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Un nuovo Tommaso Campanella nella Treviso del primo Novecento?

Ci siamo già occupati, in due precedenti articoli, della originale e interessante figura di un sacerdote, pensatore isolato ma fecondo, che fu per molti anni cappellano del Cimitero di Treviso, relegato a quella funzione secondaria a causa delle sue simpatie per il movimento modernista – o, se non piace questa espressione a quanti negano esservi mai stato un tale movimento, per le sue simpatie verso le tendenze moderniste: Giuseppe Petich (cfr. «La realtà di ciascun fatto è circoscritta, ma la sua verità invade l’infinito»; e «Lo spirito non s’identifica con l’io, ma è un ente sostanzialmente diverso da esso», pubblicati entrambi sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente in data 22/09/2014 e 09/10/2009).

La nostra ammirazione andava, e va tuttora, al filosofo penetrante e anticonformista, capace di intuizioni folgoranti e di sintesi audaci; non altrettanta ammirazione, però, meritano le sue posizioni critiche nei confronti della Chiesa, che mostrano in lui, come negli altri esponenti di quella stagione, una insostenibile pretesa di restare all’interno di essa, ma senza condividere neppure gli elementi basilari ed essenziali del suo magistero e della sua azione pastorale, e dunque di restarvi in maniera subdola e sleale, pronto a criticare le linee maestre del pontificato di Pio X e dei suoi successori, anzi, a proseguire in una sottile, metodica, capillare opera di erosione e d’implacabile demolizione del suo edificio teologico e dogmatico.

Meno ancora merita ammirazione un altro aspetto del suo carattere e della sua rappresentazione del momento storico che il mondo cattolico stava attraversando: intendiamo parlare della sua vanità intellettuale, che lo portava — simile, in questo, ad altri esponenti più famosi di quella stagione, a cominciare da Ernesto Buonaiuti (ma l’elenco potrebbe continuare con i cattolici "modernisti" dei nostri giorni, divenuti addirittura maggioranza, se non altro, nell’ambito culturale) a sopravvalutare enormemente, e un po’ ridicolmente, la propria statura, nella stessa misura in cui costoro riservavano un malcelato disprezzo per i loro "persecutori", a cominciare da papa Sarto, che, nell’anonimo «Lettere di un prete modernista» (1908: dopo la scomunica contenuta nell’enciclica «Pascendi dominci gregis»), viene definito ignorante, gretto, rancoroso.

«L’antico parroco di campagna, — aveva scritto il Buonaiuti, senza peraltro il coraggio di firmarsi con il proprio nome — nella sua imperizia facile preda dei raggiri gesuitici, ha manifestato fin da principio la volontà risoluta di calpestare ogni prete reo di volere il progresso della spiritualità del cattolicesimo» (in: «Lettere di un prete modernista», Roma, Libreria Editrice Romana, 1908, p. 80); «Ha aperto l’era delle discordie atroci fra noi e ha lasciato che tutti i lanzichenecchi della pretesa ortodossia, come cani n una partita di caccia, si mettessero sulle orme del cosiddetto modernismo e gettassero i latrati dei loro insulti volgari e dei loro colpi velenosi contro quanti cercano di compiere nella Chiesa opera di illuminazione e di rinnovamento» (id., p. 80); «Questo modesto patriarca della laguna, balzato, come in un brutto sogno estivo, sulla sede che occuparono un dì Gregorio VII e Innocenzo III» (id., p. 81); «Tutta la grettezza d’animo degli infimi strati sociali (…), tutta la ignoranza della più vecchia generazione clericale, crescita e alimentata fra gli anatemi al movimento di modernità; tutto l’astio degli incolti contro gli uomini della scienza; tutto il disprezzo incolto di chi non sa, per lo sviluppo e la ricchezza dell’intelligenza; dominano nell’animo di questo buon parroco di campagna, strappato da un singolare colpo di fortuna alle occupazioni piccine e alle conversazioni, innaffiate di buon vino e di facili barzellette, della solitaria canonica, e portato a reggere il governo della più grande organizzazione religiosa» (id., p. 82).

Interessante documento del rancoroso che accusa gli altri di rancore; dell’uomo che si sente superiore, cittadino e colto, di casa nell’ambiente cosmopolita della capitale, nei confronti del misero ex parroco di campagna (e di provincia), perso e dimentico in bevute e barzellette di canonica (e qui la malignità è veramente gratuita, dal momento che tutti sanno quanto seria, scrupolosa e indefessa sia stata l’opera pastorale di Pio X avanti la sua elezione al soglio di san Pietro); del sacerdote che attribuisce l’elezione a pontefice non già ad una ispirazione dello Spirito divino, ma ad un "colpo di fortuna"; e del decantato "prete socialista" che si scaglia con tutto il suo disprezzo di classe contro quelli che definisce "gli infimi strati sociali", da lui visti come il serbatoio della reazione sanfedista e vandeana.

