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La dittatura, per Carl Schmitt, non è l’opposto della democrazia, ma la sua esasperazione

La democrazia è un sistema politico che si affaccia alla ribalta con la Rivoluzione francese, specialmente nella sua fase giacobina; che viene sconfitto ovunque e ovunque risorge, a partire dal 1848, perché la sua base sociale borghese non cessa di espandersi e trova in essa la sua più incisiva espressione; che sembra trionfare nel 1919, sulle ceneri delle vecchie monarchie autoritarie, ma, di nuovo, frana ovunque, negli anni tra le due guerre mondiali: giunta al punto più basso nel 1939, screditata e abbandonata ovunque, risorge come l’araba Fenice nel 1945, con la forza armata delle potenze vincitrici.

Oswald Spengler e Carl Schmitt ne sono stati fra i critici più severi. Per Spengler, la democrazia è quel sistema politico che si instaura allorché la massa, manipolata dai mezzi d’informazione, finisce per credere quel che le si è voluto far credere, e scambia tale manipolazione per l’esercizio della propria libertà. È una critica radicale, che investe l’essenza della democrazia e che, nell’era della televisione, appare semmai più giustificata di quanto non lo fosse all’epoca del giornale: oggi il controllo della sedicente opinione pubblica è ancora più capillare e sistematico e la proprietà delle grandi agenzie d’informazione è ancora più ristretto ad una piccolissima élite mondiale, che stabilisce ed orienta, in pratica, quello che le masse devono credere giusto e vero, beninteso sentendosi più che mai libere e consapevoli delle proprie scelte politiche.

La critica di Carl Schmitt ha di mira non tanto la democrazia in quanto espressione di una oligarchia mascherata, padrona dei mezzi d’informazione e, pertanto, capace di strumentalizzare a piacere le cosiddette convinzioni della maggioranza, bensì la democrazia in quanto essa si risolve, grazie alla separazione dei poteri e alla forza di gruppi di potere organizzati, finanziatori dei partiti politici, nella pratica del parlamentarismo, che è, a ben guardare, altra cosa e ben diversa da quella pratica della sovranità popolare, esercitata senza corpi intermedi, teorizzata per la prima volta da Rousseau. Per Schmitt, la questione fondamentale della democrazia non è il controllo dell’opinione pubblica, ma la pubblicità dell’opinione, che, in regime parlamentare, finisce inevitabilmente per venire cancellata dalle oblique manovre dei partiti, vere centrali del potere. Così, l’opposto della democrazia non è la dittatura, la quale dovrebbe opporsi alla la divisione dei poteri, che è anche un principio democratico, ma, appunto, il sistema fondato sulla separazione dei poteri, vale a dire il parlamentarismo di matrice liberale.

In altre parole: in regime parlamentare, l’elemento fondamentale sono i partiti, espressione di gruppi di potere reale, di natura sia economica, sia politica, che non perseguono il bene comune, ma il proprio interesse particolare, e che, semmai, sono interessati a stabilire fra loro accordi e compromessi, al fine di mantenere il controllo della cosa pubblica. Essi non hanno interesse a governare, bensì a dirigere le risorse dello Stato nella direzione per loro più conveniente: è questa la ragione per cui il Parlamento non è, né potrà mai essere, una scuola di formazione politica: nessun vero politico esce dal Parlamento, perché i membri del Parlamento non hanno di mira l’azione politica, ma l’arte di conquistare e conservare le rispettive poltrone, mediante le quali si controlla la macchina dello Stato e si impedisce agli avversari di occuparle a loro volta.

Il vero discrimine fra parlamentarismo e democrazia, pertanto, è il concetto della separazione dei poteri. Secondo l’ideologia liberale, da cui scaturisce il parlamentarismo, il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario devono bilanciarsi, ma rimanere autonomi l’uno rispetto all’altro, perché su ciò si fonda il libero esercizio delle loro attribuzioni, premessa indispensabile della "libertà" di governo. Secondo la democrazia, invece, non esistendo una reale distinzione fra governanti e governati, tale separazione non è indispensabile, anzi, è bene che venga assorbita da un principio superiore: l’esercizio diretto della sovranità da parte del popolo.

