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Ma un capo non deve mettersi in salvo per primo, mai, per nessuna cosa al mondo

Di Umberto Nobile e della sua tragica spedizione al Polo Nord abbiamo già avuto per due volte occasione di occuparci, rispettivamente con l’articolo «Un film al giorno: "La tenda rossa" di Michail Konstantinovic Kalatozov», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 06/10/2008, e con l’articolo «Una pagina al giorno: Decisione difficile al Polo Nord, di Felice Trojani», pubblicato, sul medesimo sito, in data 07/07/2009.

Si tratta di una vicenda che non finisce di appassionare chi se ne sia, anche una sola volta, interessato: per cui diventa un impulso quasi irresistibile quello di leggere tutto ciò che sull’argomento è stato scritto e pubblicato, sia le memorie di Nobile, sia gli studi e le riflessioni di altri protagonisti della vicenda o studiosi della più varia provenienza.

In breve, la questione veramente scottante è di natura più morale che strettamente tecnica, e si può riassumere nel semplice, ma stringente interrogativo: è lecito, ad un comandante, mettersi in salvo per primo, lasciando in una situazione di pericolo i suoi sottoposti, e sia pure — come fu nel caso di Nobile, che accettò di salire a bordo dell’aereo del pilota svedese Lundborg, insieme alla sua cagnetta Titina — con l’intento di dirigere in maniera più efficace le successive operazioni di salvataggio, e con la quasi certezza che queste si sarebbero svolte e completate nel giro di un paio di giorni al massimo, mentre poi così non fu e l’odissea dei naufraghi polari si protrasse oltre quanto era allora umanamente prevedibile?

A favore della tesi difensiva di Nobile – cui egli sempre si attenne in seguito, fin da quando Mussolini lo interrogò sulle ragioni del suo comportamento, e nei decenni successivi, quando le discussioni e le polemiche pro e contro la decisione che egli allora aveva presa non accennavano ad attenuarsi, pur attraverso il succedersi delle vicende storiche, la seconda guerra mondiale, la caduta del fascismo, la nascita della Repubblica e l’adesione di Nobile al Partito comunista — stavano due elementi non certo secondari: primo, la volontà espressa tassativamente da Lundborg di prendere a bordo lui e lui solo, in quel primo volo di ritorno; secondo, la circostanza che il generale fosse rimasto ferito nella caduta del dirigibile «Italia». Ma sono buone ragioni; sono ragioni sufficienti per giustificare la decisione di andarsene per primo, mentre i suoi uomini rimanevano sul ghiaccio in attesa di ulteriori, e non del tutto certi, voli di soccorso? A Lundborg, che — oggi è ormai certo — agì in quel modo non per ordini superiori — egli era un ufficiale dell’Aviazione svedese -, ma per smania di celebrità, in quanto il salvataggio di un altro membro della spedizione italiana non gli avrebbe arrecato gli stessi benefici morali, Nobile avrebbe dovuto opporre comunque un rifiuto, mettendolo davanti alla tremenda responsabilità di ripartire senza aver preso a bordo nessuno, pur potendolo, e questo per una decisione tutta sua, che ben difficilmente avrebbe potuto giustificare di fronte ai suoi superiori e davanti al’opinione pubblica mondiale. La circostanze della parziale invalidità, poi, non esentava Nobile dai suoi doveri di comandante supremo della spedizione e, di conseguenza, di responsabile principale della loro sicurezza; senza contare che egli non era l’unico, fra i naufraghi, a trovarsi ridotto a mal partito.

È pur vero che, prima di assumere la grave decisione, egli volle consultarsi con i propri uomini, i quali gli dissero di assecondare le richieste del pilota svedese. Ma, anche questo lo sappiamo dalle loro memorie, si trattava di un assenso dato per rispetto e per devozione nei confronti della sua persona, non però intimamente sentito e non percepito come giusto, in kinea di massima, proprio per le implicazioni che esso sottintendeva: vale a dire una deroga dal principio secondo il quale il comandante di una nave, di un dirigibile, di una spedizione di qualsiasi tipo, specialmente se investito di una autorità militare, non deve mai, per alcuna ragione, nel modo più tassativo, pensare alla propria salvezza personale fino a che tutti i suoi sottoposti non si trovino ragionevolmente fuori pericolo.

