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Sia Testori che Pasolini denunciano la «mutazione antropologica»: ma da prospettive opposte

Pier Paolo Pasolini prima e Giovanni Testori poi hanno firmato, su Il Corriere della Sera (quand’era ancora un grande giornale, ricco di grandi firme») una serie di articoli che rappresentano uno spaccato critico formidabilmente acuto della società italiana, delle sue derive comunistiche, delle sue illusioni populiste, delle sue debolezze e infedeltà al proprio essere e al proprio destino: vera e propria coscienza di un popolo e di una civiltà nel momento in cui, finito il boom e la vita spensierata degli anni facili, incominciavano a imperversare il riflusso, la crisi, il terrorismo, la confusione, lo sbandamento, l’incultura e la dissoluzione della politica.

Due voci critiche, dunque; due intellettuali "ribelli" e fuori dal coro, ospitati, tuttavia — significativa contraddizione; ma di chi? – sulle colonne del primo giornale d’Italia, tradizionale organo della borghesia moderata e benpensante, ma non senza fremiti de trasalimenti di segno progressista e perfino libertario; due implacabili fustigatori di tutto ciò che è inautentico, fasullo, ipocrita, artificiale, insincero: quasi due iconoclasti luterani, due patari scatenati, due vendicatori del buonismo ebete e dell’eterna tendenza al compromesso del popolo italiano, e specialmente delle sue classi dirigenti. Per giunta, due uomini che condividono una certa prospettiva etica, un comune orizzonte di ribellione e anche di speranza, per niente incantati — come allora era così frequente — dai miti neollluministi del razionalismo, dello scientismo, del tecnicismo, dell’efficientismo e del produttivismo esasperato, specchiato, quest’ultimo, per soddisfazione di legittimi bisogni e come affermazione di conculcati diritti e libertà.

Eppure, che differenza di diagnosi, di prospettive, di linguaggio; quale abisso di mentalità, di cultura, di orientamento interiore: non si potrebbero immaginare due scrittori più diversi, più lontani, più estranei l’uno al’altro: perfino gli Italiani di cui parlano, la società di cui denunciano le magagne, i comportamenti contro i quali puntano il dito, non sembrano più gli stessi, sembrano appartenere a mondi diversi, a due dimensioni qualitativamente differenti; e così il linguaggio: perché la gente, il popolo, la religione, i preti, i politici, gli intellettuali, nei loro rispettivi discorsi, non sono gli stessi; e così la cultura, i libri, la stampa, l’informazione, la musica, la tradizione, il progresso, l’urbanistica, la città, la campagna, l’operaio, il contadino: pare quasi che essi stiano parlando due diversi pianeti del sistema solare, se non di due pianeti appartenenti a sistemi solari del tutto differenti.

Eppure, Testori e Pasolini hanno molte cose in comune, sia come uomini, sia come scrittori, sia come uomini di cultura, sia come persone: perfino nella loro vita privata. Entrambi omosessuali: ma Pasolini sbandiera la sua diversità, la getta come un guanto di sfida, e, anche quando non la ostenta, non la dimentica mai, la sottintende, essa è presente in qualunque discorso, rivendicata con fierezza, implicitamente o esplicitamente; e la vive con una certa qual rabbia, con un certo qual furore, con una certa quale ingordigia, ponendosi in situazioni che sono ben lontane da quelle descritte nei suoi romanzi, dove l’approccio alla gente di borgata è semplice, diretto, e non certo mercenario; mentre Testori è schivo, riservato, geloso della sua sfera intima, e, se proprio ne deve parlare, lo fa con garbo, con misura, non solo non rivendicando alcunché, ma confessandosi peccatore e solo dichiarando una sua disarmante sincerità, un suo legame di bene profondo con i ragazzi di cui s’innamora (cfr. il nostro articolo «Il matrimonio gay, per l’omosessuale Testori, è solo un’esecrabile rivalsa», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 14/04/2015).

Ha scritto acutamente Annamaria Cascetta a proposito della diversa impostazione data dai due ai problemi della società italiana e, più in generale, al loro discorso antropologico(da: A. Cascetta, «Invito alla lettura di Testori», Milano, Mursia, 1983, pp. 40-42):

