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30 Luglio 2015La totale incomprensione gramsciana di Manzoni viene da una carenza del cuore, non della mente

Chi non prova un autentico interesse umano verso ciò che studia, chi non cerca di entrare nel mondo interiore delle persone e delle situazioni che vuole comprendere, ma si limita a giudicarli dall’esterno, secondo le proprie categorie, a partire dai propri pregiudizi ideologici, non capirà e non sarà nemmeno "giusto": perché rendere giustizia a qualcuno o a qualcosa vuol dire mettere da parte, almeno un poco, il proprio io, al fine di porre l’altro, valorizzarlo, considerarlo con benevolenza o, almeno, con assoluta, rigorosa onestà intellettuale. E non è onesto intellettualmente colui che pretende di giudicare tutto e tutti a partire da una supposta superiorità del proprio sistema, senza aver compiuto il minimo sforzo per accostarsi all’altro senza pregiudizi, senza aver cercato di assumere, per quanto possibile, il suo punto di vista.
Il marxismo, fra tutte le ideologie moderne, è quella in cui viene portato all’eccesso questo difetto di origine: una carenza non della mente, ma del cuore; una durezza di giudizio, una insindacabilità dei presupposti, una arroganza veramente hegeliana nella pretesa di poter giudicare senza essere giudicati, che gli deriva dall’illusione di essere l’ultima parola della Storia, il capitolo conclusivo del divenire umano (difetto che è stato ereditato, naturalmente, dalla democrazia liberale in regime di capitalismo finanziario e di globalizzazione, dato che anch’essa sbandiera la pretesa di porre la parola "fine" alla storia universale). E agli storici e ai critici marxisti, fra quanti hanno brillato, nel corso del Novecento, per fanatismo ideologico e per totale incomprensione di tutto ciò che la società "borghese" e la cultura non marxista hanno prodotto, spetta sicuramente la palma.
Eppure costoro, dopo la cosiddetta Liberazione e per non meno di tre decenni, forse quattro, hanno letteralmente dominato il panorama della vita culturale italiana, hanno monopolizzato gli strumenti della cultura, hanno operato una capillare selezione di ciò che era politicamente corretto e di ciò che non lo era, relegando nel cestino della spazzatura tutto quel che non era, dal loro punto di vista, recuperabile, e manipolando con somma impudenza, fino a stravolgerlo, ciò che, in qualche misura, lo era (per esempio, arruolando nelle loro file, retroattivamente, autori come Leopardi e perfino pensatori come Nietzsche). Gli esponenti della cultura di matrice cattolica, però, non si prestavano a questa seconda operazione, e nemmeno, quando si trattava di nomi troppo grossi, alla prima: dunque non restava che prenderli in esame con suprema diffidenza, porli sul vetrino dell’entomologo come altrettanti insetti, sentenziare sui loro difetti e pregiudizi di classe, sulle loro meschine attitudini borghesi, sulla loro grettezza religiosa.
Si veda, ad esempio, quel che hanno fatto con Manzoni (e che avrebbero voluto fare, se lo avessero potuto, con Dante): non potendo né stroncarlo, perché la sua grandezza artistica è indiscutibile, né marxistizzarlo, perché la sua ispirazione cristiana è ineludibile e non manipolabile, hanno passato al setaccio le sue opere, e specialmente il suo capolavoro, per trovare in esso quelle pecche, quelle mende che, almeno, aiutassero il pubblico che proprio non voleva fare a meno di leggerlo (e di amarlo) a scorgerne il fondo egoistico e retrivo, il suo preteso paternalismo, la sua carità pelosa verso gli umili, insomma a rendersi conto con quale razza d’ipocrita e di codino abbia a che fare colui che si accinge a leggere il romanzo più importante della nostra letteratura. Si sono sforzati, così, di fornire l’antidoto insieme al veleno, dato che il veleno non si poteva proprio sradicarlo (purtroppo i comunisti italiani non erano coerenti e coraggiosi come i loro compagni cinesi, lanciati nella loro guerra totale contro… Confucio, sotto la guida del Grande Timoniere).
Antonio Gramsci, considerato sia dai marxisti che da molti non marxisti, come una delle teste più fine della cultura marxista in Italia, se non addirittura nel mondo, offre uno dei più caratteristici — e clamorosi — esempi di tale radicale incomprensione, di tale assoluta indisponibilità a capire, di tale impossibilità a leggere il capolavoro manzoniano così come dovrebbe essere letto: lasciando cadere i propri schermi ideologici, levandosi dal naso le lenti colorate della propria ideologia, e ascoltando i personaggi del romanzo nella loro viva umanità, non per ciò che essi, metaforicamente, rappresentano, ma per ciò che sono, così come sono.
Riportiamo, dunque, ciò che Gramsci scrive a proposito de «I promessi sposi» e lasciamo al lettore intellettualmente onesto di trarre le proprie conclusioni sulla capacità di retti giudizio e di leale comprensione da parte di colui che è stato presentato, per decenni, come la voce più autorevole, nel nostro Paese, della visione del mondo marxista (da: A. Gramsci, «Letteratura e vita nazionale», Einaudi, 1950, p. 72 sgg; cit. in: Angelo Marchese, «Le strutture della critica letteraria», Torino, Società Editrice Internazionale, 1972, pp. 54-55):
«Il carattere "aristocratico" del cattolicesimo manzoniano appare dal "compatimento" scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj); come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stesa Lucia, ecc.
Non si tratta di volere che Manzoni "aduli il popolo"; si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i singoli personaggi che sono "popolani": questo atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno "vita interiore", non hanno personalità morale profonda; essi son "animali", e il Manzoni è "benevolo" verso di loro, proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali…
Il Manzoni pone il "popolo"nel suo romanzo, oltre che per i personaggi principali (Renzo, Lucia, Perpetua, fra Galdino, ecc.), anche per la massa (tumulti di Milano, popolani di campagna, il sarto, ecc.): ma appunto il suo atteggiamento verso il popolo non è "popolare-nazionale", ma aristocratico…
Tra il Manzoni e gli "umili" c’è distacco sentimentale: gli umili sono per il Manzoni un "problema di storiografia", un problema teorico che egli crede di poter risolvere col "romanzo storico", col "verosimile" del romanzo storico. Perciò gli "umili" sono spesso presentati come "macchiette" popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la Chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella Chiesa. Che Dio s’incarni nel popolo può crederlo il Tolstoj, non il Manzoni.»
Sarebbe difficile mettere insieme tante sciocchezze, tanti fraintendimenti, tante forzature, in così breve spazio, riguardo alla lettura e all’interpretazione de «I preomessi sposi», quanti ne colleziona Antonio Gramsci, di cui si è voluto fare un gigante del pensiero; e, poiché riesce difficile immaginare che una mente così acuta sia incorsa davvero in questa serie impressionante d’infortunî, non resta altro da concludere che il difetto non sia della mente, ma del cuore.
Manzoni è più !aristocratico" di Tolstoj nel rapportarsi ai personaggi ddi estrazione popolare, nonché incapace di credfe che Dio s’incarni nel popolo, a differenza del romanziere russo? Vero: ma perché Tolstoj non era uno scrittore cattolico e nemmeno cristiano; credeva bensì di esserlo:ma chi veda nel popolo l’incarnazione di Dio è deista, è mazziniano, è quel che si vuole, ma non cattolico (e nemmeno cristiano: non per nulla Tolstoj è stato scomunicato dalla Chiesa ortodossa). Quanto al fatto che Tolstoj non ha un atteggiamento aristocratico verso il popolo… si vede che Gramsci ha letto male le opere di Tolstoj, e inoltre che non si è preso la briga di leggere qualcosa sull’uomo Tolstoj, ad esempio nelle veste di "grande"educatore, nel suo esperimento di anarchismo pedagogico a Jasnaja Poljana.
I personaggi dei popolani non hanno, ne «I promessi sposi», una dimensione di vita interiore? Che cosa? Lucia non ha una personalità morale? Renzo, Lucia, Agnese, il sarto, fra Galdino sono animali, cui va la distaccata benevolenza che un amante degli animali nutre nei confronti dei nostri fratelli minori"? Certo, per poter dire simili enormità senza arrossire, Gransci è costretto a mettere la parola "animali" fra virgolette, ma poi, con l”e4sempio della società per la protezione degi animali, mostra che quelle virgolette non erano affatto necessarie, erano anzi un’ipocrisia, perché il concetto che voleva esprimere era proprio quello, nudo e crudo; che i popolani, per Manzoni, sono animali, vale a dire esseri inferiori, nella sua prospettiva di classe, incorreggibilmente aristocratica e paternalista.