Decidendo diversamente, Nobile si assunse l’inevitabile conseguenza di suscitare la perplessità, le critiche e il segreto disprezzo di quanti non credevano alla sua buona fede, non accettarono le sue impacciate giustificazioni, non vollero ammettere deroghe al principio di responsabilità del capo nei confronti del proprio equipaggio: sentimenti che aparvero fin da subito, durante il viaggio di ritorno, dapprima mentre i reduci della spedizione traversavano la Norvegia in ferrovia, poi, in Danimarca e in Germania, e perfino in Italia, ove se la folla che li attendeva alle stazioni era calorosa e mostrava sentimenti di grande solidarietà, non si fecero però attendere, da parte delle alte sfere, le prime avvisaglie del fatto che Nobile, agendo come aveva agito, e gettando un’ombra sulla popolarità della spedizione e della nazione tutta, era di fatto caduto in disgrazia.

Nobile passò il resto della sua vita a replicare con sdegno a chiunque osasse anche solo minimamente mettere in dubbio il fatto che non la paura o il pensiero della propria salvezza personale lo aveva determinato a partire con Lundborg, ma ò’insieme delle circostanze e la ferma convinzione che, così facendo, avrebbe potuto essere d’aiuto in maniera più efficace al recupero degli uomini rimasti sul "pack": sforzo vano; l’ombra del sospetto rimase sempre su di lui e lo accompagnò sino alla fine. Vi fu anzi chi si chiese cosa avesse fatto Nobile, come ingegnere specializzato nella costruzione di aerostati, per meritare i gradi di generai; se quella promozione non fosse dovuta unicamente alla volontà di metterlo a capo di una importante spedizione che, essendo organizzata dalle Forze Armate, inevitabilmente si colorava di una valenza politica agli occhi del mondo, visto anche il regime allora al governo nel nostro Paese, così attento e sensibile al fattore propaganda e alle ricadute dell’impresa in termini di prestigio internazionale. E, per forza di cose, vi fu chi osservò che Nobile, in tutta la triste vicenda del naufragio dell’«Italia», non seppe mai mostrare la vera stoffa del generale, non seppe assumersi fino in fondo le sue responsabilità, si mostrò arrendevole e incerto e, da ultimo, troppo precipitoso nel lasciare i compagni di sventura per partire a bordo del velivolo di Lundborg.

Si sente, in effetti, nel modo in cui la tragedia si svolse, l’assenza di una mano ferma, di una volontà unica, che avrebbe potuto e dovuto tenere uniti quegli uomini, animarli, organizzarli in vista della salvezza comune. Invece, oltre agli infelici che, nell’urto del dirigibile con il "pack rimasero a biodo, e che si perdettero per sempre, né furono mai ritrovati, altri tre uomini si separarono per tentare di raggiungere i soccorsi marciando sulla immensa distesa di ghiaccio: lo svedese Malmgren e gli italiani Mariano e Zappi. Anche in quella occasione Nobile mostrò di subire la volontà altrui e di rassegnarsi a fare buon viso a cattivo gioco, pur non essendo intimamente persuaso della bontà della decisione di separarsi.

Di fatto, Mariano e Zappi commisero un ulteriore sbaglio, purtroppo irrimediabile, allorché decisero di abbandonare Malmgren, ridotto agli estremi, prendendosi anche le sue scorte di cibo per proseguire la marcia da soli: e a nulla valse il fatto che lo stesso Malmgrem, pare, li abbia esortati ad agire in tal modo, avendo compreso che non era più in grado di proseguire e che per lui, ormai, era finita: in una spedizione polare o ci si salva insieme, o si perisce insieme. Ma anche questa disgraziata decisione non fu che la conseguenza del fatto che Nobile aveva abdicato a esercitare le sue funzioni di comando e si era arreso alla volontà di Mariano e Zappi. Certo è che questa vicenda, quando fu conosciuta, mandò gli Svedesi su tutte le furie: in fondo, Lundborg e i suoi colleghi aviatori si erano messi in cerca dei superstiti soprattutto per solidarietà verso il loro camerata, non per salvare degli stranieri. E a peggiore l’immagine complessiva della spedizione italiana csi aggiunse la circostanza che Amundsen, l’eroe del Polo Sud, aveva perduto la vita nel tentativo di trovare e soccorrere i naufraghi, con il proprio velivolo: Amundsen conosceva e stimava personalmente Nobile, ma non è un segreto che, nella precedente spedizione, fossero emersa anche una certa rivalità fra i due. Così, anche in Norvegia, e in genere nei paesi nordici, gli Italiani furono messi in cattiva luce dalla stampa, come uomini forse non del tutto degni che il grande esploratore norvegese avesse sacrificato la vita per andare in loro aiuto.

Il recente, drammatico naufragio della nave da crociera «Costa Concordia», avvenuto presso l’Isola del Giglio in circostanze quasi inspiegabili, e con la perdita di oltre trenta vita umane, con il non bello spettacolo del comandante Schettino che sale per primo sulle scialuppe di salvataggio e abbandona personale e passeggeri al loro destino, che tanto ha pesato su giudizio dell’opinione pubblica internazionale in senso sfavorevole alla nostra Patria, trova nel caso Nobile un precedente, che, se differisce in molti aspetti non secondari da quello, è tuttavia accomunato dall’elemento essenziale: il fatto dell’abbandono dei propri uomini da parte del comandante, colui che, per un preciso codice d’onore, avrebbe dovuto pensare alla propria salvezza solo dopo essersi adoperato strenuamente per quella di tutti gli altri.

Vale la pena di riportare le riflessioni di Felice Trojani, che, in quella spedizione, era forse l’uomo più devoto a Nobile e più convinto delle sue buone ragioni; un uomo, pertanto, che non può essere in alcun modo sospettato di nutrire del malanimo verso il generale, o di averlo giudicato in base ad ingiusti preconcetti (da: F. Trojani, «L’ultimo volo», Milano, Mursia, 1978, pp. 176-7, 179-80):

«Sentii Nobile e Lundborg parlare in inglese. Nobile gli disse di portar via Cecioni, Lundborg rispose che Cecioni era troppo pesante. Non era autorizzato a lasciare con noi il suo compagno; e poi a trasportare Cecioni al campo ci sarebbe voluto troppo tempo. Nobile gli chiese allora che portasse via Behounek, Lundborg rispose che anche Behounek era troppo pesante.

Soggiunse che avrebbe portato via lui: lo aspettavano per muovere alla ricerca di Malmgren, Mariano, Zappi, e del gruppo perduto con il dirigibile. Sarebbe tornato subito, solo, e avrebbe preso Cecioni. Avrebbe poi continuato con i voli, e in due notti avrebbe salvato tutti.

Continuarono a parlare, ma non afferrai cosa Nobile obiettasse e cosa Lundborg rispondesse. Parlarono anche gli altri.

Il passo d’uomo si aprì e Nobile si introdusse nella tenda. Era agitato, aveva gli occhi lucenti:

– Vogliono che vada io -, mi disse.

Io sentii in un lampo che la sua partenza era un errore, , che andando via per primo avrebbe perso l’aureola di popolarità che lo circondava, avrebbe scoperto il fianco ai suoi avversari. Ma potevo oppormi? Sapevo quanto agognasse a riprendere il comando, vedevo quanto la proposta di Lundborg l’aveva eccitato. Sapevo che una mia obiezione non l’avrebbe accettata e forse nemmeno capita, perché lui si riteneva al difuori e al disopra di ogni critica. E poi, se Cecioni, Nobile, Behounek rimanevano, sarebbe toccato partire a me che pesavo poco (54 chili!) e che ero febbricitante, e una mia opposizione alla partenza di Nobile avrebbe potuto sembrare fatta nel mio interesse, avrebbe potuto generare una vergognosa gara a chi si salvasse per primo. Se andava via lui era sempre un ferito in meno, e la salvezza di Cecioni mi interessava meno della sua. L’aeroplano poteva anche non tornare, e se si fosse potuto salvare uno solo di noi, e se la scelta fosse dipesa da me, io avrei scelto Nobile.

