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La protesta contro una scienza disumana ne «La figlia di Rappaccini» di Hawthorne

«La figlia di Rappaccini» («Rappaccini’s Daughter») è un lungo racconto di Nathaniel Hawthorne, non molto conosciuto al di fuori degli Stati Uniti e della cerchia degli studiosi delle letterature anglosassoni, ambientato in Italia, a Padova, e pubblicato dallo scrittore americano per la prima volta nel 1844, e una seconda volta nel 1846, all’interno del volume «Muschi da un vecchio presbiterio» («Mosses from an old manse»).

Scrivono in proposito G. Baldi e altri («Dal testo alla storia, dalla storia al testo», Torino, Paravia, 2000, vol. D, pp. 273-274):

«Il racconto appartiene al genere "nero" […]. Al centro della vicenda si colloca il giardino lussureggiante, che a più riprese viene paragonato a quello dell’Eden. Ma si tratta di un Eden rovesciato, che rappresenta non una condizione di innocenza bensì di colpa (si sarà notato che per ben due volte le piante sono paragonate a serpenti, e che perfino il serpentello è ucciso dalla loro linfa). La causa della contaminazione la scienza, gli esperimenti folli del dottor Rappaccini, che non si arresta a nulla pur di accrescere le proprie conoscenze ed è pronto a sacrificare ad esse le cose più care e più sacre, come la figlia. La fanciulla si chiama non a caso Beatrice, nome che rievoca l’antica immagine della donna sublimata, capace di assicurare la salvezza e la beatitudine. Ed in effetti Beatrice è pura ed innocente ma, senza sua colpa, è anch’essa contaminata, per cui invece di essere dispensatrice di redenzione è dispensatrice di morte. Diviene come i fiori del giardino, a cui è spesso assimilata: bella e vitale, ma velenosa, dal tocco e dall’alito distruttivi. Anche nel suo caso la contaminazione è determinata dalla scienza, che ha rovesciato purezza ed innocenza in potenza letale. […]

Il racconto presenta dunque una serie di motivi particolarmente interessanti. In primo luogo quello della scienza trasgressiva, che sfida i limiti imposti alla conoscenza umana con "satanica" tracotanza, ed in tal modo provoca conseguenze devastanti. La scienza viola la Natura (il giardino, i fiori), principio del bene, e la stravolge nel suo contrario, il principio del male. È un motivo che abbiamo già incontrato nel "Frankenstein" della Shelley e che ha molto rilievo nel corso dell’Ottocento romantico (lo ritroveremo presso gli scapigliati, nella seconda metà del secolo). In esso si esprime una paura della scienza (con i suoi riflessi nella tecnologia e nell’industria), che proprio in quegli anni sta provocando profonde e vertiginosamente rapide trasformazioni nella vita degli uomini e dà come l’impressione di essere un mostro maligno evocato da un mago irresponsabile e sfuggito al suo controllo. Vi si esprime anche l’angoscia dell’artista dinanzi ad una trasformazione del mondo che nega i valori in cui egli crede, la Natura, il Bello, e minaccia quindi la sua stessa esistenza. Siccome i rivolgimenti in atto toccano la e zone più profonde della psiche, scatenando oscuri terrori, il genere "nero", che fa leva sulla dimensione più oscura della realtà, è quello che risulta più adatto ad esprimerli. […]

Il secondo motivo è quello della vegetazione maligna e contaminata, mostruosamente proliferante , gravida di veleni, capace di seminare morte. Nella vegetazione abnorme è facilmente riconoscibile una proiezione metaforica dell’inconscio, dei suoi grovigli e dei suoi impulsi incontrollabili e pericolosi, ad esplorare i quali si affaccia con curiosità l’anima romantica, rimanendo affascinata e inorridita al tempo stesso. La vegetazione mostruosa è un motivo già comparso in Shelley ("La sensitiva"), che tornerà con frequenza ossessiva nella seconda metà del secolo, in Baudelaire (che ad essa ispirerà il titolo del suo capolavoro, "I fiori del male"), in Zola, Huysmans, D’Annunzio, Pascoli […].

Il terzo motivo è quello della donna fatale, inquietante e insidiosa, dotata di una potenza malefica, da cui emana un fascino letale capace di seminare distruzione e morte. In Beatrice, si è osservato, è ancora ben visibile il "topos" romantico della donna angelo, della pura fanciulla incarnazione dell’innocenza, ma su di essa viene a sovrapporsi, contro la sua stessa volontà, e natura, per colpa del perverso orgoglio dello scienziato, il nuovo aspetto. Anche il motivo della donna fatale era già comparso nella letteratura romantica (si ricordi "La Belle Dame sans Merci" di Keats), ma è destinato a vasta fioritura soprattutto nella seconda metà del secolo, e oltre (in particolare, in D’Annunzio).»