Nella pratica dei sistemi liberaldemocratici scaturiti dall’esito della Prima guerra mondiale e dalla Conferenza di Versailles, è sembrato che le due concezioni, quella basata sulla separazione e quella fondata sulla fusione dei poteri, potessero coesistere e addirittura compenetrarsi; invece — e qui sta l’originalità dell’analisi di Schmitt — esse sono talmente distinte, per non dire opposte, che è più facile immaginare una contiguità, e forse una continuità, fra democrazia e dittatura, vedendo in quest’ultima il medesimo principio ispiratore: l’identità fra governanti e governati e, pertanto, la lotta contro la separazione dei poteri, su cui il sistema parlamentare si regge.

Il parlamentarismo, infatti, ha bisogno della separazione dei poteri per poter perseguire il suo vero scopo, che è l’esercizio del potere per conto di poteri estranei al parlamento stesso, che del parlamento, però, si servono come strumento per realizzare, mediante i partiti politici, i propri scopi particolari. Le due dittature che sorgono, nel corso del Novecento, come una risposta ai mali del parlamentarismo, cioè il comunismo e il fascismo, sono, pertanto, nella loro essenza, diretti contro il liberalismo, non contro la democrazia in quanto tale. Schmitt giunge così alla conclusione, forse solo in apparenza paradossale, che democrazia e dittatura non sono l’una il contrario dell’altra, ma che entrambe sono il contrario del liberalismo, vale a dire del sistema parlamentare.

Non stupisce, a questo punto, l’atteggiamento sostanzialmente favorevole alla dittatura assunto da Carl Schmitt, beninteso nella sua versione fascista. Però, dalla sua analisi, si evince che comunismo e fascismo sono, o possono diventare, incompatibili, non in quanto opposti, ma in quanto convergenti: entrambi perseguono lo stesso fine: rafforzare lo Stato mediante una azione politica che persegua realmente ed efficacemente il bene comune, e combattono lo stesso nemico: il parlamentarismo imbelle, degenerato, corrotto, che degrada il governo a mera amministrazione di interessi privati, spacciati per interesse pubblico. E va da sé che, in questa prospettiva, sia il comunismo che il fascismo appaiono come forme estreme, ma coerenti, dell’idea democratica: l’idea della sovranità popolare direttamente esercitata.

Il problema, per la democrazia diretta alla Rousseau, è che essa risulta irrealizzabile nella dimensione dei grandi stati nazionali, essendo idonea, semmai, allo stato cittadino delle "poleis" o dei comun rinascimentali. Per un grande stato, la democrazia, intesa come esercizio diretto della volontà popolare al di sopra e contro ogni particolarismo ed ogni egoismo individuale, non può che condurre a forme di governo dittatoriali, nelle quali vengono smontati i meccanismi del parlamentarismo demagogico e parolaio, viene abbattuta la separazione dei poteri, che fornisce loro il necessario schermo, e vengono messi fuori gioco e spazzati via tutti quei gruppi d’interesse, estranei alla prospettiva del bene comune, che, sinora, hanno manovrato gli stati, controllandone i sistemi parlamentari.

Ed ecco che comunismo e fascismo non appaiono più, come poteva sembrare, due ideologie opposte e antitetiche; o meglio, lo sono, ma scaturenti da una radice comune e rivolte ad un medesimo fine: instaurare le ragioni dello Stato, inteso come la sovranità popolare diretta, e annientare le forze particolaristiche ed egoistiche, soprattutto di natura economica, che dello stato vogliono servirsi per perseguire i propri obiettivi particolari, ma con danno, in realtà, del bene comune, dunque con una sottrazione di sovranità effettiva e con una prostituzione dei fini statali a meri pretesti per la ricerca dei fini particolari.

A chi si ponga in tale prospettiva, finirà per apparire meno misterioso, meno inaspettato il patto tedesco-sovietico del 1939: non mero espediente tattico di breve respiro, ma, nelle sue radici profonde, segno di una convergenza di obiettivi tra comunismo e fascismo in vista della lotta contro il nemico comune: la democrazia "degenerata", vale a dire parlamentare. Del resto, non è forse noto che le dittature moderne tendono a presentarsi non come la negazione della democrazia, ma come ‘instaurazione della "vera" democrazia? Per esse — che siano dittature di "sinistra" o di "destra" il vero nemico è l’egoismo individuale, codificato dai sistemi liberali.

