
Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franco
30 Luglio 2015
Ma che bravi questi Inglesi: fanno le guerre per i soldi, mica per altro…
30 Luglio 2015Qualcuno ha detto che la storia ci dice quasi altrettanto sull’età dello storico che se ne occupa, che su quella fatta oggetto di studio: per esempio, che la «Storia romana» di Theodor Mommsen ci dice quasi altrettanto sulla Germania del XIX secolo e sulla cultura liberale tedesca, che sulle guerre puniche o sulle guerre civili scoppiate nel primo e nel secondo Triumvirato; ed è una osservazione molto sensata.
Naturalmente, è anche una osservazione che vale per qualunque storico o per chiunque, pur non essendo uno storico di professione, faccia dell’analisi storica, ivi compresi i romanzi storici o gli sceneggiati televisivi a sfondo storico. Ed è il caso, uno fra i tanti, di quel che scrisse Fabio Pittorru (1928-1995), notissimo scrittore, regista e soprattutto sceneggiatore degli anni Sessanta e Settanta, a proposito delle lotte civili nella Firenze del XIII e XIV secolo.
Pittorru, figura molto versatile ed estremamente attiva nel panorama culturale italiano di quegli anni, prima di dedicarsi al romanzo giallo e agli sceneggiati televisivi, è stato curatore, fra l’altro, per la vecchia e gloriosa B. U. R. — la Biblioteca Universale Rizzoli – di una edizione commentata della «Cronica» di Dino Compagni; ed è assai istruttivo leggere come delinea la composizione sociale e politica dei Guelfi bianchi e dei Guelfi neri al tempo di Dante (da: D. Compagni, «Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi», Milano, Rizzoli, 1965, pp. 10-13):
«Insieme ai bianchi milita la parte più retriva del popolo fiorentino, gli artigiani delle arti minori, la piccola nobiltà dissestata, le corporazioni di cui si minacciano i privilegi, quelli che in politica estera predicano l’isolazionismo. La Firenze che essi amano è quella "sobria e pudica" dei canti di Cacciaguida. La Firenze dei neri è quella che noi troviamo descritta nella "Cronaca" di Giovanni Villani, una città grande e civilissima, protesa verso l’avvenire con quell’incrollabile ottimismo che è proprio di tutti i movimenti che marciano nella direzione della storia, che sono essi stessi storia "in fieri".Dalla lettura dello stesso Compagni, che pure attribuisce ai neri ogni vizio e ogni nefandezza, si avverte che ogni contrasto non potrà che risolversi con la vittoria dei neri, e non perché siano più spregiudicati o più malvagi. I neri non sono Corso Donati, Carlo di Valois, Bonifacio VIII — che con la loro fine starebbero a dimostrare piuttosto che la malvagità viene sempre punita -: questi tre sinistri personaggi non sono che strumenti nelle mani dei neri, che sanno valesi di loro facendo leva sulle velleità aristocratiche di Corso, sull’avidità di Carlo, sulle mire teocratiche del pontefice. La vittoria di parte nera è rapida e incruenta: sono uomini risoluti, decisi, con chiari obiettivi politici davanti a sé. A loro favore giocano alcune circostanze: il passaggio di Carlo, il ritorno di Corso, l’incertezza dei Cerchi, la dappocaggine dei priori. Tutto avviene nel giro di pochi giorni, nella prima decade di novembre 1301. A parte alcuni episodi di violenza, dovuti non tanto a un preciso disegno dei neri, come vorrebbe far credere il Compagni, ma al fatto che le prigioni vennero spalancate e la città si trovò per alcuni giorni senza reggitori; a parte le false incriminazioni di Carlo di Valois, fatte al solo scopo di estorcere denaro, i neri si dimostrarono estremamente generosi verso il partito vinto. Il gruppo dirigente dei bianchi si liquidò da sé, sopraffatto dalla sua stessa viltà. Fu pronunciata solo qualche condanna per baratteria, che doveva servire a tener lontani dalla città i maggiorenti di parte bianca, in gran parte datisi già alla fuga. Le prime condanne a morte vengono eseguite solo due anni più tardi, nel 1303, contro i bianchi fatti prigionieri mentre combattono contro Firenze, e anch’esse si devono più allo zelo del nuovo podestà, Fulcieri da Calboli, che a una precisa volontà dei neri. Ma già nell’agosto del 1303 abbiamo la prima amnistia (che comprende persino i Cerchi) di cui possono usufruire tutti coloro che non hanno preso le armi contro la città. Otto anni più tardi, nel 1311, farà seguito l’amnistia pressoché generale, che porta il nome di baldo d’Aguglione. L’eccezionale generosità mostrata dai neri non è una prova della loro debolezza, ma della loro forza: le ragioni che li spingono a sollecitare il ritorno in città dei fuoriusciti bianchi sono le stesse per cui già avevano chiesto che si aprissero le porte ai ghibellini: sotto la guida di questo partito, Firenze si avvia ad essere la più civile e la più moderna città d’Europa. I bianchi esuli si uniscono ai ghibellini ancora al bando: un’alleanza patetica tra due gruppi politici superati dal ritmo dei tempi, due gruppi che non hanno altro programma politico che vendicarsi dei loro nemici personali. […]