Tralasciando, in questa sede, il secondo e il terzo motivo del racconto, quello della vegetazione malefica (che ritornerà, fin dai titoli, in opere successive della letteratura europea, anche al di fuori dell’ambito anglosassone, come «I fiori del male» di Charles Baudelaire e «Le serre calde» di Maurice Maeterlinck) e quello della donna ambigua e fatale (destinato anch’esso a grande sviluppo nella seconda metà dell’800 e al principio del ‘900, dalla «Salomè» di Oscar Wilde alle numerose donne-vampiro del Decadentismo), concentriamoci sul primo e principale tema, quello della scienza trasgressiva e disumana, che minaccia l’ordine cosmico.

È un motivo, in verità, molto antico: lo troviamo già, ad esempio, in una novella del Boccaccio, non fra le più conosciute del «Decameron», la quinta della decima giornata (conosciuta come la novella di Madonna Dianora da Udine), laddove la "scienza" pericolosa e fuori controllo è ancora, in realtà, la magia medievale, ma la prospettiva e la tesi sono tuttavia le stesse: esiste un sapere "tecnico" che, violentando la natura, è in grado di turbare e sovvertire i rapporti umani, le leggi dell’etica e, in definitiva, di stravolgere e disgregare l’intera società; un sapere spregiudicato e sacrilego, che deve essere arginato ad ogni costo, perché mette in discussione la stessa sopravvivenza dell’umano (cfr. il nostro precedente articolo: «Il giardino d’inverno», pubblicato sulla rivista «Graal», Roma, n. 9, maggio-giugno 2004, riveduto e ampliato nel 2007).

Accanto al tema della scienza pericolosa e trasgressiva, potenzialmente diabolica, vi è, intrecciato ad esso, come osservano giustamente gli Autori sopra citati, anche il tema dello straniamento e dell’angoscia dell’artista davanti ad una civiltà, quella moderna, che sembra minacciare o calpestare la bellezza del mondo, contaminare la natura, connotandosi come una civiltà disumana, aliena, nemica dei valori cui l’artista si sente maggiormente legato; tuttavia, da parte nostra, ci sembra giusto ricordare che i valori di Hawthorne non sono mai di natura puramente estetica, ma anche e soprattutto morale. In tutte le opere dello scrittore americano, da «La lettera scarlatta» a «La casa dei sette abbaini», da «Il fauno di marmo» a quello straordinario, surreale, inquietante racconto che è «Il mio parente, maggiore Molineux», ritorna, con caratteristica angosciosità puritana, e con toni e sensibilità kierkegaardiane, quasi esistenzialiste, il grande mistero del male che incombe sulla vita dell’uomo e che lo minaccia dall’interno, per vie tanto tenebrose, quanto indefinibili e inafferrabili, stranamente e inestricabilmente mescolato con il bene.

Questa mescolanza di male e di bene e questa inafferrabilità e incomprensibilità del male; meglio ancora: questa labilità dei confini fra il bene e il male e la coscienza della difficoltà, o della radicale impossibilità, di giungere ad una vera distinzione e separazione – al punto che, per Hawthorne, potremmo parlare di un vero e proprio esegeta del concetto della coscienza moderna connotata quale "coscienza infelice" — sono evidenti nel personaggio femminile del racconto, Beatrice, la giovane e bella figlia di Rappaccini, che presenta, appunto, una strana, affascinante ma pericolosa ambiguità: da un lato donna fragile, malinconica e condannata alla perdizione dalle pratiche demoniache di suo padre, dall’altro lato portatrice ella stessa, e sia pure incolpevolmente, di una segreta maledizione, di un morbo atroce e inconfessabile, a ben guardare più di natura morale che fisica. Ora, se la coscienza infelice" di cui parla Hegel nella «Fenomenologia dello spirito» nasce, essenzialmente, dalla divaricazione e dalla inconciliabilità fra l’aldiqua e l’aldilà, fra la speranza cristiana ed il suo elusivo compimento, la coscienza infelice dei personaggi di Hawthorne, da Hester Prynne e il reverendo Arthur Dimmesdale ne «La lettera scarlatta», a Giovanni e Beatrice ne «La figlia di Rappaccini», nasce soprattutto dalla scoperta degli abissi di tenebra che si celano in fondo all’anima umana, anche la più "innocente", per cui essi avvertono, ad un certo punto della loro vita, di non potersi fidare interamente di se stessi, e che l’intero edificio della morale, individuale e collettiva, sul quale avevano fondato il loro progetto di esistenza, è terribilmente instabile e provvisorio, è solo un esile velo che il primo soffio di vento può spazzare via, rivelando un volto della realtà che è completamente diverso da quello noto e ordinario.