«Nell’insieme, questi numerosi interventi [gli articoli che Testori pubblica sul Corriere della Sera fra il 1978 e il 1981] compongono un quadro della situazione antropologica contemporanea. Si diagnostica una malattia, di cui sono indicati gli agenti morbosi, responsabili o corresponsabili, ma in cui anche si ricercano i sintomi o le sacche sane per una possibile rotta di risalita. I mali sono: lo stravolgimento dei valori tradizionali (la religione, la famiglia, il paese, la scuola, il lavoro); l’ancoraggio ad un eccesso di "realtà" che si accanisce nel "parziale" di spiegazioni che hanno perduto il riferimento metafisico ed eluso le domande ultime dell’uomo; il disprezzo della vita; la labilità della memoria; la "cosificazione"; la deificazione del meccanismo, della scheda, che, nel miraggio di una totale razionalizzazione, destituiscono l’uomo e il suo mistero; la conversione del Potere da volto ad ingranaggio. I responsabili sono identificati in una ideologia neoilluminista male intesa, in una strategia dell’avidità cieca e senza volto, nella latitanza dei "padri traditori" che "hanno coniato per i figli la moneta della facilità e del consumo ed hanno ceduto al male ed alla morte", nei "mandanti morali" che hanno ridotto la vita ad una assurda vacanza da ogni legge morale e civile, da cui depennare, come imbarazzanti e démodées, parole quali "figlio", "fratello", "amore".

Se è innegabile la continuità di questi temi con quelli pasoliniani della "mutazione antropologica" che ha scalzato i vecchi valori in nome della cultura del consumo e del cinismo, della "omologazione culturale", del Potere senza volto, dell’edonismo neo-laico dimentico di ogni valore umanistico, già presente nei filoni tradizionali della cultura dotta e popolare, il punto di vista, la prospettiva, il tomo appaiono programmaticamente attestati su scelte diverse. Pasolini ostenta un’ottica socio-politica, che si vale di strumentazioni "scientifiche", sociologiche e semiologiche, e che si cala in un linguaggio secco, esplicito, concettoso, fatto più di "distinguo" e di categorie, che di "letterarietà" immaginosa, e che nasconde la "parzialità" della sua passione polemica. Testori rivendica un punto di vista "esistenziale", genericamente umano, e quindi, etimologicamente religioso, dichiarando polemicamente i limiti di un’ottica privilegiatamente socio-politica. Questa impostazione è adatta a sopportare, anche nella sede insolita dell’articolo giornalistico, l’insistenza sui consueti temi nestoriani, o, come si sono più volte definiti, ossessioni: la nascita, la morte, il dolore, il corpo, il grembo materno e la paternità, ed è adatta a far trovare a Testori, tanto più cadendo nella fase di passaggio dalla disperazione alla fede, nella teologia, più che in altre discipline, gli argomenti decisivi a favore delle tesi sostenute. Per esempio, si contrappone la "santità" e la funzione attiva del dolore, alla rimozione o alla trionfalistica razionalizzazione di esso nella mentalità contemporanea: le ragioni della vita sono contrapposte alle ragioni della morte, in un disegno paterno di salvezza che fa, emblematicamente, centro sulla "croce", sull’"uno", sul "figlio" e riconosce in ogni esistenza la sua irripetibilità, il suo essere singolarmente "decisa", il "sigillo di Dio". Sarà tutto chiaro al lettore se confronterà, ad esempio, gli argomenti diversi che Pasolini e Testori adducono alla condivisa opinione contro l’aborto.

Ed ancora, è questo il punto di vista che induce Testori a trascurare 8anchge se non del tutto, poiché gli attacchi ci sono e sono lucidi) il processo alle istituzioni responsabili. Su queste, invece, si sa, Pasolini infierisce con le note formule contro il Partito, il Palazzo, la Chiesa e con il diritto polemizzare con interlocutori illustri. Testori punta invece sull’identificazione di quelle presenze in cui le prospettive "alte" non si sono spente, sorta di sacche di resistenza e possibili poli calamitanti; queste sono: il magistero di un papa del dolore, che gli è congeniale, come Paolo VI, la lezione di certi giovani, la lezione di una "umile eppure grandiosa realtà di popolo" che, a dispetto delle tabelle statistiche e delle classificazioni dei sociologi, pare sopravvivere, che Testori ama andare a scovare (cfr. l’articolo: "Ma di quali italiani stiamo parlando?" apparso sul Corriere della Sera dell’11 novembre 1979) e in cui Pasolini avrebbe letto non la speranza di un rimedio al male, ma, se mai, il pericolo di un male peggiore : la restaurazione sanfedista e clericale.»

Colpisce il fatto che di tanto Pasolini è stato distruttivo, negativo, sprezzante, aggressivo, saccente e presuntuoso (celeberrimo il suo articolo intitolato «Io so», apparso sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974, nel quale puntava il dito contro l’universo mondo, col tono del giudice implacabile e onnisciente, lui solo puro e onesto in un mondo di vermi e parassiti), quanto Testori è riflessivo, lucido ma anche costruttivo, severo ma anche misericordioso, e soprattutto umile, paziente, tenace, aperto al trascendente, consapevole dell’umana debolezza. Eppure vengono entrambi dalla stessa area culturale: quella cattolica; ed entrambi l’hanno vissuta e rielaborata a loro modo, facendone uno strumento di lettura della realtà, ivi compresa la mutazione antropologica che ha condotto gli Italiani da poveri a benestanti, da emigranti a consumisti, da schietti ad artefatti, da contadini ad operai e imprenditori, da credenti ad adoratori del dio denaro.