— Sì, è meglio così, vada lei — gli risposi.

Provai una subita e violenta commozione: mi abbracciò e mi baciò, e io lo abbraccia e lo baciai ripetutamente, quasi con frenesia. Cosa mi prendesse in quel momento non me lo spiegavo. Non ero turbato perché rimanevo, non ero turbato per la separazione che, in fin dei conti, si sarebbe dovuta ridurre a poche ore. Ma mi sentivo come se qualche cosa dentro di me si spezzasse, come se qualche cosa dentro di me finisse. […]

Pensavo alla partenza di Nobile e, più vi pensavo, meno mi persuadeva. Lundborg gli aveva chiesto di andare con lui per istruzioni ricevute o di iniziativa propria? Perché Nobile era ritenuto veramente necessario alla spedizione di soccorso, o perché il salvataggio di Nobile gli avrebbe dato più rinomanza e fama del salvataggio di uno qualunque di noi? Non era possibile che si fosse affrettato a portarlo via per il timore (ve ne erano già tanti di aviatori in azione!) che qualcun altro facesse il colpo e glielo soffiasse?

Le indicazioni che Nobile poteva dare per la ricerca del gruppo dei tre e del dirigibile le avrebbe potute dare chiunque di noi; anzi Viglieri, Behounek, Biagi e io ne sapevamo più di lui, perché noi la colonna di fumo l’avevamo vista, e lui no. Se si trattava di prendere la direzione generale delle operazioni, la cosa cambiava aspetto, e realmente Nobile, con il suo ascendente, poteva ottenere una coordinazione e una efficienza dei mezzi in azione, che altri non avrebbe potuto realizzare. Ma se fosse stato così gli svedesi avrebbero dovuto agire d’accordo con il governo italiano, mentre sembrava invece che nemmeno Romagna [il comandante della nave appoggio "Città di Milano", che dirigeva le operazioni per parte italiana] fosse stato preavvisato della loro intenzione.

Il fatto era molto delicato: il Generale, il capo della spedizione, era stato salvato per primo, e ciò poteva generare nell’opinione pubblica mondiale una reazione negativa grave e, quel che è peggio, irrevocabile. Ma poi, pensai che lo scopo vero della spedizione svedese doveva essere quello di salvare Malmgren. Vedevo gli aeroplani pronti, con i motori in moto, in attesa solo di Nobile, per muovere alla ricerca. E mi auguravo che un’azione immediata e fortunata [che, invece, purtroppo mancò], guidata da Nobile, venisse a giustificare la sua partenza.»

Certo, se la fortuna avesse assistito i soccorritori; se gli aviatori svedesi fossero riusciti a recuperare tutti i superstiti, mentre invece si rivelò risolutivo, ma solo più tardi, l’intervento del rompighiaccio sovietico «Krassin»; se Nobile fosse riuscito ad orientare la «Città di Milano» o se, almeno, avesse dato agli svedesi informazioni atte ad un pronto e risolutivo intervento e se, soprattutto, la costante deriva dei ghiacci, sui quali era stata drizzata la "tenda rossa", non avesse fatto perdere di nuovo l’esatta posizione di quest’ultima, allora le ombre si sarebbero, se non dissolte, attenuate, poiché tutto è bene quel che finisce bene. Al contrario, il modo in cui andarono effettivamente le cose, fra l’altro con la morte di Malmgren e, poi, con la perdita di Amundsen, fece sì che l’imprudenza commessa da Nobile, lasciandosi convincere dalle insistenze di Lundborg, divenisse qualcosa di definitivo e incancellabile, tale da offuscare l’intera impresa del dirigibile «Italia» e da compromettere, per sempre, la sua carriera e la sua reputazione, sia in Italia che all’estero.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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