di vate, dell’inconsistenza del suo professato e ostentato magistero civile.

A noi piace invece dimenticare questo Carducci dei giorni festivi e tornare, se mai, a rileggerci le scarse rime della sua stagione migliore, e ritrovare quel piglio aggressivo, quella scontrosa tristezza, quella musica virile e un po’impacciata, un po’ ingenua e goffa, in cui veramente possiamo riconoscerlo ed amarlo poeta. Poeta minore, abbiam detto: e crediamo che sia l’unico modo di affermare con sincerità, e non per una pigra consuetudine, le ragioni per cui il suo dono ancora vive in noi e il suo nome dura. Forse egli stesso, quando si paragonava ai più veramente grandi, ai classici, non avrebbe potuto e saputo sperare un riconoscimento maggiore.»

Ebbene, se non temessimo di lasciarci trasportare troppo dalla vis polemica che questa pagina di prosa suscita in noi, vorremmo affermare che si tratta del più perfetto esempio di come non si debba fare – mai, per nessuna ragione — la critica letteraria; su come non ci si debba accostare a un autore, a un movimento, a un testo letterario, beninteso se si desidera davvero capirne qualcosa; su come non ci si debba porre, in sede critica e storica, nei confronti dell’oggetto del proprio studio e della propria ricerca, sia sul terreno specificamente tecnico — in questo caso, letterario — sia su quello più generale, di natura intellettuale, culturale, spirituale ed, eventualmente, morale.

Che il panorama letterario italiano di fine Ottocento manifesti i segni di una complessiva involuzione, e che Carducci ne sia l’esempio più vistoso, questo è un giudizio personale dell’Autore: e i giudizi non si buttano lì, si argomentano; come minimo, si fa capire al lettore come vadano interpretati. Di quale involuzione parla, il signor Pagliaro? Di una involuzione specificamente letteraria, o, alla maniera del De Sanctis — pensiamo alle sue pagine dedicate a Marino e al marinismo — di una involuzione assai più ampia, spirituale, morale e quasi, alla fine, antropologica? Si direbbe che egli pensi all’una e all’altra cosa; ma soprattutto ad una involuzione ideologica e politica: gli è difficile mandar giù l’amaro boccone di un Carducci che, giacobino e rivoluzionario da giovane, diventa poi un uomo d’ordine, un poeta per le classi dominanti. A questo proposito, egli adopera un’espressione che è, storiograficamente parlando, del tutto inaccettabile: quella dell’Italia peggiore.

Veniamo così ad apprendere, dalla bocca di un autorevole critico e storico della letteratura, che il compito di colui che si accosta ad un testo, a un autore o a un movimento letterario, non è quello di capirlo, di valutarne i pregi e i difetti di forma e contenuto, la maggiore o minore riuscita espressiva di una certa idea o di un certo sentimento; no: è quello di ergersi a giudice di un tribunale etico, nel quale si chiamano all’appello gli scrittori e li si smista in due grandi categorie: quella di coloro che hanno militato a favore dell’Italia migliore e quelli che hanno degradato il loro ingegno al servizio dell’Italia peggiore. Migliore e peggiore rispetto a chi, a che cosa? Non rispetto al fatto letterario; non rispetto all’arte; non rispetto alla cultura, al pensiero, al dibattito culturale: ma rispetto ad un complessivo modo di essere, insomma in senso sociologico e antropologico.

Infatti, qualora l’espressione non fosse sufficientemente chiara, il Pagliaro la delucida con dovizia di specificazioni: l’Italia peggiore è «quella dei salotti e delle accademie, dei professori e delle signore per bene, della rettorica provinciale e della demagogia nazionalista». Non di certi salotti e di certe accademie; non di certi professori e di certe signore per bene (per bene, evidentemente, per modo di dire); no: di tutti i salotti e di tutte le accademie, di tutti i professori e di tutte le signore per bene. Parola di professore: che fu non solo docente universitario, ma presidente e collaboratore di numerose istituzioni culturali alquanto prestigiose, e, fra le altre, della Accademia dei Lincei. Ma perché tutti costoro — i professori, gli accademici, le signore dei salotti bene — rappresentano, presi insieme, l’Italia peggiore? Semplice: perché tutti costoro coltivavano i due orribili vizi della "retorica provinciale" (fosse stata una retorica di respiro più ampio, almeno!) e della "demagogia nazionalista". Con il che, il professor Pagliaro lascia cadere la maschera dello studioso, che vuol capire le cose, e indossa quella dell’ideologo fazioso, che ha deciso chi siano i buoni e i cattivi, politicamente parlando, e riserva ai secondi tutto il suo più sentito disprezzo.

Se quei professori e quelle signore, se quegli accademici e quei frequentatori di salotti, avessero almeno praticato un altro tipo di demagogia, che non quella nazionalista! La demagogia nazionalista è una cosa di destra; non potevano almeno, tutti quei signori e quelle signore, indulgere a una qualche forma di retorica di sinistra, per esempio alle chiacchiere sulla rivoluzione socialista che nessuno, e loro meno di tutti, avevano intenzione di fare? Però, intanto, parlarne era una cosa fine: come era giusto rovesciare tonnellate di biasimo e disprezzo sull’infame borghesia, la classe dei parassiti e degli sfruttatori, la classe dei nemici del popolo, degli oscurantisti clericali, dei biechi capitalisti e dei feroci reazionari: da Gramsci a Bordiga, da Nanni Balestrini a Toni Negri, è questa la categoria degli intellettuali che piace agli studiosi politicamente corretti.

Strano, però: ci risulta che il professor Pagliaro abbia avuto grandissimi onori dal fascismo; che ne sia stato un esponente di spicco; e che abbia persino apposto la sua firma sul famoso Manifesto della Razza. Non che sia stato uno dei pochi; era in buona compagnia: furono in 360 i professori universitari italiani che aderirono a quel documento. Lungi da noi volerli criminalizzare in blocco: chiunque può sbagliare. Solo che certi sbagli dovrebbero insegnare un poco di modestia, un poco di umiltà, e almeno un poco di prudenza. Ma così, evidentemente, non è stato per il professor Pagliaro: aveva troppo furor sacro da sfogare contro l’Italia peggiore, e il povero Carducci si prestava magnificamente alla bisogna. Dovremmo chiamarli intellettuali da guerra civile: sono coloro — e oggi seguitano a dominare la cultura italiana, le università, le accademie ed i salotti — che non pensano mai in termini unitivi, positivi e costruttivi, ma sempre e solo in termini oppositivi, di rancore e di acrimonia per quanti non la pensano come loro. Sono i signori del no: i cattivi maestri della negazione, del rifiuto, del disprezzo; quelli che considerano un’offesa anche il semplice sospetto che, su una determinata questione, il loro punto di vista possa assomigliare, anche solo parzialmente, a quello degli altri, dei peggiori, degli odiosi reazionari, oscurantisti e clericali. Che ammorbano l’aria e che dovrebbero sparire tutti e liberare l’Italia della loro mefitica presenza. O forse no. Se sparissero, contro chi si scaglierebbero i migliori, come il professor Pagliaro? Se scomparisse l’Italia peggiore, come potrebbe risplendere di luce radiosa l’Italia migliore, delle quale essi si sono auto-proclamati i custodi, i paladini e i trombettieri? Chissà: forse è proprio il loro passato imbarazzante che li rende così acidi. Pagliaro fu sospeso per due anni dall’insegnamento universitario, dal 1944 al 1946, proprio per i suoi trascorsi e anche, crediamo, per quella benedetta (o maledetta) firma; poi venne reintegrato e riprese a tenere cattedra. Dal 1951 insegnò Filosofia del linguaggio alla Sapienza di Roma: colpo di spugna sul passato; ogni debito rimesso.

A noi va benissimo: non siamo certo favorevoli alle epurazioni degli uomini di cultura per ragioni ideologiche. Però, si potrebbe anche avere un po’ di discrezione, un po’ di buon gusto, un po’ di decenza. Come fa a puntare il dito contro l’Italia peggiore, uno che ha firmato il Manifesto della Razza? Questo vuol dire andarsele a cercare. Ti è andata bene; dovresti solo ringraziare la buona sorte (ad altri non è andata così liscia: e il povero Giovanni Gentile, che predicava la riconciliazione nazionale in piena guerra civile, è stato assassinato a freddo). Invece, no: vuoi montare in cattedra, vuoi giudicare gli altri, vuoi sputare addosso a chi ha avuto responsabilità, se pure ne ha avute, ben minori delle tue. Diciamo che tutto questo non è da gentleman, per usare un eufemismo.

Ah, un’ultima cosa. Su Carducci poeta, noi la pensiamo più o meno come Pagliaro: c’è un Carducci trombone, che è stato enormemente sopravvalutato a suo tempo; e c’è un Carducci poeta autentico, sommesso, virile, umano, che, dopo le troppo facili stroncature, andrebbe ristudiato e rivalutato. Insomma, il Carducci vate dei destini nazionali era un cattivo poeta; ma il Carducci di «Pianto antico», no: quello è stato un grande poeta, che ha tuttora qualcosa da dire ai suoi lettori. E siamo anche d’accordo, in buona sostanza, sul giudizio negativo circa i salotti, i professori, le accademie e le signore per bene. Ma con una piccola differenza. Queste cose si possono dire se non si mangia a quella tavola, se non si fa parte di quel mondo: primo. Secondo, se l’antipatia ideologica, o personale, non fa velo al proprio giudizio critico: al giudizio letterario, culturale, storico, filosofico. Con le simpatie e le antipatie non si va lontano. Si va lontano quando si lasciano cadere le bardature ideologiche e si va diritti verso il cuore delle cose. Perché la verità non è di destra o di sinistra e non appartiene ad alcuno; non è esclusiva di questa o quella ideologia, né di questa o quella fazione…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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