Vi è poi, nel racconto di cui ci stiamo occupando, una figura caratteristica, che fa da contraltare a quella dello scienziato superbo e disumano, come lo è Rappaccini: la figura di un altro scienziato, questo, però, umano e dotato di un forte senso morale, il dottor Baglioni, amico di vecchia data del padre di Giovanni, che mette il giovane in guardia contro le male arti del suo collega e che descrive con parole di fuoco il disprezzo per la vita umana che anima quest’ultimo, tutto preso dai suoi esperimenti botanici, al punto di essersi completamente estraniato dal consorzio civile e da aver creato intorno a sé una fama sinistra, purtroppo pienamente giustificata. Crediamo che di questa figura collaterale, ma non insignificante, di "scienziato buono", in quanto consapevole dei limiti della scienza stessa, e rispettoso di essi, si sia ricordato Robert Louis Stevenson nel romanzo «Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde», allorché ideò il personaggio del dottor Lanyon, amico sia di Jekyll che dell’avvocato Utterson, che rappresenta, anch’egli, ciò che un vero scienziato dovrebbe essere e quali caratteristiche dovrebbe avere, dal punto di vista intellettuale e morale, per resistere alla tentazione faustiana di una uso diabolico del suo sapere: vale a dire, il senso religioso del limite e del mistero.

Tutta la produzione letteraria di Hawthorne non è altro che la ricerca continua, inesausta, quasi febbrile, delle radici del male; un perenne, tormentoso, angosciato interrogarsi sulle sue origini, sulle sue dimensioni, sulle sue tremende possibilità distruttive; e, nel medesimo tempo, un pietoso, ma perplesso e travagliato, chinarsi sul mistero dell’uomo, del suo desiderio di felicità e di bene, sulla sua aspirazione alle altezze, là dove soffiano liberi i venti e dove non ristagna l’odore di chiuso e di morte che, così spesso, contamina anche i luoghi e i momenti più belli della vita umana. In questa prospettiva, «La figlia di Rappaccini» costituisce una delle innumerevoli tessere (i suoi racconti sono, in totale, poco meno di un centinaio: novantadue, per l’esattezza; più la bellezza di nove romanzi, fra i quali «La lettera scarlatta» è solo il più noto); una delle innumerevoli facce del prisma che ha affascinato, stregato e ipnotizzato lo scrittore americano dal principio alla fine della sua attività di narratore: il grande mistero del bene e del male e la lotta dell’uomo che, pur aspirando sinceramente al bene, finisce, così spesso, per soccombere miseramente al richiamo fatale del male.

Il fatto che alcuni personaggi femminili delle opere di Hawthorne — pensiamo, ad esempio, oltre che alla Beatrice de «La figlia di Rappaccini», alla Miriam de «Il fauno di marmo», implacabilmente inseguita dal suo misterioso persecutore e, più ancora, da qualche tenebroso evento del suo passato che, forse, le rimorde la coscienza — ci appaiano come le vittime predestinate ad una sorta di sacrificio religioso, mediante il quale loro stesse, ma anche coloro che le corrispondono, giungeranno, o almeno potranno giungere, ad una riconciliazione e alla redenzione, non è certo casuale, e ci offre una peculiare chiave di lettura di tutta l’opera dello scrittore americano, così intrisa di istanze etiche e filosofiche, così lontana dal piacere del narrare per il puro narrare. Come Ifigenia, come tante eroine tragiche dell’antichità, queste donne di Hawthorne prendono sui di sé le colpe ed il male del mondo; sono innocenti, e tuttavia "sentono" di dover espiare per tutti, perché nessuno è veramente innocente e in ciascuno, anche in loro stesse, albergano i veleni mefitici del peccato e della ribellione contro l’ordine divino presente nel mondo. Perciò esse vanno incontro al loro destino con animo rassegnato e, tuttavia, non interamente privo di speranza.

Come figlio della cultura protestante, Hawthorne, come Kierkegaard, non poteva andar oltre: questo è l’estremo limite cui poteva spingersi. Perché l’idea di una redenzione in cui l’uomo collabora con Dio, non già da reietto, ma da creatura libera e responsabile, è cattolica; e, inoltre, è anti-moderna…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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