Quello che li distingue non è il fondo cattolico della loro cultura, ma il diverso, diversissimo modo di vivere e rielaborare la fede dei padri (nel caso di Pasolini, della madre): che è, guarda caso, l’antica e sempre attuale differenza che corre fra due modi di intendere il Vangelo, l’una che si scaglia contro il peccatore insieme al suo peccato, l’altra che distingue il peccato dal peccatore; l’una che si serve della Croce per predicare la giustizia in terra, l’altra per indicare la via della pace dell’anima; l’una che adatta il messaggio religioso alle necessità del mondo, compresa la (legittima) sete di giustizia, l’altra per vivere nella vita di ciascuno, a cominciare dalla propria, il dramma della sofferenza, della caduta, della ricerca di Dio e della redenzione, nel pieno riconoscimento della finitezza e imperfezione della creatura rispetto al suo Creatore.

Testori è un cristiano che crede nella metafisica; Pasolini è un marxista che si serve di Cristo per assolutizzare vieppiù una ideologia già di per sé stessa assolutista e totalizzante: il primo conserva uno sguardo problematico e benevolo verso gli uomini, anche nelle loro miserie, anche nelle loro cadute; il secondo non dismette mai i panni del giudice implacabile, o, se per caso li dismette, è solo per assumere, ma ideologicamente e non concretamente e umanamente, i panni dei suoi "eroi" preferiti, dei suoi "ragazzi di vita", visti come l’equivalente laico e moderno del "buon selvaggio" di settecentesca memoria. Pasolini ha preso il guscio vuoto della religione cristiana e lo riempie di contenuti della sociologia, della lotta di classe, di quella cultura moderna che pure detesta, lacerato, com’è, dal rimpianto struggente per il perduto mondo contadino della sua infanzia; Testori cerca di attualizzare il messaggio cristiano, ma senza confonderlo con le ideologie del mondo e senza farsi alcuna illusione sulle magnifiche sorti e progressive (sia pure nella versione comunista), anzi, scorgendo in tale illusione un tradimento verso l’uomo. Pasolini è, o vuole essere, un rivoluzionario, un fustigatore inesorabile della decadente società borghese, fradicia di mollezza e ipocrisia; Testori è un umanista, un riflessivo, uno spirito naturalmente religioso, che cerca Dio con timore e tremore e che non si sente migliore di coloro che accusa, né se la prende personalmente con alcuno, tanto meno con una intera classe sociale, semmai con i vizi, con gli errori, con i comportamenti sbagliati.

Entrambi amano il popolo, gli umili, i semplici: ma uno li ama compiacendosi della loro degradazione, che chiama fierezza; l’altro chinandosi sulle loro piaghe con partecipazione commossa, con profondo senso di umanità. Uno li idealizza, proprio perché li dipinge senza intime contraddizioni, come se appartenessero ad un unico tipo umano, fatto di eroi alla rovescia: ladri e prostitute, sfruttatori e gente di malaffare, a loro modo generosissimi, sempre autentici e "veri", anzi, gli unici "veri" in un mondo di falsità e ipocrisia; l’altro li vede come sono, senza abbellirli, e spera semmai nella loro redenzione. Uno celebra l’epos dei "ragazzi di vita" delle borgate romane, nei quali vede gli ultimi dei Mohicani in via d’estinzione; l’altro si china sugli "ultimi" dei borghi milanesi e sulla loro vita segreta, notturna, "misteriosa" (perché ogni anima umana è mistero). Entrambi sono attratti da una umanità fatta di umiliati e offesi; entrambi condividono una sensibilità risentita e intransigente, proprio come nel mondo di Gogol’ o in quello di Dostoevskij. Ma perfino se dicessero le stesse cose — e a volte par che le dicano — il lettore sente che il messaggio è diverso, come sono diversi la prospettiva e gli scopi.

Per Pasolini, a ben guardare, lo spirito di denuncia e l’incessante polemizzare sono un bisogno primario; se non avesse degli avversari da maledire, da insultare, se li inventerebbe: appartiene alla razza di quanti cercano e vedono il male fuori di loro, intorno a loro. Testori non scaglia anatemi, non polemizza in via personale: è di quelli che sono turbati dalla coscienza che il male è già in noi, e che sentono, perciò, il bisogno di un Dio che li perdoni e li redima.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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