Ci piace riportare una pagina dello studio di Gustavo Gozzi sulla polemica fra C. Schmitt e R. Thoma a proposito del parlamentarismo (in: G. Gozzi, «Modelli politici e questione sociale in Italia e in Germania fra Otto e Novecento», Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 312-14):

«R. Thoma accusa Schmitt di aver condotto una analisi sul parlamentarismo in termini ideologici e di non aver indagato le forme pratiche della politica. Per questo Schmitt intravvede, secondo Thoma, nella nascita di una nuova ideologia come quella espressa dal mito politico, derivato da G. Sorel e applicato dal fascismo (per il quale egli mostra, a giudizio di Thoma, un atteggiamento esplicita,ente favorevole) l’inizio della crisi del parlamentarismo. […] Schmitt risponde a Thoma […] che è illusorio ritenere che il parlamento possa formare dei capi politici, dacché esso è diventato la sede di gestione degli affari pubblici da parte dei partiti. Essi sono infatti espressione di gruppi di potere sociali od economici e la loro azione consiste unicamente nel valutare gli interessi reciproci e nel concludere su queste basi compromessi e coalizioni. […] Egli sottolinea giustamente che nel parlamento il problema non è tanto quello dell’opinione pubblica (Öffentlichkeith), quanto piuttosto quello della pubblicità (Publizität) dell’opinione. Essa è un’eredità dell’illuminismo che si era opposto agli "arcana" del potere. Schmitt ricorda soprattutto le tesi di Condorcet e la identificazione da lui posta tra legge e verità. Il sistema del parlamentarismo si fonda pertanto sulla divisione dei poteri, sulla pubblicità e sul dibattito delle opinioni, nonché sulla libertà di stampa. Esso rappresenta la concezione politica tipica del liberalismo alla quale si oppone la teoria della democrazia, fondata sulla identità tra governanti e governati e quindi sulla negazione della separazione dei poteri. Ma dove non è possibile una distinzione tra chi comanda e colui che viene comandato, non è possibile neppure una limitazione del potere dello Stato. Così, secondo Schmitt, la dittatura non è l’opposto della democrazia, bensì della divisione dei poteri. Quasi provocatoriamente egli afferma pertanto che bolscevismo e fascismo sono antiliberali, non antidemocratici. Schmitt riconosce in conclusione una crisi del parlamentarismo dovuta alla opposizione da parte di una democrazia radicale la quale rivendica l’omogeneità tra chi comanda e chi ubbidisce e respinge il parlamento come istituzione obsoleta.»

La penetrante analisi di Carl Schmitt — che si può condividere anche solo in parte, ma che è difficile respingere in toto — ci fornisce pertanto gli strumenti non solo per meglio comprendere fenomeni del passato come il comunismo e il fascismo, ma anche la realtà presente e, in particolare, la sempre più spiccata tendenza della democrazia parlamentare a divenire "totalitaria", ossia ad imporre il proprio "pensiero unico" sia all’interno, che all’esterno dello stato.

Quello che è avvenuto, in pratica, dopo il 1945, e ancor più dopo il 1989, con la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, è stato un processo di adattamento dei sistemi parlamentari alle nuove sfide della tarda modernità, un suo aggiustamento, capace di renderlo competitivo rispetto alle dittature, rivendicando per sé, e per sé solo, la matrice "democratica" e negandola in maniera radicale alle dittature, sì da presentarsi come il solo sistema politico legittimato a rappresentare le autentiche istanze della sovranità popolare e della volontà generale. In pratica, il parlamentarismo,pur senza perdere affatto la sua caratteristica essenziale di "copertura" degli interessi particolari ed egoistico, extra-parlamentari, specialmente della finanza e dell’industria, si è sforzato di far sue anche le istanze del nemico sconfitto, vale a dire le dittature (di destra e di sinistra), compensando le sue debolezze croniche, la sua caratteristica irresolutezza, la sua mancanza di decisionalità, con una forte spinta verso l’azione "assoluta", cioè "totalitaria", presentata come la sola azione politica capace di interpretare "veramente" la volontà generale, e dunque l’idea dell’interesse generale, contro le distorsioni, le astuzie e, al limite, il clientelismo e la corruzione del parlamento stesso.

Berlusconi e Renzi sono figli di questo aggiustamento, di questo "scavalcamento" in senso demagogico, così come lo sono Obama (e Bush), Sarkozy (e Hollande), Cameron (e Blair): restando intatti, si capisce, quei centri di potere "occulto" i quali, anzi, manipolando la pubblica opinione e controllando i partiti, si stanno enormemente rafforzando, con buona pace della "democrazia".

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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