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4 Settembre 2015Come ridare slancio alle attività commerciali di una città universitaria e, nello stesso tempo, adornarla con qualcosa di unico, con una piazza-giardino ove la gente possa incontrarsi, parlare, intrattenersi, all’insegna di quel valore umano irrinunciabile che è la socialità, così come la concepiva, fra gli altri, Carlo Goldoni? Sono questi i due interrogativi che deve essersi posto Andrea Memmo (nato e morto a Venezia, rispettivamente nel 1729 e nel 1793), diplomatico di primo piano nella Repubblica Serenissima — fu anche ambasciatore a Costantinopoli, indi senatore e procuratore di San Marco, e sfiorò l’elezione alla carica dogale, poi ottenuta da Ludovico Manin -, allorché, nel 1775, giunse a Padova in qualità di Provveditore straordinario.
In quella città vi era una vastissima area (poco meno di 90.000 meri quadrati), all’interno della cinta muraria, ma in posizione eccentrica, e cioè nella sezione più meridionale, in direzione di Bologna – il cosiddetto Prato della Valle — che, da tempo immemorabile, versava in condizioni di precarietà, come oggi si direbbe, idrogeologica: era una specie di palude, o di acquitrino, cui nessun architetto o urbanista era mai riuscito a dare una sistemazione conveniente, recuperandola a tutti gli effetti nel contesto del tessuto urbano.
Memmo si mise subito d’impegno per dare una soddisfacente sistemazione a quell’area trascurata e alquanto degradata, sia nella prospettiva di rivitalizzare i commerci, fondati sulla presenza del mercato, sia in quella di abbellirla e trasformare una località malsana e trascurata nella perla o, quanto meno, nell’elemento di maggiore originalità del centro cittadino, già impreziosito da un’altra particolarità patavina: il non lontano Orto Botanico, uno di più antichi al mondo, così come il Prato della Valle è una delle piazze più vaste d’Italia e d’Europa (cfr. il nostro precedente articolo: «Un’oasi di verde, di pace e di cultura: l’Orto Botanico di Padova», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 12/01/2011).
Il Prato della valle, con la sua "isola" centrale tutta coperta di verde, il duplice filare alberato che s’incrocia nel mezzo, e l’anello delle acque che la contorna, conferendole un aspetto "veneziano", riflettendo le facciate dei palazzi circostanti, con tanto di ponticelli e con la doppia fila di statue che introducono una note solenne, ma gentile al tempo stesso — statue di personaggi illustri, in mezzo ai quali non poteva certo mancare il nostro Memmo -, rappresenta davvero una soluzione elegante e intelligente per un problema urbanistico non trascurabile.
In effetti, la sistemazione odierna non riflette il progetto originario di Andrea Memmo, che era ancor più audace, in quanto prevedeva l’estensione dell’area verde all’intera superficie della piazza, sì da inserirla pienamente nel circostante tessuto cittadino, che fa riferimento ai vertici di un triangolo ideale: la strada adducente alla Basilica di Sant’Antonio, il complesso della Basilica di Santa Giustina e l’imbocco della via principale, che si dirige, sotto una duplice fila di portici, verso il cuore della città. Il fatto è che, non appena completata la prima parte del progetto, ragioni finanziarie, ma anche resistenze e perplessità urbanistiche, imposero una battuta d’arresto ai lavori, che erano proceduti assai speditamente: battuta d’arresto che si è poi rivelata definitiva. Inutile dire che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, con l’avvento dell’automobile, quel vastissimo anello stradale che circonda l’isola verde è apparso addirittura provvidenziale, e nessun amministratore si è mai sognato di intaccarlo; anche se, a ben guardare — e pur considerando l’utilizzo per il mercato settimanale e per altri mercati periodici — sarebbe sufficiente destinare al traffico la metà della sua ampiezza, almeno sul lato meridionale, quello prospiciente la Basilica di Santa Giustina (cui il terreno del prato, in origine, apparteneva: fu con l’acquisizione da parte dell’amministrazione cittadina che nacque l’idea di prosciugare la palude e di ristrutturare interamente l’area in tal modo recuperata).
Così ricorda quella vicenda urbanistica la storica dell’arte Annamaria Conforti Calcagni nella sua interessante e valida monografia «Bellissima è dunque la rosa. I giardini dalle signorie ala Serenissima» (Milano, Il Saggiatore, 2003, pp. 182-184):
«Se con l’opera di Angelo Querini [autore, fra l’altro, di un "giardino filosofico" nel quartiere di Altichiero a Padova, ideato per celebrare la gloria di Voltaire e per riprodurre quello di Ferney la sorte non sarà benigna, del tutto malvagia non risulterà invece con quella intrapresa da Andrea Memmo, suo amico e compagno di scuola, la cui ideazione di Prato della Valle trova ancora un preciso riscontro nella realtà, nonostante le menomazioni a cui l’originario e geniale progetto verrà implacabilmente sottoposto.
L’idea, appassionante e temeraria, di prosciugare un’area paludosa e malsana, vastamente estesa nella zona sudorientale di Padova, per realizzare un’operazione di reddito capace di rivitalizzare le languenti attività commerciali della città e tradurla nel contempo in una realizzazione formalmente felice, non poteva che derivargli dall’insegnamento di padre Lodoli e dalla sua precorritrice visione razionalistica dell’architettura, per la quale forma (esteticamente appagante e funzione (pratica ed economica) dovevano egualmente convergere nell’ideazione stessa dell’opera e risultarvi inscindibili.
Il modo con cui Andrea Memmo imposta il problema, fin da quando, nel marzo del 1775, si reca per la prima volta in loco, si muove appunto in quella duplice direzione. E, grazie anche alla collaborazione di Andrea Cerato a cui Memmo affida la realizzazione delle proprie intuizioni folgoranti, la superficie informe dell’area trova il suo fulcro centrale nell’elegante andamento di una sorta di isola ellittica dalle armoniose proporzioni, mentre l’acqua, che l’operazione di drenaggio raccoglie prosciugando la palude, le si convoglia intorno disegnando uno specchio anulare che ne asseconda la forma e la mette in risalto. Ma non è tutto. Per impedire che le riceve di quell’opera precaria (la sua realizzazione procede a ritmo incalzante in pochissimi mesi) comincino a franare, le fondamenta che si rendono indispensabili non si limitano a informi arginature, ma si trasformano immediatamente in un’opera di alta qualificazione estetica: diventando il basamento, solido ed efficiente, di una vera e propria galleria di statue dedicate agli uomini illustri che con la loro opera resero nei secoli onore alla città e che ora, con la loro presenza bianca e luminosa, conferiranno alla nuova realizzazione patavina prestigio e lievità. E quella loro doppia teoria che correrà su entrambe le rive del canale esibendo, insieme con quello dell’effigiato, anche il nome di chi ha finanziato l’opera, viene affidata a una pubblica sottoscrizione (le idee non mancano) e prende subito avvio. Ancora non basta: al di là della messe a punto di altri interventi di carattere estetico e funzionale (i ponticelli sul canale per l’accesso ai due assi viari, che si incrociano al centro dell’isola, solo per fare un esempio), prende corpo anche l’idea di fare di Prato della Valle non solo un luogo di fiere e di commercio, di incontro e di passeggio (l’isola centrale è appunto pensata, e in anticipo sui tempi, come un vero e proprio giardino pubblico), ma addirittura come una sorta di immenso anfiteatro, "il più grande di tutti i tempi" che doveva coinvolgere l’intero spazio della piazza mediante un terzo e più largo giro di statue e una serie di gradinate da adeguare alle più varie circostanze. Ovviamente un’idea tanto innovatrice e di tale respiro urbanistico non incontrerà il necessario favore, e dopo la lunga sequela di accostamenti, compromessi e riduzioni a cui le idee di Memmo verranno via via sacrificate, la piazza-giardino si limita ora alla sola isola centrale. Che così resta un episodio a se stante e privo di un rapporto convincente con il vastissimo spazio che la circonda, con cui non ha raggiunto una qualificante definizione.»
Andrea Memmio non era un architetto, né un urbanista, ma un politico, un diplomatico, e – come quasi tutti gli uomini in vista del suo tempo — un letterato. Era un ambizioso, che per poco non si trovò fra le mani la patata bollente di dover liquidare la millenaria Repubblica di San Marco di fronte all’arroganza napoleonica: poco invidiabile privilegio che toccò, invece, al suo "rivale" Ludovico Manin, dal momento che, nello scrutinio per la elezione di quello che doveva essere l’ultimo doge, il partito dei conservatori aveva preso il sopravvento su quello dei novatori, che aveva in Memmo, appunto, il suo rampante candidato.
Era un seguace delle dottrine illuministe, della filosofia "dei lumi" e, in generale, di tutte le novità provenienti da Oltralpe e da Oltremanica; era anche, inutile dirlo, un estimatore di Goldoni e un sostenitore della sua riforma teatrale: insomma, era un uomo del XVIII secolo, che scalpitava per il nuovo, disinibito e galante quanto basta per intrattenere relazioni con diverse dame della buona società, in particolare con la scrittrice Giustiniana Wynne (figlia di un gentiluomo inglese e di una veneziana) e per considerarsi intimo amico di personaggi come Melchiorre Cesarotti e Giacomo Casanova. Ma l’influenza che più si fece sentire su di lui e sulla sua concezione urbanistica fu quella del suo precettore, il frate francescano Carlo Lodoli (1690-1761), priore del convento di San Francesco della Vigna a Venezia, che non lasciò nulla di scritto, ma che esercitò un notevole influsso sugli architetti del suo tempo per le sue idee fortemente innovatrici, che ne fanno un precursore del moderno funzionalismo.
E appunto la sistemazione pensata e realizzata, con indubbia originalità e tempestività, da Andrea Memmo – che venne ad abitare in un palazzo lì di fronte e che ogni giorno si recava a controllare il procedere dei lavori -, il quale non era un architetto, ma che ebbe il merito di affidarsi alla valida collaborazione di Domenico (non Andrea, come scrive erroneamente la Conforti Calcagni) Cerato, un architetto vicentino di valore, rimanda all’idea centrale del funzionalismo: ossia che l’aspetto di ogni edificio, o gruppo di edifici, o di qualunque area urbanistica, deve rispecchiare chiaramente la funzione a cui essi sono destinati. Il funzionalismo, imbevuto di razionalismo e di utilitarismo illuministi, tende, per sua natura, ad anteporre ciò che è "utile" a ciò che è, semplicemente, "bello"; anche se, per fortuna, nel caso del Prato della Valle, la soluzione adottata da Andrea Memmo e da Domenico Cerato si sforza, con successo, di fondere le due funzioni e le due "anime", quella pratica e quella estetica.
Rimane sul tappeto la vexata quaestio se una città debba essere, semplicemente, il terreno di prova per gli esperimenti di urbanisti e architetti intenzionati a innovare ad ogni costo il tessuto urbano, a modo loro e secondo la loro ideologia, magari anche con soluzioni formalmente felici, o comunque soddisfacenti; o se non debba essere, piuttosto, il luogo in cui gli urbanisti e gli architetti — e, naturalmente, gli amministratori pubblici -, mettendosi nel solco della tradizione, convogliano le energie esistenti ed esaltano le potenzialità latenti in quel determinato tessuto urbano, assecondandone la naturale vocazione e valorizzando i suoi tratti specifici. In questa seconda opzione, non si tratta di creare qualche cosa che sia originale, ma fine a se stesso e slegato dalla storia ed estraneo alla qualità estetica degli edifici circostanti, ma di innovare con moderazione e con sostanziale rispetto dell’esistente, sottolineando gli elementi di continuità nell’evoluzione del tessuto urbano, piuttosto che quelli di rottura. Alla base delle due filosofie, vi è un diverso atteggiamento intellettuale e psicologico da parte dell’urbanista o dell’architetto: più auto-centrato nel caso della prima, più umile e "corale" in quello della seconda, laddove colui che opera gli interventi non si pone come un deus ex machina, ma, più modestamente — un po’ come gli artieri medievali – come l’interprete di una tradizione e di una sensibilità generale e condivisa.
Peraltro, il prosciugamento di un’area paludosa offre la fortunata circostanza di poter operare drastici interventi urbanistici partendo da zero, per cui non vi è il rischio di stravolgere un qualcosa che non c’è; senza contare i vantaggi igienici di una simile operazione, fattore cui era molto sensibile la cultura illuminista e, in genere, settecentesca (si pensi all’ode «La salubrità dell’aria» di Giuseppe Parini). La questione, però, rimane, in tutta la sua pregnanza: che cosa è l’urbanistica, e come essa deve pensare se stessa in rapporto alla città? L’urbanista è un signore capriccioso, dotato di poteri illimitati, che può collocare una piramide in vetro davanti al Louvre di Parigi, o gettare un ponte in acciaio e vetro attraverso il Canal Grande di Venezia, senza rendere conto a nessuno, meno che mai alla cittadinanza? Se è così, che Dio ce la mandi buona allorché costui si mette all’opera…