Ma, tornando a Giuseppe Petich, vi è una frase, in una delle sue solitarie annotazioni, che getta una luce altrettanto sgradevole sulla sua figura e sulla sua personalità; una frase dalla quale traspare non solo una presunzione sconfinata, ma anche l’orgoglioso sicurezza di essere dalla parte giusta della storia, senza un’ombra di dubbio o d’incertezza, senza un’ombra di umiltà o di pensoso raccoglimento: dimenticando che il cristiano — a differenza, ad esempio, del marxista — si caratterizza, appunto, per la sua visione problematica della storia, per il franco riconoscimento del limite umano e per l’ammissione che non tutto, in essa, può essere umanamente compreso e spiegato, tanto meno "corretto" e "raddrizzato".

La frase, scritta nei suoi quaderni inediti sotto la data del 1° aprile 1923, suona così (da: Giuseppe Petich, «Una luminosa coscienza critica:ulteriori frammenti», a cura di Giuseppe Meo, Roma, Bulzoni Editore, 2005, p. 195):

«Il Salmo 142 deve essere stato composto da qualche gran profeta carcerato da un pontefice (Campanella, me, etc.). Nota specialmente l’occupazione del tempo, studio della storia, filosofia, etc. "Memor fui dierum antiquorum — meditatus sum in operibus" [Mi sono ricordato dei giorni antichi, ho meditate sulle tue opera], etc.

È bellissimo. Pare fatto per me e tanti altri simili a me.»

Un nuovo Tommaso Campanella a Treviso, dunque, nei primi anni del XX secolo, perseguitato e imprigionato dall’ira di un pontefice meschino e reazionario, a dispetto del suo valore, della sua intelligenza, del suo superiore discernimento teologico? Eppure, a parte il fatto che Campanella non fu perseguitato per le sue opinioni filosofiche o religiose, ma per aver preso parte ad una congiura insurrezionale contro il legittimo governo spagnolo nel Regno di Napoli; e a parte il fatto che Campanella si fece, complessivamente, ventisette anni di carcere, dopo essere sfuggito per il rotto della cuffia alla condanna capitale (fingendosi pazzo e sostenendo la commedia perfino sotto i ferri del torturatore), resta il fatto che nei pur brillanti quaderni anonimi di Giuseppe Petich traspaiono, sì, una intelligenza fuori del comune, una vasta cultura e una notevolissima capacità di cogliere nessi e collegamento fra cose diverse e apparentemente lontane, ma ci sarebbe voluto ben altro perché egli si sentisse autorizzato a paragonarsi al Campanella: senza contare che il dichiararsi simile a qualcuno che è morto da secoli, e che non può esprimere la propria opinione su tale supposta affinità spirituale, è sempre cosa di dubbio – se non pessimo – gusto.

Giuseppe Petich vittima di una infame persecuzione, voluta personalmente da un pontefice astioso ed ottuso; e, per giunta, genio misconosciuto e araldo inascoltato di una radicale e indispensabile riforma della Chiesa e della cultura cattolica? A quanto pare, il buon cappellano del cimitero trevigiano si è dimenticato di un ammonimento pronunciato da Gesù stesso, e riportato nel Vangelo di Luca, che avrebbe fatto proprio al caso suo: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: "Cedigli il posto!". Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto». E lasciamo perdere il fatto che, per un sacerdote cattolico, come per qualunque fedele, il pontefice non è un signore qualunque, arrivato per caso a sedere sul soglio di san Pietro, dal quale può abbandonarsi a esercitare un potere tirannico e arbitrario: ma è il capo della Chiesa, eletto dai cardinali per ispirazione dello Spirito Santo, e infallibile quando parla — come è stato il caso dei provvedimenti contro il modernismo — in materia di fede.

Ma di questa umiltà, di questo travaglio, di questa pensosità, che ci si aspetterebbe di trovare in qualsiasi persona saggia e riflessiva, non solo in un prete; di questa consapevolezza della propria fallibilità, in questo interrogarsi se la Provvidenza non abbia voluto sottoporci a determinate prove per la nostra edificazione e per la nostra crescita spirituale, e non per una specie di beffa incomprensibile: di tutto questo non vi è traccia nel prete modernista; al contrario, non vi è che la ferma, risentita, rocciosa certezza di essere un grande profeta inascoltato, cui solo lo scorrere degli anni e, forse, dei secoli, finirà per dare ragione. Nemmeno una parola, nemmeno una riflessione sul ruolo della sapienza divina, sul mistero del disegno divino che si attua e si dispiega, pur in mezzo a difficoltà d’ogni sorta, nell’intricata vicenda della storia umana; nemmeno un fuggevole pensiero sul fatto che gli uomini, al cospetto di Dio, non sono che umili operai, che non hanno alcunché di cui menare vanto, che dovrebbero sempre ripetere a se stessi: «Servi inutili siamo; abbiamo fatto solamente il nostro dovere!».

Ecco: in questa assoluta mancanza di umiltà; in questa radicale assenza di carità, intesa come abbandono fiducioso alla sapienza dello Spirito divino, che soffia dove vuole e che si serve di chi vuole — e non necessariamente dei più "sapienti" o dei più "intelligenti": al contrario; e anche su questo, Gesù è stato quanto mai franco ed esplicito — sta il peccato più grave, e l’errore di fondo, del movimento modernista, o, se si preferisce, dell’azione di tutti quei preti e di tutti quei cattolici che parteciparono alla stagione modernista. San Pio X vide il pericolo, gravissimo, e reagì prontamente: con eccessiva durezza, dicono i soliti sapientoni, col senno di poi; con la fermezza strettamente necessaria, dovrebbe dire chi valuti le cose in maniera imparziale, considerata l’importanza della posta in gioco. Che era eccezionalmente alta: non per nulla Pio X aveva definito il modernismo "serbatoio" e "sintesi" di tutte le eresie. Ma, fra tutte codeste eresie, quella che dominava sovrana, e che faceva da collante a tutte le altre, era la sconfinata, luciferina presunzione intellettuale: la pretesa, cioè, di fare del cristianesimo una religione filosofica, un sapere quasi scientifico, riservato ai "sapienti" e agli "intelligenti", aggiornati sulle ultime novità nel campo dell’esegesi biblica, dell’archeologia, della papirologia: in perfetta antitesi con lo spirito evangelico più autentico e con le chiare, inequivocabili parole di Gesù stesso.

Pio X, dunque, aveva ragione; e i Buonaiuti e i Petich avevano torto; e doppiamente torto, perché cercarono fino all’ultimo di restare dentro la Chiesa, non per servirla lealmente e fedelmente, ma per sovvertirla e disgregarla dall’interno, naturalmente — ci mancherebbe! – con la buona e lodevole intenzione di rinnovarla e di "modernizzarla". Questo è il punto che, ancora oggi, tanti sedicenti cattolici non vogliono capire: e basta parlare di questo argomento per rendersene conto; per veder scattare i loro riflessi condizionati, per vederli fare una smorfia davanti alla canonizzazione di Pio X: un boccone troppo amaro perché possano mandarlo giù tranquillamente. Tanto è vero che non esitano a diffamarne la memoria, a oltre un secolo di distanza: come se la canonizzazione non fosse, di per sé, un chiaro pronunciamento dello Spirito: come se la Chiesa si potesse davvero "sbagliare" su questioni di tale rilevanza, e prendere dei granchi clamorosi (di questo animo rancoroso e vendicativo, da parte dei cattolici che si autodefiniscono "progressisti", abbiamo parlato più volte: cfr., fra gli altri, gli articoli «La canonizzazione di Pio X disturba molto i cattolici progressisti» e «Quei cattolici piccoli e rancorosi che non sopportano la canonizzazione di Pio X», pubblicati su «Il Corriere delle Regioni» rispettivamente in data 20/05/2015 e 03/08/2015).

Giuseppe Petich sarà stato un brav’uomo, oltre che un pensatore profondo; ma, come sacerdote e come cattolico, ci sembra che avesse capito ben poco. Come tutti gli altri modernisti, del resto: i Tyrrell, i Loisy, i Buonaiuti (e stendiamo un velo pietoso sugli artisti, come Antonio Fogazzaro, i quali, non essendo uomini di pensiero, possono davvero prendere degli abbagli colossali). Il fatto grave è che gli eredi di quella eresia, anzi, di quella "sintesi di tutte le eresie", per usare le parole di Pio X, si son presi la rivincita, e sono giunti ad occupare alcune posizioni chiave all’interno della Chiesa. Non, però, fino al punto di stravolgere i dogmi e il santuario più riposto della verità cristiana. Per fare ciò, ci vogliono altro che delle forze umane: ed è questo che essi non capiscono…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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