Si potrebbe dire una enormità più sconcertante, più rivelatrice d’una assoluta incomprensione, derivante, a sua volta, da una maniera radicalmente sbagliata di porsi davanti a un’opera come «I promessi sposi», di quella che vede Lucia (ma anche Renzo, Agnese, Perpetua, eccetera) come priva di vita interiore? Davanti a una affermazione del genere, viene da chiedersi, in tutta serietà, se Gramsci abbia mai letto il romanzo, o se si sia messo a giudicarlo sulla base di vaghi ricordi d’infanzia e di qualche luogo comune rimasto impresso nella sua memoria e subito accolto dalla sua intelligenza pronta ed acuita, ma settaria, limitata, arida. Mettersi d’impegno a voler dimostrare la ricchezza della vita interiore di Lucia, ci sembra fatica inutile e assurda: di Lucia si può dire quel che si vuole,come personaggio può piacere o non piacere, si può provare maggiore o minore simpatia nei suoi confronti e, soprattutto, nei confronti del suo atteggiamento di fede nei confronti della vita: ma una cosa non si può fare, negarle il possesso d’una vita interiore. Questo, sì, vorrebbe dire trattarla da "animale": ma è un’operazione che lasciamo volentieri a certi critici marxisti, perché Manzoni non se la sogna nemmeno, né consciamente, né inconsciamente. Non è questione di essere di un’opinione oppure di un’altra: è questione di possedere almeno quel minimo di onestà intellettuale da poter trovare un terreno comune, un linguaggio comune con chi la pensa in maniera diversa da noi.
Aristocratica la maniera che ha il Manzoni di descrivere il popolo nei tumulti di Milano oppure, ad esempio, nei commenti che gli avventori dell’osteria fanno della fuga di Renzo, ignari che il "pericoloso mestatore" è seduto lì, fra loro, sia pure un po’ in disparte, e potrebbe, fosse in condizioni di farlo, raccontare in maniera ben diversa come sono andate le cose davanti alla casa del vicario di provvisione? Non aristocratica, ma realista: Manzoni non idealizza nessuno, né i singoli, né, tanto meno, le folle: e la sua grandezza sta proprio in questo (a differenza, appunto, di Tolstoj, incline a idealizzare un po’ troppo i suoi personaggi): che ci mostra gli uomini così come sono, ma anche — cristianamente — come potrebbero diventare, e come effettivamente diventano, se toccati dal mistero della grazia. Pessimismo antropologico? Può darsi: l’uomo, per il cristiano, è una creatura decaduta, ferita dalle conseguenze del Peccato originale: non è integro nelle sue forze, non è quale lo aveva fatto il suo Creatore. Diciamo che questa concezione non è marxista, né compatibile con i presupposti del marxismo: che sono idealisti e, dunque, illuministi; e l’uomo, per l’illuminismo, si sa, è buono per natura; se diventa cattivo, la colpa è tutta della società. Rifacciamo la società — in senso comunista, s’intende — e l’uomo ritornerà buono. Semplice e chiaro, no?; peccato solo che non funzioni, e che si sia potuto vederlo — per chi lo voleva e lo vuole vedere, ben s’intende — nella maniera più esplicita e impietosa.
Gli umili, allora, sarebbero, per Manzoni, non qualche cosa di reale, di concreto, ma un problema di storiografia, vale a dire un qualcosa di teorico, nei cui confronti è inevitabile che esista un distacco sentimentale? Ed è per questo che gli umili, uscendo dalla sua penna, si trasformano in tante "macchiette"? Nossignore: Gramsci scambia il "problema storico" di Manzoni per la sostanza del romanzo, mentre ne é solo l’impalcatura esterna; non vede con quanto affetto, con quanta simpatia, con quanta benevolenza e, soprattutto, con quanta umana — e cristiana — pietà si accosta ai suoi umili. Ne fa delle macchiette? Qualche volta; ma perché possiede uno spiccato senso dell’ironia, sempre bonaria — lo riconosce perfino Gramsci — e mai cattiva, mai sferzante. I toni sferzanti, duri, implacabili, Manzoni li riserva ai malvagi delle classi superiori; quelli ironici un po’ meno benevoli, ai bene intenzionati, ma, di fatto, gretti e limitati membri delle classi superiori (come don Ferrante e donna Prassede). Il sarto, poi, incautamente citato da Gramsci, è un prodigio di generosità franca e costruttiva: altro che "animale", altro che "privo di vita interiore"; e non è certo una macchietta, lui.
Che altro dire? Se si vuole rileggere «I promessi sposi», bisogna proprio dimenticare Gramsci…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels