
Orazio epicureo?
7 Settembre 2015
Abbiamo cambiato il volto delle nostre città fino a renderle irriconoscibili
8 Settembre 2015Lo scrittore inglese Walter Pater (nato a Shadwell, sobborgo di Londra, nel 1839 e morto a Oxford nel 1894), celebre per i suoi due libri «Mario l’epicureo», del 1885, e «Ritratti immaginari», del 1887, è passato alla storia della letteratura come il fondatore – insieme a John Ruskin (1819-1900: «Le sette lampade dell’architettura», 1849, e «Le pietre di Venezia», 1853), che però appartiene alla generazione precedente -, di quella sotto-corrente del Decadentismo che prende il nome di "movimento estetico", il cui assunto fondamentale è che l’arte è essenzialmente opera della creatività dell’artista e che, pertanto, un’arte che pretenda di rinunciare alla fantasia in nome del principio di realtà — come predicavano i positivisti e i naturalisti — inevitabilmente smarrisce se stessa e la propria ragione d’esistere.
L’importanza della figura di Walter Pater, pertanto, trascende l’ambito strettamente artistico e letterario; come altri romanzieri e saggisti della sua generazione, e non solo inglesi, è stato un esponente di punta di quella vasta tendenza estetizzante che ha caratterizzato direttamente un particolare "filone" del Decadentismo, e indirettamente un po’ tutto il clima intellettuale e spirituale europeo, negli ultimi decenni del XIX secolo.
Nel caso della Gran Bretagna, Pater, profondamente influenzato dai pittori pre-raffaelliti e, per questo verso, abbastanza vicino alla sensibilità di un saggista e incisore come William Morris, il celebre autore di «Notizie da nessun luogo» (cfr. il nostro saggio, di quasi dieci anni fa, «William Morris: fra utopia libertaria e nostalgia preindustriale», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 04/05/2006), si è fatto interprete di una vivace reazione al "moralismo" della cultura vittoriana, rivendicando non solo la completa autonomia dell’arte da ogni finalità etica, ma anche una sorta di sensualismo estetizzante, che culmina nella tesi, da lui esposta nel volume su «Il Rinascimento», pubblicato nel 1873, secondo cui il valore dell’arte si misura in base all’intensità delle sensazioni che essa è capace di suscitare nell’osservatore.
Il fatto artistico, secondo questa prospettiva, si colloca al livello della risonanza emozionale che desta nel pubblico, indipendentemente dai suoi contenuti, i quali, evidentemente, divengono una semplice occasione, un puro pretesto per consentire all’autore di trarre dai suoi lettori (o, ne caso del pittore, dello scultore e dell’architetto, dai suoi fruitori) quelle risonanze profonde che soltanto l’emozione allo stato "puro" è in grado di catalizzare e di portare al diapason. Le tesi di Walter Pater – alla cui diffusione molto ha giovato la fluidità carezzevole e melodiosa dello stile, ma anche, e forse soprattutto, il generale clima di rivolta anti-puritana dei salotti artistici e letterari e il successo travolgente, anche se effimero, presso il vasto pubblico, di uno scrittore e commediografo come Oscar Wilde, che sembrava incarnare, nella sua figura di dandy geniale e scandaloso, i pruriti anticonformisti di una società insofferente del "morso" della morale borghese — operavano, in buona sostanza, una rottura con la tradizione che è in qualche modo paragonabile a quella operata, tre secoli e mezzo prima, da Machiavelli nel campo della politica.
L’arte non deve avere nulla a che fare con il bene e con il male, perché essa è, nella sua intima essenza, un fatto originario, precedente la morale e quindi, in senso tecnico e letterale, a-morale: queste le nuove Tavole della Legge che gli araldi del "movimento estetico" – chiamato anche, semplicemente, dell’"arte per l’arte" — andavano proclamando, negli stessi anni in cui Nietzsche esortava la sua creatura, l’Übermensch, a spingersi audacemente «al di là del bene e del male».
Ha scritto il famoso anglista Mario Praz a questo proposito (in: «Pater», scelta e traduzione a cura di Mario Praz, Milano, Garzanti, 1944, pp. XIX-XXI):
«… Uno stile tutt’altro che perspicuo, ma d’una squisitezza laboriosa, d’una grazia impacciata, obbediente a gesti che son come leggi d’un rituale strano e necessario, uno stile d’una circolazione languida e soave, in cui un positivista avrebbe buon gioco di scoprire senz’altro il riflesso della lenta circolazione sanguigna, della bassa pressione, dello scrittore. Come Pascal, secondo che osserva il Pater, aveva fatto una virtù della sua malattia, così il Pater ha derivato una grazia dal suo stesso impaccio. Ma il segreto della sua tecnica l’autore non ce lo rivela davvero nel suo saggio sullo "Style" che, stravagantemente lodato da alcuni, non è che un abile centone di sagge massime di solito desunte dalla critica francese, un’arte poetica che nella carriera del Pater corrisponde a quel che è l’"Essay on Criticism" nella carriera del Pope.
