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Orazio epicureo?

Sull’epicureismo di Orazio — come, del resto, per quello di Lucrezio, ma per tutt’alte ragioni e sotto una diversa prospettiva — si è discusso, si discute e, quasi certamente, si continuerà a discutere ancora chissà per quanto tempo, se non addirittura all’infinito.

E come poteva essere diversamente, se la sua poesia è diventata tutt’uno con la sua persona, e se il "carpe diem" (quasi sempre tradotto erroneamente: "cogli l’attimo", e, per giunta, ripetendo l’errore in maniera pedissequa) è diventato molto più che uno slogan, addirittura una sorta di breviario laico, ma, nello stesso tempo, non è chi non veda come tale filosofia di vita mal si possa conciliare con una buona parte della sua produzione lirica?

Perché Orazio, nelle sue poesie, nel mondo poetico da lui creato, vorrebbe apparirci come l’uomo pacificato, o, almeno, che potrebbe vivere sereno, se non lo scocciassero continuamente persone importune; nonché come l’uomo ironico ed auto-ironico che sa scherzare su tutto, perfino su ciò che meno, in quella società, si prestava allo scherzo, come la fuga in battaglia e l’abbandono dello scudo (a somiglianza del poeta greco Archiloco); e tuttavia, leggendole, o leggendo molte di esse, è pressoché impossibile sottrarsi all’impressione che, dietro quel sorriso scanzonato, dietro quella ostentazione di mite e umbratile autosufficienza (però, sia ben chiaro: nella villa in Sabina regalatagli da Mecenate, l’amico di Augusto che lui aveva combattuto, anche se poco gloriosamente, a Filippi: e, per soprammercato, assumendo l’aria di chi concede un gran favore al proprio benefattore, accettando il suo dono!), si celano ansie, inquietudini, suscettibilità, nervosismi, rimpianti, stizze, frustrazioni, amarezze: il tutto mascherato da una patina di pose civettuole o di falsa naturalezza.

Poi, di tratto in tratto, ecco che il botolo ringhioso si ridesta, mostra i denti, cerca di azzannare la vittima indifesa: la sua esultanza per la fine di Antonio e Cleopatra, la sua esortazione a riempirsi il bicchiere e ballare battendo forte i piedi («nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus»), hanno qualcosa di turpe, di osceno; ricordano troppo l’atto blasfemo di chi vuol lordare la tomba del nemico sconfitto e defunto, ormai consegnato al giudizio degli dèi. E non si addicono di certo a un seguace dell’epicureismo, perché l’odio è una forma di attaccamento, una passione distruttiva, ed Epicuro ha insegnato l’arte di godere la vita, non certo quella di farsi il sangue cattivo, né, tanto meno, quella di irridere i morti, specialmente se è chiaro che nessuno spenderà una parola in loro difesa, o in difesa della loro memoria.

Virgilio, per fare un confronto, non si sarebbe mai abbassato a tal punto: spregiare una regina morta e gioire come un Coribante per la sua fine; benché Virgilio non fosse, neanche lui, un cuor di leone, visto che non ebbe difficoltà a togliere dalle «Georgiche» le lodi del suo amico e benefattore Gaio Gallo, caduto in disgrazia presso l’imperatore, suicidatosi perché sospettato di aver partecipato ad una congiura, e a sostituirle con il mito di Orfeo ed Euridice. Come dire: «Io, quello lì, non l’ho mai visto, né conosciuto; e, del resto, io non so niente, non ho visto nulla e, anche se per caso c’ero, dormivo». Però Virgilio, dotato di un animo naturalmente mite e pietoso verso tutti gli infelici, non ha mai disonorato se stesso, scrivendo un solo verso ispirato a quel vile ed atroce sentimento di esultanza per la morte di un essere umano, e sia pure un nemico.

Insomma: vi erano troppe passioni, e troppo disordinate, nell’uomo Orazio, perché si possa parlare di un Orazio epicureo: se è vero, come è vero, che non basta rivendicare l’adesione a questa o quella filosofia, a questa o quella ideologia, a questa o quella concezione della vita, per esserne realmente partecipi e compenetrati e per esserne, pertanto, dei testimoni coerenti e convincenti, davanti al giudizio degli altri. Così come Lucrezio, anche Orazio era troppo turbato dal pensiero della morte per mostrare una partecipazione profonda e convinta alle dottrine di Epicuro, il quale, della liberazione da quel timore, aveva fatto la pietra d’angolo del proprio edificio speculativo; Orazio conservò fino all’ultimo troppi conti aperti con la vita, troppi conti che non tornavano e che non quadravano come avrebbero dovuto e come, probabilmente, egli stesso avrebbe ardentemente desiderato. Era un uomo contraddittorio e suscettibile, che bramava la pace, ma non l’aveva raggiunta e che ostentava distacco dalle cose di questo mondo, che pur gli piacevano, ma non aveva saputo distaccarsi da quella più importante di tutte: il proprio io.

