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Costantino o Giuliano, chi ha avuto ragione?

Chi ha avuto ragione, Costantino Giuliano? L’imperatore che ha iniziato la cristianizzazione dell’Impero Romano, oppure l’imperatore che l’ha avversata con tutte le sue forze e perseguito l’estremo tentativo, chiaramente impossibile perché ormai anacronistico, di operare una piena restaurazione del paganesimo?

Posta così la domanda, potremmo anche dubitare di riuscir mai a formulare una risposta. Bisogna vedere, innanzitutto, che cosa si intenda, nell’ambito della storia, con l’espressione "aver ragione". Se si intende la circostanza che i fatti vengano a confermare, o a smentire, certe intuizioni, certe idee, certe linee politiche, strategiche, culturali, allora rischiamo, evidentemente, di cadere in una specie di adorazione dell’esistente: è giusto e vero quel che è accaduto; era falso e sbagliato quel che non ha avuto seguito. Questa è l’impostazione della filosofia idealista: tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale. Noi, però, non ne siamo affatto persuasi: in fondo, si tratta di un misero senno del poi. Troppo facile, troppo banale: e, quel che più conta, filosoficamente discutibile — a dir poco.

Oltre a ciò, vi è una ulteriore difficoltà, per quanto riguarda il divenire storico. Che cosa si intende per "successo", nell’ambito della storia? Ha successo chi vince, e insuccesso chi perde? Ma cosa vuol dire "vincere" e cosa significa "perdere"? Si può vincere perdendo, e perdere, vincendo? Per dirla in termini più espliciti: non potrebbe darsi che il vincitore materiale risulti poi soccombente sul piano spirituale, e che, addirittura, il vinto lo conquisti e lo assimili? In effetti, è successo, e non poche volte: «Graecia capta ferum victorem cepit», scrisse Orazio (Epistole, II, 1, 156): «La Grecia, conquistata, conquistò il feroce vincitore», ossia i Romani. E Gesù Cristo, non vinse forse la sua battaglia e non conquistò il mondo, morendo sulla croce, proprio là dove era parso che Egli toccasse il fondo della sconfitta, dell’abbandono e dell’umiliazione?

Ma ora torniamo a Costantino e Giuliano. Costantino, come è noto, non fu un imperatore cristiano (si fece battezzare solo in punto di morte, nel 337, cioè ventiquattro anni dopo aver promulgato il cosiddetto editto di Milano); e, quanto al cristianesimo, non è esatto che egli lo abbia elevato al ruolo di religione ufficiale dello Stato, tant’è vero che conservò la carica di Pontefice massimo del paganesimo. E non è neanche vero che egli, alla battaglia di Ponte Milvio, o in qualsiasi altra occasione, abbia fatto incidere il monogramma cristiano sulle insegne del suo esercito: pare, invece, che abbia adottato un simbolo che poteva anche essere interpretato come un simbolo solare, cioè del culto del Sol Invictus – la religione allora, probabilmente, più diffusa in seno all’esercito romano, sul quale egli basava la sua forza -, giocando abilmente sul fattore ambiguità.

Il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero, l’unica consentita, solo molto più tardi, e cioè con l’editto di Tessalonica del febbraio 380, promulgata da Teodosio, l’ultimo imperatore che ebbe l’abilità di riunificare, ma per pochissimo tempo, le due partes dello Stato, quella d’Orientate e quella d’Occidente; nel mezzo, la breve parentesi neopagana di Giuliano, che i cristiani soprannominarono l’Apostata, durata appena diciotto mesi (361-363), con il suo generoso, ma irrealistico tentativo di ripristinare il paganesimo e di ostacolare e limitare al massimo, pur senza perseguitarlo in maniera esplicita, il cristianesimo. Tentativo che fallì tragicamente con la sua morte: ed essendo egli caduto in combattimento durante una campagna contro i Persiani Sassanidi, non è mancato chi, sulla base di alcune voci sussurrate fin da allora, mai però pienamente dimostrate, ha supposto che la lancia che lo ferì a morte sia stata scagliata non da un nemico, ma proprio da un soldato romano di religione cristiana, deciso a impedire l’attuazione della restaurazione pagana. Se Giuliano, infatti, fosse ritornato vittoriosa dalla guerra, sarebbe stato più difficile bloccare il suo disegno religioso. Ma a questa ipotesi si oppone il fatto che, quando Giuliano rimase mortalmente ferito sotto le mura di Ctesifonte, la campagna militare era già virtualmente fallita e che egli non sarebbe comunque ritornato vincitore da essa: al massimo, avrebbe potuto patteggiare un armistizio con il re sassanide, Sapore, per riportare indietro le truppe alle condizioni meno onerose possibili, stante l’insuccesso del suo disegno strategico e l’imprudenza di essersi avventurato in pieno territorio mesopotamico senza disporre di un adeguato supporto logistico.

Dunque, la domanda che ci ponevamo è a chi dei due, Costantino e Giuliano — che erano, strani scherzi del destino, zio e nipote — la storia abbia dato ragione, cioè quale delle loro rispettive politiche si sia dimostrata più lungimirante e abbia dimostrato di aver resistito meglio, una volta poste alla prova dei fatti. Che la politica di Giuliano sia stata un completo fallimento, sia dal punto di vista immediato, sia sul lungo periodo, è cosa evidente e non vi è bisogno di dimostrarla: il paganesimo era ormai una religione moribonda — o, per dir meglio, una insieme alquanto commisto di religioni moribonde, o, comunque, incapaci di rigenerazione ed ulteriore espansione — e nessuno avrebbe potuto salvarlo dall’estinzione finale. Ci si può chiedere, semmai, se l’Impero Romano avrebbe potuto trarre qualche vantaggio da un ulteriore, deciso sforzo del potere nel solco della riforma di Diocleziano e Massimiamo, ossia nel tentativo di instaurare il principio della successione non in senso dinastico, ma in base al merito, sulla scala della "tetrarchia" o governo di quattro sovrani, invece di perseguire il sogno di ripristinare il centralismo ereditario costantiniano; e, più ancora, se sarebbe riuscito a ricompattarsi facendo perno su dei culti pagani, come quelli di Mitra o del Sole Invincibile, invece che sulla nuova religione cristiana, la quale — giova ricordarlo – si poneva, almeno inizialmente, in forte discontinuità con la tradizione religiosa romana e con tutte le tradizioni religiose dell’area mediterranea, giudaismo compreso (o, per meglio dire, soprattutto il giudaismo: dal quale era nato, ma da cui si era radicalmente discostato).

Per impostare la riflessione nella maniera più chiara, riportiamo una pagina dello storico contemporaneo Charles Dufay, nella introduzione alla sua monografia «L’impero cristiano» (che fa parte della «Storia moderna di Roma antica» diretta da François Mabit, Ginevra, Edizioni Ferni, vol. 7, 1974, pp.7-10):

«A tutta prima il lettore potrà pensare che, se è giusto parlare di fallimento a proposito del progetto di Giuliano, non altrettanto lecito è tale giudizio se riferito all’opera politica di Costantino. Dopo tutto Giuliano, con la sua azione volta a restaurare il paganesimo e l’antico spirito religioso romano, intendeva proprio contrapporsi alla svolta impressa da Costantino alla storia dell’impero, approdata con lui e con il celebre editto di Milano del 313 all’alleanza con il cristianesimo. È a questa idea, certo grandiosa e piena di conseguenze, che Giuliano oppone l’idea, non meno generosa, di una grande sintesi spirituale di tutto il paganesimo e dei suoi aspetti migliori, quella sintesi che, sul piano culturale e sempre in opposizione alla dottrina cristiana, veniva tentata in quegli stessi anni dalla filosofia neo-platonica. Quella di Giuliano è così una inversione di tendenza e insieme un ritorno all’antico, sulla base di un ideale filosofico non meno alto e nobile di quello cristiano. Ora Giuliano, come si sa, soccombette dopo solo due anni di regno e il suo impossibile sogno di restaurazione moriva con lui: esso usciva dalla realtà della vita nella quale aveva condotto un’esistenza breve e precaria, per consegnarsi alla memoria dei libri e della storia. Sembrerebbe dunque che Costantino abbia alla lunga trionfato e cioè che la sua idea di sostituire – per salvare l’impero – a una base pagana una base cristiana, debba considerarsi come l’idea vincente, l’intuizione giusta, adeguata ai tempi e ai problemi, nata dalla realtà delle cose  e degli uomini, e non dalle pagine dei libri cari ad un improbabile imperatore-filosofo. In certo modo le cose stanno anche così, ma questa non è però la verità tutta intera. Sino a che punto il cristianesimo diede all’impero nuova linfa vitale, nuova energia, nuove capacità di resistenza? È difficile dirlo. Resta però il fatto che dal connubio con l’impero il cristianesimo trasse il massimo di vantaggio e di forza espansiva, mentre l’impero non ritardò, se non di poco  una fine evidentemente già segnata, sicché, guardando le cose da un altro punto di vista, non sarebbe poi tanto sbagliato dire che, attaccandosi all’albero dell’impero, la vite del cristianesimo ha contribuito a disseccare l’albero e a farlo morire. Nella misura in cui anche questo è vero (nella misura in cui l’impero romano e tutto il pensiero politico, filosofico, giuridico e religioso antico erano incompatibili con lo spirito del nascente cristianesimo), allora Giuliano, per quanto sconfitto, ha più ragione di Costantino e Costantino, sebbene trionfatore, è alla fine uno sconfitto, almeno quanto Giuliano. Gli storici si sono a lungo affaticati nel tentativo di precisare la posizione personale di Costantino di fronte al cristianesimo: si convertì egli veramente e sinceramente alla nuova fede? Riuscì a comprenderne appieno il messaggio? Oppure la sua fu soltanto  abile tattica politica e opportunismo di facciata? Possiamo tranquillamente lasciare queste domande senza risposta, rinunziando a farci indovini dei moti segreti di un’anima, tra l’altro così lontana da noi nel tempo e nei costumi;  resta il fatto che Costantino intese servirsi del cristianesimo come sostegno dell’impero, non esitando, in varie circostanze, ad assumere atteggiamenti autoritari e persino minacciosi per imporre un suo controllo, evidentemente politico prima che morale, anche sulle faccende della Chiesa e sulle questioni della fede, oltre che, come era ovvio, sulle faccende dello Stato Pensiamo allora a due episodi: l’orribile strage, dopo la morte dell’imperatore, di tutti i familiari di Costantino e, quaranta anni dopo, la tragica disfatta di Adrianopoli, dove gli Unni  [sic; in realtà, i Visigoti]  uccisero in battaglia lo stesso imperatore Valente (378 d. C.). In quei quaranta anni di intervallo, a parte la parentesi di Giuliano che fa storia a sé, l’impero cristiano voluto e concepito da Costantino continuò a precipitare sempre più in basso verso la catastrofe. Teodosio, con la sua energia, riuscì a compiere l’ultima, miracolosa, e tuttavia effimera resurrezione. La lunga agonia del colosso ferito a morte doveva durare ancora per quasi un secolo, sino all’ultimo grottesco e fatale singulto con quella parodia di imperatore che fu l’ignaro Romolo Augustolo, giovane ed inconsapevole figlio di un capo barbaro in vena di commedie. Ebbene, che cosa è tutta questa amara vicenda, in cui ogni civiltà e decoro umano a poco a poco si spengono, in cui tutto ciò che il mondo antico stimò nobile, degno di lode, piacevole, giusto, impallidisce e scompare per sempre, inghiottito dal’immane gorgo della notte barbarica e dell’incipiente medio evo, che è tutto ciò se non la riprova che il sogno di Costantino, il sogno di un impero romano che il cristianesimo, divenutogli amico ed alleato, contribuiva a rendere più universale e più dolce, era appunto un sogno e, come tutti i sogni, un’impossibile utopia? Non è allora, alla lunga, Costantino sconfitto quanto e più di Giuliano, coerente almeno nella sua alternativa di restaurazione o di morte? Due sogni, dunque, due nobili propositi che il carattere dei tempi e le forze umane non poterono tradurre in una realtà durevole. Ma che cosa è durevole nella storia? E non è forse essa, almeno in gran parte, un susseguirsi di sogni di età felici, giuste, pacifiche, e poi di bruschi e amari risvegli in mezzo alle guerre, alle desolazioni e alla morte? L’uomo sogna; cioè vive, sognando una vita diversa e migliore ed operando per realizzare i suoi sogni; il che lo fa scontrare fatalmente coi sogni e le intenzioni di altri uomini. È forse proprio questo che si intende quando si dice che l’uomo, animal rationale, è anche un animale "storico", cioè capace di storia, soggetto e insieme oggetto di essa.»

Due sogni, dunque, sia quello di Costantino che quello di Giuliano? Senza scomodare Shakespeare, Calderon de la Barca o Pirandello, ci sembra che non si dovrebbe confondere qualunque realtà con un "sogno"; nell’ambito politico, in modo particolare, un sogno è l’equivalente di una politica velleitaria e impulsiva, ma non qualsiasi politica può essere definita "sogno", solamente perché i suoi risultati non sono stati pari alle attese. Se è corretto, pertanto, definire "sogno" la politica imperiale di Giuliano, dato che essa si basava su presupposti errati e su un supporto sociale e culturale insufficiente, non altrettanto è lecito per quella di Costantino, che ridiede nuovo vigore allo Stato romano ormai esausto e ne prolungò la vita per un altro secolo e mezzo abbondante. Charles Dufay sostiene che l’obiettivo di Costantino si può considerare fallito, perché egli non riuscì ad evitare la rovina finale dell’Impero: ma è proprio così? Un politico, che riesca a fare argine agli elementi di dissoluzione non solo nell’immediato, ma a procrastinare la fine della propria compagine statale per più di 150 anni, ha davvero fallito il suo scopo? Lo scopo della politica è quello di far sopravvivere gli Stati in eterno? Di fatto, quel lasso di tempo consentì all’Impero, divenuto cristiano, di assorbire e cristianizzare, in gran parte, i popoli germanici che migrarono al suo interno. Lo Stato romano perì, ma la civiltà romana sopravvisse e, fondendosi con le forze fresche di quei popoli invasori, avrebbe dato vita ad una nuova, originale civiltà: quella medievale. E questo non si può considerare un risultato fallimentare, o da poco; al contrario: è stato un risultato assolutamente straordinario, che quasi certamente non vi sarebbe stato — e, quindi, l’Europa, così come la conosciamo, non sarebbe nata — se l’Impero Romano non avesse retto agli urti ancora per un secolo e mezzo.

Senza contare un altro fatto. Costantino, nella sua lungimiranza, trasportò la capitale a Costantinopoli, con un nuovo Senato e una nuova amministrazione: da Occidente a Oriente. Ebbene, se è vero che l’Impero di Occidente cadde nel 476, per non più rialzarsi — o meglio, per rialzarsi nell’800, nella versione carolingia — quello d’Oriente sopravvisse non per 150 anni, ma per più di 1.000: fino al 1456, quando Costantinopoli cadde, per sempre, nelle mani dei Turchi Ottomani. Questi sono i fatti: a meno di voler considerare quei 1.000 anni di storia dell’Impero Bizantino come una inutile parentesi e quasi come un incidente della storia, come hanno fatto a lungo gli storici di formazione illuminista e positivista. Una parentesi durata 1.000 anni! Nessuno degli Stati moderni, che noi oggi conosciamo — con la sola eccezione della Cina -, e comunque nessuno degli Stati europei, può vantare una vita altrettanto lunga. Le monarchie europee più antiche, l’inglese e la francese, sono nate, come Stati moderni, fra il 1300 e il 1600: sono dunque ben giovani, a paragone del millenario Impero di Bisanzio.Anche da questo punto di vista, pertanto, l’opera politica di Costantino non fu affatto un "sogno", non ebbe nulla di effimero, né, tanto meno, di velleitario: tutto al contrario, fu un’opera grandiosa e duratura, profondamente realistica, della quale i fatti hanno confermato la fondamentale giustezza d’impostazione e l’eccezionale capacità di realizzazione.

Costantino, però, non piace. Non piace agli storici moderni, non piace ai filosofi moderni: a partire da Gibbon e da Voltaire, è tutto un coro d’insulti e di disprezzo. Si è fatta volutamente confusione fra l’uomo e la sua opera: il politico spietato, cinico, machiavellico, ha gettato un’ombra nefanda su tutta la sua azione di governo. La vera colpa che non gli è stata perdonata, però, non era la crudeltà verso i suoi parenti e nemmeno l’ambizione smisurata che lo dominava, ma il fatto di avere aperto la strada all’affermazione del cristianesimo, ponendo fine alle persecuzioni e ordinando la restituzione delle chiese e dei beni confiscati ai cristiani, e favorendo il clero cattolico in vari modi. È questo che lo rende antipatico agli occhi degli storici e dei filosofi illuministi e anche agli occhi di molti studiosi odierni, anche se nessuno lo dice apertamente. Giuliano, invece, è simpatico: esaltato da Gibbon e da Voltaire, ancora oggi va molto di moda: la sua bibliografia è ricchissima e in gran parte elogiativa, tanto quanto quella di Costantino risulta, in confronto, scarsa e peggiorativa. Evidentemente, qualcuno si rammarica che l’Europa sia diventata cristiana e si trastulla con il pensiero ozioso che, se Giuliano avesse vinto, oggi, forse, potremmo adorare Giove Ottimo Massimo, o la Gran Madre degli dèi, o qualche altra divinità pagana.

Il problema è tutto di codesti intellettuali rancorosi, che odiano il presente perché non accettano il passato e che denigrano con ogni mezzo ciò che non possono negare, né minimizzare.

Purtroppo, diventa un problema di tutti, se è vero — come è vero — che il disprezzo o l’ignoranza delle proprie radici e il rifiuto della propria identità non rappresentano certo un bene, ma un male gravissimo, per una civiltà e per le sue prospettive di durata, di stabilità, di armoniosa convivenza fra tutti i suoi membri.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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