Il Pater pensatore non richiederebbe un lungo discorso in senso assoluto, ché il suo pensiero, pur possedendo un incanto innegabile d’esposizione (e il volume "Plato and Platonism" ne è un insigne esempio), manca d’originalità; ed egli, quando disserta di filosofia, è più una persona di cultura filosofica che un filosofo vero e proprio; – ma sì in senso relativo, a illustrazione d’una fase della cultura europea che trova il massimo esponente in Renan. Renan, è stato detto, conservò l’anima ecclesiastica formatagli dall’educazione, un’anima piena di dolcezza, di penetrazione, di sfumature, e soprattutto conservò il senso e il rispetto della fede pur perdendo la fede e trasferendo alla scienza l’ardore che si solito alla fede s’accompagna. Pater non è un ecclesiastico rinnegato, ma, se mai, mancato; ha avuto tutta la vita la nostalgia della fede, ha ritualmente compiuto tutti gli atti esterni che favoriscono la visita della Grazia, vera immagine del raccoglimento allorché assisteva al servizio anglicano; ma, come ha detto il Du Bos, egli, come il personaggio di Mario, è di coloro che "ammirano la fede, la salutano, l’invocano senza potersi esimere dal sentir sempre oscuramente che la fede non verrà a loro, che essi non hanno interamente il diritto di andare a lei". Nella "Conclusione" degli "Studi sul Rinascimento" egli dice che l’unica opportunità degli uomini sta nell’ampliare l’intervallo breve di vita concessa, di far entrare il maggior numero di pulsazioni possibili nel dato tempo. "Grandi passioni possono darci questo senso accelerato della vita, l’estasi e l’affanno di amore, le varie forme dell’attività entusiastica, disinteressata o meno, che prendono naturalmente molti di noi. Assicuratevi solo che si tratti di passione". Pater ebbe tutta la vita la nostalgia dell’assoluto, e tutta la sua opera canta la desolata epopea dello sforzo frustrato per arrivarvi. La scena non prese per lui il posto della fede anelata; al rigore della ricerca storica e critica, da lui messa in primo piano agli esordi, sfuggì per la tangente della fantasia, e creò quella critica romanzata che sono i "ritratti immaginari".
Come critico d’arte, il Pater, incapace di distinguere una vera da una falsa attribuzione, eccelle nell’intuire il clima di un’ispirazione, d’un gusto, d’una maniera; il saggio sulla "Scuola di Giorgione" è l’esempio più caratteristico, basato com’è su attribuzioni oggi riconosciute false, eppure penetrante con sottigliezza incomparabile nello spirito idillico della pittura "giorgionesca". Come può avvenire un tale miracolo? Forse al modo stesso in cui il Goethe intuì lo spirito del "Faust" di Marlowe attraverso la rozza deformazione del teatro dei burattini.
Quel che di torbido che circola nell’estetismo del Pater si manifesta in forme fin troppo esplicite nell’opera di Oscar Wilde. Certe frasi del Pater danno manifestamente il "la" ai decadenti: "Chi vorrebbe scambiare il colore o la curva d’una foglia di rosa con quell’essere incolore, informe, intangibile, che Platone collocò tant’alto?". — "Il ragazzo, con le sue rosse labbra carnose e gli aperti occhi azzurri, che veniva al banchetto della vita con una gran coppa nelle sue mani." E quel gesto di Mario dinanzi alla tomba di famiglia, fatta da lui coprire di terra, quante volte lo ritroveremo negli scritti dei decadenti: "L’ultimo giorno egli venne assai di buon’ora, e di nascosto diede in anticipo gli ultimi tocchi, mentre non c’erano ancora gli operai; solo un ragazzo, che finiva di spianare il terrapieno, fu molto sorpreso della serietà con la quale Mario vi gittava i suoi fiori, uno ad uno, perché si mescolassero con la terra nera".»
In questo ritratto intenso e patetico della figura morale di Walter Pater, che ci sembra sostanzialmente condivisibile, quello che balza all’occhio è il paradosso di un intimo anelito verso l’Assoluto, una sincera tensione verso il mondo dello spirito e verso Dio, che determinano un corto circuito allorché, sentendosi impari allo sforzo e sfiduciato circa il risultato, il teorico dell’estetismo ricade nella dimensione immanente e vi si rinchiude, in un misto di struggimento e malinconia, consolandosi, per quanto possibile, e cercando di consolare i suoi lettori, con l’esortazione a vivere una vita pervasa da "un senso accelerato", a vivere con "passione", perché essa è la sola cosa che conta e la sola cosa che resta.
Da un lato, pertanto, vi è il rifiuto dell’utilitarismo materialistico, del produttivismo fine a se stesso, e anche di una morale "esterna" all’individuo, a maggior ragione se trascendente; dall’altro, invero curiosamente, una sorta di quantificazione del fatto emozionale, una esasperazione del concetto romantico del sentimento, che trova la sua teorizzazione nella formula secondo cui l’arte è tanto più vera, quanto più riesce a destare intense sensazioni. Insomma, il trionfo dell’edonismo, dopo aver sfiorato con le ali la dimensione mistica: l’esaltazione radicale, assoluta, della sensualità, dopo aver tentato di trascenderla (notevole, a questo riguardo, l’interesse di Pater nei confronti del platonismo, testimoniato da quello che è quasi il suo testamento spirituale: il volume «Platone e il platonismo», pubblicato nel 1893 e cioè un anno prima della morte).
Pater, in fondo, è, egli stesso, il protagonista del suo romanzo più noto: «Mario l’epicureo», ambientato nella Roma dell’imperatore filosofo, Marco Aurelio. Il protagonista, Mario, è un giovane patrizio dalla cultura raffinata e dalla sensibilità inquieta, tutto chiuso nel suo mondo intellettuale ed emozionale umbratile ed esigente, che finisce per accostarsi al cristianesimo non perché toccato dalla forza dirompente del messaggio evangelico, dalla grazia, ma per una sorta di (malintesa) affinità con l’ascetismo cristiano, sotto il segno di un valore negativo anziché positivo: il rifiuto della "volgarità" del mondo, e, quindi, un aristocraticismo di fondo che, invece, nel cristianesimo genuino non vi è affatto.
Insomma, Marco-Pater è un intellettuale sensuale e anche, a suo modo, ascetico, non per spirito di rinuncia al mondo, in vista di quell’altro, ma per orrore e disgusto della banale realtà quotidiana e per insofferenza e fastidio verso la grossolanità delle cose e delle persone comuni. Un Dorian Gray trapiantato nella Roma del II secolo dopo Cristo; ma si faccia attenzione alle date: il famoso romanzo di Oscar Wilde è del 1890-91, quello di Pater è del 1885: sicché è stato Mario a influenzare Dorian, semmai, e non il contrario. Piuttosto, si potrebbe cercare una influenza su Walter Pater da parte di Huysmans: «A ritroso» compare nel 1884, e l’epicureo Mario potrebbe aver subito, per più di qualche verso, l’influsso di Des Esseintes; e la sua Roma imperiale, potrebbe essere vista come un riflesso in controluce della Parigi fin de siècle.
Se la lettura di Mario Praz è convincente, e a noi pare che lo sia, allora bisogna concludere che il paradosso, e la contraddizione, dell’estetismo di Walter Pater, nascono dal fatto che il suo anelito verso l’Assoluto, ancorché sincero, parte da una base, per così dire, negativa: non è la ricerca di Dio, ma la fuga dalla bruttezza del mondo; viziato da questo difetto d’origine, esso ricade su se stesso e giunge là dove giunge anche ogni misticismo religioso puramente negativo: al rifiuto e all’esclusione della realtà; ma, a differenza di quello, non in vista di una realtà più bella, ma in una concentrazione e quasi in una condensazione di questa realtà, distillando da essa le sensazioni che suscitano una forte passione e, così, offrono il surrogato di una vera evasione o di un reale trascendimento. Ed è curioso, ma non illogico, che, per questa via, Pater e gli estetisti della sua corrente tornino, senza avvedersene, a una sorta di utilitarismo, ossia alla filosofia in apparenza più lontana dalle loro concezioni e dalla loro sensibilità: perché cos’altro è, se non una forma di utilitarismo, il sostenere che l’arte è tanto più vera, quanto più intense sono le sensazioni che suscita? La verità è che l’edonismo e l’utilitarismo sono fratelli siamesi e non si può prendere l’uno, senza trovarsi legati a filo doppio con l’altro. Gli estetisti volevano l’edonismo, ma non hanno visto che era impossibile non cadere, per quella via, nell’utilitarismo: se la norma dell’agire non è più l’etica, ossia il riconoscimento e la distinzione del bene e del male, ma ciò che piace, allora questo diventa il fine di ogni azione ed equivale alla ricerca dell’utile, e sia pure in senso spirituale…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels