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La campagna franco-spagnola in Cocincina (1858)

Nel 1858, mentre Cavour stringe con Napoleone III gli accordi segreti di Plombiérs, da cui sarebbe scaturita la guerra franco-austriaca del 1859 (che gli storici italiani chiamano la Seconda guerra per l’indipendenza), all’altro capo del mondo, nella Penisola Indocinese, si sta giocando un’altra partita decisiva: quella fra l’imperatore dell’Annam, Tu-Duc, e l’ammiraglio francese Rigault de Genouilly, inviato con una squadra navale per chiarire, una volta per tutte, le ambigue relazioni fra i due Paesi, vendicare la persecuzione dei cattolici scatenata dalle autorità annamite in odio alla penetrazione francese, e gettare le basi per una futura, ulteriore avanzata, che permetta di sventare — come si sospetta a Parigi – analoghe intenzioni della Gran Bretagna.

Scrive il saggista Francis Mercury nel suo lavoro su «La conquista del Tonchino» (in: «I grandi enigmi storici del passato», a cura di Bernard Michal e Franco Massara, Ginevra, Edizioni Ferni, 1972, vol. 13, pp. 188-192):

«Fin dal 1825, quando il vascello francese Thétis sbarca clandestinamente un missionario a Turane, l’imperatore dell’Annam pubblica un editto di proscrizione, il primo dopo l’arrivo degli Europei: "La religione perversa degli Europei corrompe il cuore degli uomini. Da molto tempo numerose navi straniere venute qui per i loro commerci hanno lasciato dei preti nei nostri Stati. Essi hanno sedotto e pervertito il cuore dei popoli e falsato i buoni costumi. Questa è una grande calamità per l’impero. Perciò noi ci opponiamo a questi abusi per ricondurre il popolo sulla retta via."Le chiese si chiudono. I preti vengono richiamati a Hué, col pretesto che il governo vuol far tradurre le opere europee. Essendo scoppiata la rivolta in sei province della Cocincina, l’imperatore accusa i missionari di averla fomentata e di avere chiesto l’aiuto del Siam.Dopo aver represso la rivolta, l’imperatore fa giustiziare sete preti e numerosi cristiani. A questo punto l’Inghilterra, per obbligare la Cina ad aprire le porte al suo commercio, decide di conseguire questo obiettivo con la forza. È la guerra del’oppio. Questa droga, prodotta in India, serve effettivamente di pretesto a Londra poiché la Cina non intende tollerarne l’accesso. La flotta britannica interviene a Canton nel 1839. Nel 1842, col trattato dio Nanchino, la Cina si vede costretta a cedere Hong Kong e ad aprire cinque delle sue porte. È il segnale. La Francia, esige, nel 1844, vantaggi simili e, per giunta, la libertà d’azione per i missionari cattolici. L’imperatore dell’Annam Tu-Duc, incoronato nel 1848, non si piega a quest’ultima esigenza. Nel 1856a Francia decide perciò di ottenere con un accordo diretto l’osservanza del trattato con la Cina. Inoltre chiede la cessione di Turane, riferendosi al trattato concluso da Monsignor Pigneau, in nome di Gia-Long, con Luigi XVI. Questa è senz’altro una curiosa interpretazione del trattato, se si ricorda che la Francia, a suo tempo, non aveva rispettato le clausole, lasciando che il vescovo del Tonchino prendesse delle iniziative private. Tu-Duc rifiuta. La nave da guerra Catinat si presenta allora davanti a Turane. I mandarini locali, applicando le disposizioni di Hué, rifiutano ogni contatto.. Il comandante del Catinat deve sbarcare e attaccare la guarnigione annamita. L’assalto è alla baionetta. Tu-Duc, appoggiato dalla Cina, non vuol cedere e il distaccamento francese, troppo debole per continuare la lotta, deve ripartire. Dopo questo infelice intervento, i cristiani fanno ancora le spese dell’operazione e molti di loro vengono giustiziati con i loro vescovi, per la maggior parte spagnoli.

Di fronte a questa situazione il vescovo della Cocincina, monsignor Pellerin, va in Francia a chiedere udienza a Napoleone III. L’imperatore non sembra convinto dell’utilità di una conquista coloniale in Asia. Ma, per necessità di politica interna, trova utile apparire come il difensore della cattolicità. Egli approva, dunque, un intervento della flotta. Il ministro della marina p, d’altra parte, fautore dell’installazione di basi in quella parte del mondo. Il ministro degli Affari Esteri è del pari favorevole a una azione che serva d’esempio all’Annam. Il prestigio della Francia è effettivamente posto in causa dopo lo scacco di Turane: Tu-Duc non si priva del piacere di moltiplicare le dichiarazioni vittoriose. E così fa pubblicare in tutto il paese la dichiarazione seguente: "Dei barbari occidentali sono venuti con una nave armata di fronte ai forti della capitale del regno… I Francesi non sono terribili, abbaiano in lontananza come cani e fuggono come capre quando sono in presenza di terribili guerrieri annamiti…"

Qualche mese dopo, il 31 agosto 1858, Rigault de Genouilly si presenta davanti alla baia di Turane con tredici navi francesi, una nave spagnola, due battaglioni di fanteria di marina, una batteria di artiglieria e alcune centinaia di ausiliari delle isole Filippine, procurati dagli Spagnoli che vogliono vendicare i missionari uccisi. Egli bombarda i forti e si impadronisce delle città. Il suo progetto iniziale è di impossessarsi di Hué, ma i bassi fondali impediscono il passaggio delle navi. Così deve restare in rada alcuni mesi. Le difficoltà si moltiplicano ben presto. Una epidemia di colera stermina le truppe: duecento morti… Egli pensa allora di risalire verso il Tonchino, dove apprende che una rivolta sta per scoppiare. Finalmente i monsoni d’inverno favoriscono un’operazione verso il delta del Mekong Nel febbraio del 1859 fa rotta vero sud e, dopo cinque giorni di combattimenti di avvicinamento, dà l’assalto alla cittadella di Saigon. Il i7 febbraio, alle dieci del mattino, la città è in mano alla fanteria di marina.

Stabilitisi a Saigon, i Francesi, poco numerosi, non possono che limitarsi a difendersi dalla controffensiva annamita che dura parecchi mesi. Comandati dal maresciallo Nguyen Tri-phuong, gli annamiti investono l’intera città e danno prova, secondo gli ufficiali francesi, di una vera scienza delle fortificazioni in campo aperto. La situazione dei Francesi si fa di giorno in giorno più difficile. A questo punto arriva nella rada di Saigon l’ammiraglio Charner, di ritorno dalla guerra di Cina: Settanta navi, quattrocentosettanta cannoni, una brigata di fanteria, dodici compagnie di fucilieri di marina, zappatori e cacciatori d’Africa. Siamo agli inizi del 1860. Per "darsi un po’ d’importanza"le truppe francesi occupano i dintorni di Saigon. Ed è così che, sempre per "darsi delle arie", durante sei anni e facendo fronte a delle unità regolari e a dei gruppi di guerriglieri, gli ammiragli Charner e Bonard sono indotti ad occupare tutti il sud della Cocincina. Un trattato formato con la corte di Hué consolida presto la conquista militare, senza che Parigi abbia ufficialmente stabilito un piano o almeno un progetto di colonizzazione. Nel 1862, il 5 luglio, quando è appena scoppiata nel Tonchino la rivolta annunciata all’ammiraglio Rigualt de Genouilly l’anno prima, Tu-Duc, impegnato su due fronti, firma a Saigon un trattato col quale cede alla Francia le tre province cocincinesi di Saigon, Mytho e Bien-hoa (in cui si erano svolti dei terribili combattimenti). La metà della Cocincina appartiene così alla Francia. Il trattato concede, inoltre, al commercio francese tre porti annamiti, fra cui Turane. I cristiani si vedono accordata la libertà di culto in tutto il territorio dell’Annam. Un anno dopo, il 15 luglio 1863, la Francia promulga il trattato d Saigon. L’11 agosto dello stesso anno la Cambogia accetta il protettorato francese. Però Parigi, malgrado i suoi successi, non sembra ancora decisa a definire la sua dottrina. Meglio, nel 1863, Napoleone III è sul punto di accettare una transazione: la restituzione dei territori presi all’Annam in cambio della libertà di culto e di un tributo annuale. Ma, avendo Tu-Duc suscitato delle rivolte nelle province cedute alla Cambogia, alleata della Francia, gli "ammiragli" approfittano dell’occasione per affermare di nuovo le loro tesi e, infine, i territori occupati vengono mantenuti. L’anno dopo la Cocincina diventa "colonia francese". Il ministro della Marina Chasselou-Laubat aveva fatto pervenire all’imperatore il 4 novembre 1864, un rapporto nel quale dimostrava la necessità per la Francia di non abbandonare la sua conquista.»

Riassumendo. La campagna di Cocincina, iniziata il 1° settembre 1858 e conclusa con la firma del Trattato di Saigon, il 5 giugno del 1862, si colloca nell’ultima fase della prima ondata coloniale contemporanea, quella che va dalla fine delle guerre napoleoniche agli anni Settanta del XIX secolo: cioè agli anni della seconda Rivoluzione industriale, basata sul ferro e sull’acciaio, della prima grande crisi economica nota come Grande depressione del 1873 (e durata, in pratica, fino al 1895) e della guerra franco-prussiana del 1870-71, che ridefinisce in maniera radicalmente nuova i rapporti di forza in Europa e, di riflesso, nel mondo.

Fino al principio degli anni ’80, le spedizioni coloniali e la formazione di nuovi protettorati avviene in maniera disorganica ed episodica, più sulla spinta di singole iniziative da parte di comandanti locali, di ammiragli, di commercianti, di consoli delle potenze europee; nonostante episodi di maggiori dimensioni, come la famigerata Guerra dell’oppio (1839-42), condotta dalla Gran Bretagna contro la Cina (e replicata nel 1856-60, con la partecipazione di Francia, Stati Uniti e Russia), nel complesso questa prima fase si svolge in tono minore e non coinvolge grosse forze militari; a volte si tratta di conflitti decisi da irrisori distaccamenti di fanti di marina.

La campagna di Cocincina rientra in questa tipologia. Essa è condotta da due potenze europee, la Francia come socio di maggioranza e la Spagna come socio di minoranza, che non hanno un preciso disegno strategico nella regione indocinese. Per gli Spagnoli, che, durante il regno di Isabella II, a fatica mantengono il possesso dell’arcipelago delle Filippine (e alcuni altri arcipelaghi del Pacifico occidentale: Palau, Marianne, Caroline, più l’isola di Guam), travagliati da continue lotte civili e istituzionali nella madrepatria, si tratta solo di vendicare l’uccisione di alcuni vescovi e preti, di ristabilire la libertà d’azione per i missionari cattolici e di salvaguardare il prestigio e l’onore della bandiera: il che implica anche un indennizzo in denaro da parte del governo imperiale annamita, senza che ciò costituisca la ragione principale dell’impresa). La Spagna non ha, in Cocincina, alcuna mira territoriale definita; semmai, il governo di Madrid sta incominciando ad accarezzare il sogno d’una improbabile restaurazione del proprio dominio coloniale all’altra estremità dell’Oceano Pacifico, in Per: e sarà la breve, donchisciottesca e ingloriosa guerra ispano-peruviana del 1866 (cfr. il nostro articolo: «La guerra ispano-peruviana del 1865-66», pubblicato nel 2008 sul sito «It. Cultura.Storia. Militare».

La posizione francese è diversa, ma non si può dire che il governo di Parigi abbia già delineato un vero e proprio piano di espansione e di conquista nella Penisola indocinese. Fin dagli anni ’70 del XVIII secolo i Francesi si sono affacciati sulla regione del Mekong e hanno avviato relazioni diplomatiche con l’imperatore dell’Annam, sotto il regno di Luigi XVI; però, fino al 1858, essi non hanno mai pensato seriamente a sottomettere quelle lontane regioni. Intorno alla metà del XIX secolo, però, le cose cambiano: commercianti francesi, avventurieri e trafficanti d’armi, risalgono il Mekong alla ricerca di una via di comunicazione diretta con lo Yunnan e con l’Impero cinese; non trovandola, spostando le loro attività lungo il Fiume Rosso, che attraversa il Tonchino. Matura lentamente il disegno di impadronirsi di esso e, nello stesso tempo, di aprire al commercio europeo i porti del Vietnam, così come è già stata costretta a fare la Cina. Intanto i missionari cattolici (francesi, spagnoli, italiani e portoghesi) si spingono nell’interno e iniziano la loro opera di predicazione e conversione fra le popolazioni indocinesi, cosa che irrita profondamente l’imperatore Tu-Duc, ancora speranzoso di poter respingere la penetrazione francese grazie alla tradizionale protezione da parte del Celeste Impero.

La conclusione della campagna, nel 1862, lascia impregiudicato il destino finale dell’Indocina: i Francesi si sono annessi tre province all’estremità meridionale dell’impero annamita, circa metà della Cocincina, ma non hanno ancora deciso se procedere nell’estensione della conquista o se, addirittura, rinunziarvi. Napoleone III, qualche tempo dopo, è tentato di farlo: impegnato (dal 1864) nella disperata impresa messicana di Massimiliano d’Asburgo, e timoroso della crescente potenza prussiana, egli è sul punto di restituire a Tu-Duc le tre province annesse, e solo un intervento in extremis di alcuni funzionari locali lo induce a mutare opinione. La Marina francese, portavoce degli interessi commerciali, industriali e finanziari della nazione, ha le idee più chiare del sovrano e del suo governo: il Vietnam deve diventare una colonia francese.

La svolta negli orientamenti di politica coloniale della Francia, ma anche delle altre maggiori potenze europee, si colloca al principio degli anni ’80 del XIX secolo. Senza dubbio, ha a che fare con la risposta dell’economia europea alla fase della Grande Depressione (negli Stati Uniti la risposta fu simile, e tuttavia diversa: c’erano le immense ricchezze dell’Ovest da valorizzare, senza bisogno, per il momento, di pensare a una politica coloniale). La crisi era stata innanzitutto una crisi di sovrapproduzione: per uscirne, era dunque indispensabile conquistare nuovi mercati e, nello stesso tempo, reperire materie prime a basso costo per l’industria in piena espansione. La competizione si fa più serrata, quasi convulsa, non solo fra le potenze europee e i potentati extra-europei, le cui strutture pre-moderne non sono in grado di reggere il confronto, ma anche fra i diversi stati europei, cui si aggiungeranno gli Stati Uniti, in particolare con la guerra contro la Spagna del 1898 (cfr. il nostro articolo: «La caduta di Santiago di Cuba nel 1898 segna il tramonto della presenza spagnola in America», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 31/05/2010). Nel 1881, i Francesi impongono il loro protettorato al bey di Tunisi, con il Trattato del Bardo, precedendo solo di pochi giorni una analoga iniziativa italiana; nel 1883, il governo di Parigi deve decidere fra la pace e la guerra nei confronti del Tonchino, e, più in generale, dell’imperatore dell’Annam (e sceglierà la guerra, che le darà il protettorato su tutta l’Indocina); nel 1884-85, il Congresso di Berlino, sulla spinta delle spregiudicate imprese affaristico-coloniali di Leopoldo II del Belgio, decide la sorte del Congo e di gran pare dell’Africa.

Non sono più singoli comandanti militari o singole imprese commerciali, a chiedere e ottenere l’intervento diretto della rispettiva madrepatria: sono le grandi banche e le grandi industrie; intorno ad esse, si precisa l’ideologia della superiorità dell’uomo bianco e del suo diritto-dovere di portare la civiltà ai popoli extra-europei. Soccombono a questo formidabile assalto tutti i potentati africani (a eccezione dell’Abissinia); in Asia si salvano, ma solo formalmente, quelli che sono oggetto degli appetiti di diverse potenze europee (Persia, Siam, Cina), le quali finiscono per neutralizzarsi a vicenda. Quella che va dal 1881 al 1914 è l’epoca d’oro del colonialismo europeo: quella che verrà dopo, a partire dalla Prima guerra mondiale, sarà solo una appendice destinata all’esaurimento. Fino al 1914 il colonialismo è in ascesa, perché è in ascesa la fiducia dell’uomo bianco in se stesso: basta leggere le poesie di Rudyard di Kipling e i romanzi di Jack London per farsene un’idea; poi, il tarlo del dubbio comincerà ad insinuarsi, parallelamente al sorgere e all’affermarsi dei nazionalismi africani ed asiatici. Passare dalla lettura di Jack London a quella di E. M. Forster (col suo Passaggio in India) è come passare da un’alba piena di forza e di promesse, ad un malinconico tramonto; sullo sfondo, la denuncia spietata di autori come Multatuli (col suo romanzo-pamphlet Max Havelaar), che denunciano la cinica e brutale spoliazione dei popoli indigeni da parte dei colonialisti bianchi,in questo caso degli Olandesi nelle Indie Orientali.

La campagna di Cocincina, pertanto, si sviluppa in un contesto ancora parzialmente pre-moderno e tardo-romantico: gli ideali "disinteressati", come la giusta rappresaglia per i cristiani uccisi e il ristabilimento della libertà religiosa, sembrano giocarvi un ruolo almeno pari a quello degli interessi industriali e commerciali. Così la pensa, quanto meno, il comandante Carlos Palanca y Gutierrez, per conto della monarchia spagnola; per contro, il francese Charles Rigault de Genouilly non è così donchisciottesco, o altrettanto ingenuo: egli si rende ben conto che la posta in gioco è molto più alta e, se si vuole, assai più materialista. Nondimeno, e come già i suoi predecessori, dotato di amplissimi poteri politici e militari, davanti alla sfida di Te-Duc, egli non esita a rilanciare, e la buona sorte lo assiste: con poche migliaia di soldati, alla fine, è in grado di offrire alla sua patria la conquista di Saigon e, con essa, la base di partenza per la costituzione di un nuovo impero asiatico, in una regione economicamente ricchissima e strategicamente cruciale. La Francia, infatti, possiede già, nel Pacifico, fin dal 1842, un ricco impero coloniale, costituito dagli arcipelaghi polinesiani che fanno capo a Papeete, sull’isola di Tahiti; oltre alla Nuova Caledonia, dal 1853 (e, più tardi, nel 1887, il condominio con la Gran Bretagna sulle Nove Ebridi, nella Melanesia).

Per la Francia, il regno di Napoleone III e il cosiddetto "decennio di raccoglimento", dopo la sconfitta nella guerra con la Prussia, rappresenta, come si è detto, l’ultima fase del primo periodo coloniale. Il Paese deve ritrovare la fiducia in se stesso; senza scordarsi dell’Alsazia-Lorena e della frontiera del Reno, esso si prepara a convogliare nelle imprese coniali tutta l’energia politica, commerciale e militare che, per il momento, non può trovare sbocco in Europa, costretto com’è in una posizione di isolamento dalle abili alleanze diplomatiche strette da Bismarck fra la Germania, la Russia e l’Austria-Ungheria. Sarà un primo ministro repubblicano, massone e anticlericale, Jules Ferry (1881-83), a cogliere i frutti della campagna del 1858 e ad annettere l’Indocina alla Francia…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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