A ciò si aggiunge una ulteriore complicazione: da epicureo, Orazio non avrebbe certo potuto essere un verosimile cantore delle glorie civili e dei destini imperiali di Roma: come si potrebbe prendere sul serio il «Carmen saeculare», sapendolo scritto da un "vero" epicureo, ossia da uno che disprezza la politica, se ne infischia dello stato, e di null’altro si preoccupa, se non della propria tranquillità, del proprio angolino di quiete, dei propri amici? Come ascoltare, senza sorridere o indignarsi, l’annuncio del ritorno della età dell’oro, da parte di un poeta che, in ultima analisi, non crede alla storia, non crede agli uomini, non crede ad alcun principio superiore, ma si preoccupa soltanto di godere sino in fondo il tempo presente, senza curarsi del passato e senza darsi alcun pensiero per il futuro?

Una lettura chiara e, a nostro giudizio, persuasivo del "problema" rappresentato dall’epicureismo di Orazio, è quella proposta da C. Diano nel libro «Saggezza e poetiche degli antichi» (Pozza, 1968, pp. 14 sgg; citato in: Ludovico Griffa e Lorenzo Giovannacci, «Antologia di autori latini», Milano, Edizioni Mursia, 1970, vol. 2, pp. 279-280):

«[In Orazio] senza soffermarsi alle cose di minior conto, due tendenze si possono nettamente rilevare: l’epicurea, che culmina nel "carpe diem" e nel "lathe biosas", e la stoica col suo culto della virtù e del dovere sociale. Di fronte a questo le opinioni sono divise. Taluni, considerato che le dottrine epicuree prevalgono, ha detto: Orazio è epicureo; cercando di spiegare poi come e perché egli abbia in alcune parti della sua opera abbandonato i suoi principi. Altri, e son la maggior parte, ha creduto di superare ogni difficoltà col denominarlo eclettico. Dire che fosse stoico, non se l’è sentita nessuno.

Bisogna stabilire subito che eclettico, per quanto riguarda Orazio, non significa nulla; giacché epicureismo e stoicismo non si fondono in lui in un’unità superiore, ma restano l’uno accanto all’altro inconciliati e nemici. La miglior prova si ha nelle parole del poeta: "nullius addictus iurare in verba magistri…"

[…] Una via di uscita parve a qualcuno il criterio storico. Non dice Orazio che ad un certo punto della sua vita girò le vele e cambiò rotta? Già, se fino a quel punto egli fosse stato soltanto epicureo, e da quel punto in poi soltanto stoico. Ma nelle Epistole, che sono posteriori a quell’ode, la sproporzione tra stoicismo ed epicureismo è in favore di quest’ultimo, e con l’immagine lucreziana del "satur conviva" si chiude l’epistola seconda del secondo libro.

[…] La contraddizione c’è e forte, e non è tanto da componimento a componimento, spesso è nell’ambito di uno stesso stato d’animo; ed Orazio stesso lo sa e lo confessa: ora rigido custode della "virtus", ora seguace di Aristippo; ora credente nella provvidenza e nell’immortalità, ora intento a barricarsi nell’istante che non ha ieri né domani. Una volta si illuse di poter segnare il punto d’una decisa conversione; narrò d’un fulmine a ciel sereno. Qualcosa era di certo accaduto; ma troppe volte egli doveva mutare e rimutare.

Ebbene? Due anime anche per Orazio: l’una era quella di lui omiciattolo rabbiosetto e malignosetto, con la pancia in fuori e gli occhi lippi, che aveva una gran passione per la vita sfannullata, e per starsene in pace avrebbe volentieri mandato tutto e tutti al diavolo; ma l’altra era l’anima profonda, quella che tante volte noi vorremmo non ci fosse, che lo rendeva inquieto e mutevole, e non gli concedeva di stare pure un’ora con sé, e gli metteva le smanie e lo faceva commuovere, e lo accendeva di subitanei amori e di altrettanti rapidi sdegni, quella che gli aveva fatto lasciare la pace dell’Accademia ad Atene per cacciarlo nella tempesta della guerra civile, l’anima eternamente fanciulla, che di tutto si meraviglia e per la quale egli stesso si ripeteva come giaculatorie e formule di scongiuro le irte e dure sentenze di quegli uomini tutto cervello e niente cuore che erano i filosofi greci.»

Orazio non è veramente epicureo perché gli manca il distacco dalle cose; dell’epicureismo possiede solo la dimensione edonistica: non si rassegna intimamente al fatto che, prima o poi, bisognerà alzarsi da tavola vederla sparecchiare, perché possa sedersi qualcun altro. Quando se la prende con l’albero che stava per cadergli addosso, e lo maledice, e impreca contro le mani sacrileghe che l’hanno piantato — perché non potevano essere che le mani di un criminale parricida -, un poco scherza, e un poco no: la paura della morte è stata reale, altrimenti non se la prenderebbe così tanto. Quando poi descrive la vecchia signora che vorrebbe rotolarsi nel letto con gli amanti, benché decrepita e indesiderabile, certo fa della satira, ma anche qui gli manca il necessario distacco: diventa feroce, crudele. La descrizione minuziosa delle mammelle cascanti, del ventre flaccido e delle cosce rinsecchite non diverte, ma rattrista e disgusta il lettore, che deve bere il calice sino alla feccia, senza che gli sia risparmiato il particolare più obbrobrioso. E quando evoca una scena di magia nera e addirittura l’uccisione rituale di un bambino da parte delle streghe, allo scopo di procurarsi un filtro d’amore, che cosa sta facendo, il nostro Orazio? E quando mette in bocca a quel fanciullo, già spogliato delle vesti e pronto per essere consegnato alla morte, tremende imprecazioni contro le megere assassine, non crediamo davvero che si possa parlare di ironia o di scherzo macabro: lì Orazio fa sul serio, e c’è poco da scherzare. Fa venire i brividi. Ma è questo l’atteggiamento di un poeta epicureo?

L’antropologia che si ricava da molte poesie di Orazio è tremendamente pessimistica, e al pessimismo egli sembra reagire con il cinismo, più che con l’ironia: si direbbe che egli non ami gli uomini, che non si fidi di nessuno, che non sia capace di amare. Basti dire che in tutto il suo copioso canzoniere non emerge una sola figura femminile che ci rimanga impressa per la sua dolcezza o per la soavità: neppure una. Sfilano donne e ragazzi che soddisfano, più o meno bene, le sue voglie sessuali, ma nessuno di loro che lasci un segno, un rimpianto, un soffio di poesia. Quanto alla vita in generale, non si può dire che basti celebrare il buon vino e il fuoco scoppiettante nelle fredde giornate d’inverno, per ritrarne una impressione di calore e di partecipazione. Non basta cantare il Monte Soratte bianco di neve e incitare gli amici ad accumulare una scorta di ceppi coi quali tener desta la fiamma, né consolarsi, al calduccio, del vento che tira di fuori, tagliente: tutte queste sono pennellate gustose, accattivanti, che creano un’atmosfera, ma che non scendono nelle profondità dell’anima.

Le profondità dell’anima di Orazio ci restano misteriose; e tali dovevano apparire anche a lui stesso. Uomo intelligente, non avrà mancato d’interrogarsi su quel che aveva nell’intimo, su quell’ansia mal dissimulata che lo attanagliava; tuttavia, sappiamo che l’intelligenza non è sufficiente per fare chiarezza in se stessi, esistono persone intelligentissime che sono praticamente analfabete di sé, anzi, che adoperano la propria intelligenza per dissimulare a tutti, e a se stesse per prime, le radici del malessere che le tormenta. Orazio è destinato a rimanere un mistero: può piacere o non piacere, di sicuro non commuove, né suscita emozioni profonde: è lui stesso che vuol restare in superficie, in virtù di un minimalismo che, forse, è lo strumento di cui si serve per bloccare qualunque sguardo rivolto alle profondità della sua anima, compreso il proprio. Tremendo paradosso: l’arte della parola che si ritorce contro il suo artefice e lo imprigiona, ostaggio volontario, in potere di uno schermo impenetrabile, che lo pone in una disumana solitudine.

Eppure, la spiegazione forse c’è. Quando si fonda la propria esistenza sulla filosofia del "carpe diem", ma non si riesce a vedere bello il mondo, si rimane presi in trappola: legati per sempre ad una realtà sgradevole, o, quanto meno, potenzialmente minacciosa. E non ci sono vino, né fuoco scoppiettante, che possano scaldare l’anima intirizzita, restituirle la gioia di vivere. Questo è il dramma di ogni immanentismo chiuso in se stesso: e allora non resta altro da fare che mettersi la maschera, fingersi allegri e brindare e far battute, e scherzare sui difetti umani e sulle situazioni buffe o grottesche o pericolose che la vita ci riserva: come l’incontenibile lussuria di una vecchia baldracca, o il pericolo corso per la caduta d’un albero. Troppo poco per cacciare il gelo dal cuore…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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