
L’estetismo Walter Pater nasce dal rifiuto aristocratico del “mondo”
7 Settembre 2015
Indifferenti o partigiani? Per un superamento dell’antropologia gramsciana
13 Settembre 2015Le città italiane hanno subito una trasformazione radicale dopo la Seconda guerra mondiale: i quartieri distrutti sono stati ricostruiti secondo criteri ispirati al gusto del nuovo fine a se stesso, in spregio della tradizione e, spesso, della loro vocazione urbanistica; mentre l’espansione tumultuosa del boom ha prodotto una cementificazione selvaggia, che, in assenza di piani regolatori e di qualunque forma di progettualità, ha fatto piazza pulita di quanto restava del passato. Sono state coperte le rogge urbane per guadagnare spazio al traffico automobilistico e ai parcheggi; abbattuti i vecchi caseggiati senza tener conto del loro valore storico e perfino artistico; innalzati a dismisura gli edifici residenziali, complice la speculazione edilizia, per far fruttare al massimo il terreno; distrutte le aree verdi suburbane e tagliati interi filari di alberi, per raddoppiare le corsie dei vali periferici; sventrate le colline per realizzare tunnel e sopraelevate; eliminati i cortili, asportate le vecchie fontane, lasciati cadere a pezzi ex conventi e chiesette sconsacrate.
Prendiamo il caso di Pordenone, una piccola città del Friuli occidentale, che fino alla Prima guerra mondiale aveva conosciuto una certa espansione dell’industria cotoniera, poi spazzata via dalla Grande crisi del 1929. Negli anni del secondo dopoguerra la cittadina ha conosciuto un formidabile sviluppo, avendo come centro propulsore la Rex, una industria di cucine economiche (ora inglobata nella multinazionale svedese Electrolux) divenuta un vero e proprio colosso europeo; sviluppo che fornì la piena occupazione all’area della destra Tagliamento, tradizionale serbatoio di emigrazione, e che attrasse un formidabile afflusso di operai dall’Italia meridionale. Fondata da Antonio Zanussi nel 1916, fino al 1951 la Rex dava lavoro a circa 300 operai, allorché conobbe una formidabile espansione produttiva, sotto la guida di uno dei figli di Antonio, Lino, in particolare con la produzione di una nuova linea di frigoriferi, affermandosi come una azienda leader a livello mondiale (la storica industria è stata acquistata nel 1984 dal summenzionato gruppo svedese).
Il volto della città, quietamente adagiata presso le sponde del fiume Noncello ornate di salici, con i suoi vecchi palazzi, le strade e le case che conservavano, fino al principio degli anni ’50, una sorta di atmosfera rurale, è stato radicalmente e frettolosamente cambiato, addirittura stravolto: le demolizioni si sono succedute a ritmo incalzante, per creare nuove unità abitative in un mercato edilizio in piena crescita, che prometteva larghi margini di profitto, grazie al continuo incremento della popolazione, in un moto espansivo che generò l’inebriante illusione di un benessere destinato ad aumentare indefinitamente. Erano gli anni in cui architetti e urbanisti, nonché amministrazioni locali, sull’onda del boom economico, poco o nulla si curavano di preservare la tradizione, e anzi, non di rado, arrivavano a teorizzare la riedificazione pressoché integrale delle nostre città, quasi che il loro passato — con i ricordi dolorosi della povertà, della guerra, dell’emigrazione — andasse esorcizzato, cancellandolo, per quanto possibile, al più presto e nel modo più netto.
A lato di questa esplosione del settore industriale e manifatturiero, si intensificò la presenza degli istituti finanziari e infine, il 22 marzo del 1968, il tumultuoso sviluppo urbano e demografico di Pordenone conobbe il suo coronamento amministrativo nella istituzione della nuova provincia, ricavata ritagliando da quella di Udine i 50 comuni posti alla destra del fiume Tagliamento e a mezzogiorno della cresta delle Prealpi Carniche. La città, divenuta improvvisamente capoluogo, era passata dai 9.000 abitanti del 1871, ai 18.000 del 1911, ai 27.000 del 1951, ai 34.000 del 1961, ai 47.000 del 1971, ai 52.000 del 1981, restando poi stazionaria o scendendo di qualche migliaio di unità fino ai nostri giorni; attualmente è a quota 51.000 circa, compresi 8.400 stranieri, pari al 16% del totale. Come si vede, l’impennata si è verificata nel trentennio successivo al 1950; poi — così come, del resto, è avvenuto in tutto il Nord-est dell’Italia, e non lì soltanto -, il ristagno.
Oggi la radicale trasformazione della città sul Noncello (il suo nome deriva da "Portus Naonis" e il fiume era navigabile e frequentato dai barconi fino a quando fu soppiantato dalle due nuove vie di terra, la strada Pontebbana e la ferrovia, alla metà del XIX secolo), avvenuta negli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900 — gli anni del boom — ha reso Pordenone pressoché irriconoscibile ai suoi abitanti di una certa età. Non che tutto il nuovo sia brutto, un tale giudizio sarebbe ingiusto: non è brutto, per esempio, il Palazzo Fornaci di Pasiano, e non lo sono il palazzo Cossetti e il Largo San Giovanni: pur trattandosi di condomini e palazzi in stile tipicamente moderno, non stonano del tutto, perché uniscono al funzionalismo una certa qual ricerca di originalità estetica: insomma, non parlano solo di uffici e di banche, ma hanno un’anima, per quanto non in linea con la tradizione.
Nondimeno, bisogna riconoscere che quanto è stato distrutto irreparabilmente è assai più di quanto è stato riedificato, per valore urbanistico e per spessore umano: la smania del nuovo è diventata, sovente, una sorta di furore iconoclasta, come se la sopravvivenza di vecchi muri, vecchi cortili, vecchi portoni, vecchi angoli, fosse una sfida intollerabile, un’ombra che doveva essere eliminata per attestare la modernità e l’avvenirismo delle nuove generazioni: dimenticandosi, in molti casi, che la città è fatta per l’uomo, e così le abitazioni, e non l’uomo per le abitazioni e la città, ossia per la gloria degli architetti e degli urbanisti, o perché gli amministratori pubblici possano fare sfoggio del loro spirito aperto ai tempi: il quale, poi, spesso altro non è che l’inseguimento delle mode del momento, con poca saggezza e con pochissima lungimiranza.
Possibile che a nessuno sia mai venuto in mente che gli anni del boom sarebbe finiti, com’erano incominciati, e che le città italiane ed europee si sarebbero trovate a dover gestire degli assetti urbanistici gonfiati e largamente sovrastimati, con migliaia e migliaia di locali e appartamenti vuoti, malinconicamente offerti in vendita o in affitto, ma senza più trovare acquirenti? E possibile che a nessuno sia venuto in mente che, senza solide basi di ricerca, di pianificazione, di credito finanziario, le "miracolose" imprese del Nord-est non avrebbero retto, sul lungo periodo, alla concorrenza dei grandi gruppi stranieri, tanto più in assenza di servizi logistici adeguati, con i tempi biblici della giustizia italiana e sotto il peso di un carico fiscale esorbitante? E possibile, infine, che a nessuna testa d’uovo fosse venuto in mente che bisognava pensare il futuro delle città non solo in funzione di una crescita che, inevitabilmente, presto o tardi si sarebbe arrestata, ma anche e soprattutto in funzione di un assetto urbanistico tale da offrire un equilibrio accettabile fra passato e futuro, fra le necessità di chi ci vive e quelle dell’impresa, del commercio, del terziario in generale?
Ha scritto Giuseppe Ragogna nella sua bella Introduzione, intitolata «Pordenone: tra memoria e innovazione», al volume di Gian Nereo Mazzocco e Mario Robiony «1911-2011, Banca Popolare FriulAdria. Volano di sviluppo economico e sociale», » (ZeL Edizioni, 2012, pp. 30-34):
«L’esplosione industriale completava definitivamente un passaggio epocale. Quale pianta meglio del gelso può raccogliere ancora l’anima della civiltà contadina in rapida dissoluzione nella forma, nella sostanza e nei valori? E ancora oggi la può raccontare, come fedele testimonianza. Fino agli anni Sessanta era infatti un albero rispettato, curato da cima a fondo, poiché le foglie verdissime costituivano l’unico cibo per sfamare i voraci bachi da seta, il cui impegnativo allevamento assicurava i primi redditi dell’annata agraria. Si trattava di soldi sicuri, da investire nelle altre attività stagionali. Proprio quelle piante (i moreri) segnarono un’epoca. Si trovavano in ogni campo per delimitare le proprietà terriere, o per dividere un tipo di coltivazione dall’altra; lungo le sponde dei fossi, a far da spartiacque tra le campagne e le strade; attorno alle case coloniche, per dare un tono di allegria. Ovunque c’era il gelso, simbolo di una vita scandita lentamente da lavori assai faticosi, ma anche dell’intreccio fra l’agricoltura e l’attività manifatturiera, testimoniato dagli essiccatoi per bozzoli e dalle filande. Pordenone era infatti accerchiata di ciminiere. Un paio funzionavano addirittura in pieno centro: quella dei Toffoletti, in via Garibaldi, dove ora c’è la sede della Provincia; quella dei Marcolin, sulle sponde del Noncello, vicino al municipio, nell’area recuperata per il grande parcheggio cittadino. Schiere di giovani filandine (in friulano bigatis) diventarono donne lungo le fasi di un lavoro massacrante, esercitato per oltre dieci ore in stanzoni umidi, rumorosi, polverosi e puzzolenti. Si consolavano cantando insieme malinconiche canzoni popolari: "Ne dise bigate /che sempre spusemo / per questo cantemo / che passi l’odor".
La crisi dell’attività tessile, con la profonda trasformazione dell’economia, determinò il progressivo abbandono dei gelsi, che oggi si coglie dallo stato di abbandono delle piante. Il tronco da giovane è dritto, slanciato, segnato soltanto dalle pronunciate venature della corteccia. Da vecchio raggrinzisce, si contorce tormentato dal peso degli anni e dalle impietose intemperie climatiche. Oggi la pianta, che trasmette la storia della civiltà contadina, è un malinconico ceppo, spesso privato dei rami, quasi a sottolineare la sua inutilità, ridotto a una sorta di polso nodoso che spunta dalla terra e si rivolge al cielo con il pugno chiuso tra imprecazioni e richieste d’aiuto per le continue soppressioni. Quei ceppi, ormai malamente allineati e con spazi sempre più larghi tra una pianta e l’altra, hanno l’aria di isolate sentinelle, spogliate delle armi, rimaste inutilmente a guardia di vecchi confini. In realtà, sono destinate a sparire definitivamente con l’avanzare delle irresistibili ondate di cementificazione. Anche il paesaggio ha subito profonde trasformazioni a causa dei cambiamenti di civiltà.
Forti tensioni, determinate dalla rapida crescita, furono scaricate sull’assetto urbanistico della città, che proprio nel periodo del boom raddoppiava la popolazione, fino a sfondare la soglia dei 50 mila residenti. Ogni sogno sembrava realizzabile. Pordenone assorbiva tutto, come una spugna. E correva. La fame di abitazioni e il fiuto di facili affari immobiliari furono le cause degli sconvolgimenti inflitti ai fragili equilibri urbanistici raggiunti in secoli di storia. Proprio sotto il profilo amministrativo, Pordenone iniziò a litigare con le regole imposte più da atti di compromesso che da una ordinata pianificazione. Furono utilizzate tonnellate di cemento al di fuori di qualsiasi programmazione. Non è casuale che alcuni scrupolosi studiosi considerino l’arrembante fase dell’effervescenza economica del dopoguerra colpevole degli sconquassi urbani più evidenti subiti dalla città, "peggio di tutte le occupazioni militari messe assieme, lo sfacelo più rozzo e più brutale". Per inseguire la frenesia dello sviluppo, nulla venne rispettato, neppure alcuni edifici di pregio architettonico, che potevano vantare un vincolo storico ben impresso. E la "città nuova" si allargava scimmiottando qua e là stili di infelice importazione, senza disegni e gusti che rispettassero i valori e le tradizioni di luoghi che si stavano frettolosamente urbanizzando. Pordenone non è più la stessa. ha nascosto la storia, quasi per paura che potesse ricordare i momenti difficili. E nella sua corsa forsennata, la città è rimasta come una bambina capricciosa, in preda alla frenesia del fare e del disfare, timorosa di rimanere impigliata nelle nostalgie sentimentali con il rischio di doversi fermare.
Così, da invidiata città d’acqua, Pordenone si è trasformata in un’anonima città di cemento. Di fato, sembra che abbia anticipato, prima di altri, i tempi della globalizzazione, che oggi stanno cancellando i tratti originari delle città di nuova espansione. Ovunque tutto diventa identico, senza più i segni che caratterizzano una narrazione inedita, un semplice tratto di identità. Tocca a Italo Calvino ricordarci attraverso i suoi libri che "la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmenti rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole". È chiaro che, se questi segni pieni di originalità vengono distrutti, la città smarrisce parti importanti della sua storia. Per certi tratti Pordenone non è più Pordenone.»
Certo: a chi ama una città, e possiede gusto e sensibilità, non è impossibile ritrovare, in certi angoli, a certe ore del giorno, un’eco di come appariva prima dello scempio urbanistico. Nel caso di Pordenone, quegli angoli esistono ancora: non solo nei sobborghi — Torre, Borgo Meduna — ma perfino in pieno centro: dietro la Chiesa di San Giorgio, ad esempio; o nella incantevole Piazzetta San Marco; o, ancora, nei vicoli dietro il Duomo — per non parlare dei portici del Corso Vittorio Emanuele. Ma è troppo poco, e velato di malinconia. E allora ci si chiede: era necessario, tutto ciò?