Nei momenti di maggior pericolo, le forze e le risorse della città sembrano moltiplicarsi. Questo appare evidente soprattutto in occasione della discesa di Arrigo VII di Lussemburgo. Arrigo VII è un imperatore creato per iniziativa di un papa ghibellino in funzione antifrancese. La sua impresa è il frutto del doppio gioco con cui la curia avignonese tenta di sottrarsi alla pesante tutela di Filippo il Bello. Per lui viene dissepolto un cadavere vecchio ormai di un secolo: il sacro romano impero: sul suo capo si posano le te corone della tradizione, in Aquisgrana, in Milano, in Roma. Arrigo VII non è pericoloso: è solo un botolo ringhioso e crudele che sembra la caricatura dei grandi imperatori di casa sveva. Non ha niente della forza e della grandezza del primo e del secondo Federico. Il pericolo è piuttosto nella situazione politica d’Italia, dove quasi dovunque una lega di vecchia e nuova aristocrazia fondiaria contende alla borghesia guelfa il controllo delle città. La causa di quello che potremmo chiamare il neoghibellinismo ha trovato l’appoggio del papa ed è già riuscita a conquistare importanti posizioni di potere, in questo favorita dalla intrinseca debolezza dei ceti mercantili che, attardatisi su posizioni corporative, non hanno saputo elevarsi a una visione statuale e politica delle nuove comunità cittadine. Il passaggio di Arrigo VII minaccia perciò di lasciare alle spalle una scia di comuni in cui, con l’appoggio dell’imperatore, la causa del guelfismo e delle libertà comunali sia compromessa in nome di un’ambigua pacificazione. A dare la misura di tale pericolo è Milano, già baluardo delle autonomie comunali, che in questa circostanza striscia ai piedi dell’imperatore, e dalle sue mani riceve stabilmente quella signoria viscontea che provoca la fine delle civiche libertà. L’impresa di Arrigo fallisce soprattutto per il comportamento dei neri di Firenze, che si dimostrano infaticabili e sono sempre presenti con uomini, oro, consigli, agenti segreti, dovunque ci sia da creare qualche difficoltà all’imperatore, dovunque ci sia da contrastargli il cammino. Ma l’impresa di Arrigo lascia in Italia i germi infetti di nuove signorie. Questa nuova forma di governo, che in apparenza mostra di voler conservare intatte le istituzioni dell’epoca comunale, apparve fin da allora ai neri fiorentini in tutta la sua pericolosità: per questo la contrastarono tanto tenacemente. Era, la signoria, un compromesso tra vecchio e nuovo, la coesistenza di due diverse classi sociali al governo della città:, che precedeva il ritorno delle aristocrazie militari e fondiarie, che avrebbero poi ricacciato i borghesi nei loro fondachi e nei loro vicoli, a fabbricare merci e a pagare imposte, togliendo alla nuova classe sociale, nata dalle industrie e dai commerci, il controllo della cosa pubblica, facendola ritornare, per quasi quattrocento anni, una classe subalterna. La vittoria dei neri su Arrigo VII ritarda di oltre un secolo, almeno per Firenze, quel feudalesimo di ritorno, che caratterizzò la vita politica italiana dell’età dei principati e delle dominazioni straniere.»
Pittorru scrive queste rughe nel 1965, il Sessantotto è ormai dietro l’angolo, la marea di sinistra sta montando e ovunque imperversano i ritratti del "Che" e il Libretto Rosso del Grande Timoniere: quella frase a proposito dei Neri, in cui si dice che il loro "movimento" è pervaso di quell’ottimismo che « è proprio di tutti i movimenti che marciano nella direzione della storia, che sono essi stessi storia "in fieri"», sembra pescato, di peso, da un’opera di Lenin. Vi si respira quella fiducia nella nuova religione del Progresso, quell’intransigenza dottrinaria e inclemente, quella cieca fiducia nella bontà della propria causa, identificata con la Storia con la maiuscola, che già aveva animato i bolscevichi nel 1917 e che si era presentata al mondo come l’avvento di una nuova era e l’inizio della palingenesi universale.
Di contro i Bianchi, definiti come «la parte più retriva del popolo fiorentino», accusati di essere degli "isolazionisti" in politica estera e degli strenui difensori di anacronistici privilegi in politica interna, incarnano, alla perfezione, tutto ciò che, negli anni Sessanta del Novecento, era considerato dai giovani progressisti come politicamente, culturalmente e moralmente detestabile: il conservatorismo becero, ed egoista, la miopia e la chiusura esistenziale, la difesa a oltranza d’ingiusti e sorpassati privilegi, il campanilismo e il municipalismo tradizionalisti, insomma il rifiuto della ruota del Progresso e della Modernità. Perché questa, in fondo, appare come la posta in gioco nelle lotte municipali fiorentine di fine Duecento: pro o contro la Modernità, pro o contro il Capitalismo, pro o contro il Secolarismo. È curioso, però. La cultura marxista che esaltai Neri come i portatori del progresso, riconosce, al tempo stesso, che essi sono i campioni dell’economia capitalista, e che i loro avversari, i Bianchi, sono i difensori di un ordine interclassista, fondato sul popolo minuto e quindi sui meno abbienti. La contraddizione, però, è solo apparente: per Marx, il capitalismo è progressivo rispetto al feudalesimo, dunque va salutato positivamente, come un fenomeno storico utile e necessario, che spinge la ruota della storia verso la rigenerazione finale: la sconfitta del capitalismo stesso e l’instaurazione del socialismo, mediante la distruzione della borghesia, che sarà, in fondo, una auto-distruzione, nel senso che il sistema capitalista crea da se stesso le condizioni che finiranno per distruggerlo. E allora va bene anche questo: che i Bianchi, il popolo minuto, siano presentati come la parte "retriva" del popolo, mentre i Neri, capitalisti rampanti, come la parte "illuminata": gli uni, inutili a se stessi ed alla società, lottano contro la marcia della storia, gli altri, abili e intelligenti, l’assecondano.
La storia universale, e non solo quella di Firenze medievale, diventa una storia del Progresso e della sua lotta contro la malattia chiamata Passato. Ciò appare evidente là dove Pittorru dice che «l’impresa di Arrigo lascia in Italia i germi infetti di nuove signorie»: le forze che non vanno nel senso del progresso (ma chi stabilisce cosa esso sia?), evidentemente, sono un’infezione virale, una pestilenza che andrebbe cauterizzata col fero e col fuoco. Poi, però, l’Autore è costretto a riconoscere che, per circa quattrocento anni, le forze del progresso, vale a dire la borghesia mercantile e finanziaria, vennero sconfitte e ricacciate nei loro fondachi e nei loro vicoli: un bel problema, questo, per chi pensa che la Storia marcia sempre nella direzione "giusta" e dunque non è avvezza a perder tempo. Ma quattro secoli son tanti: bisognerà aspettare la Rivoluzione francese per vederla rimettersi lungo i binari "giusti": e allora? Bisogna forse pensare che lo Spirito assoluto, di hegeliana memoria, ogni tanto smarrisce la via e si attarda in un ozio plurisecolare?
Strano: a Pittorru, e a quelli come lui, non viene in mente che, se proprio un comune come Milano, tra i più ricchi e potenti, e quello che più d’ogni altro si era battuto per la difesa delle libertà comunali, decide ora di «strisciare ai piedi» di Arrigo VII, per usare la sua simpatica espressione, forse qualche motivo ci sarà stato, che non s lascia spiegare solo in termini di politica retriva, di chiusura municipalista, di grettezza culturale e sociale. Ma ammettere una cosa del genere, sarebbe come ammettere l’arbitrarietà e l’0inconsistenza di tutto il teorema storico progressista: che, nella politica mondiale, a decidere gli eventi siano sempre le forze illuminate e intelligenti, ma beninteso illuminate e intelligenti nel senso che, a posteriori, viene cucito loro addosso da quegli intellettuali i quali non hanno di meglio da fare che costruire una filosofia della storia basata sul meschino senno di poi, vale a dire al solo scopo di dare ragione a chi ha vinto e torto, a chi ha perso.
In questo senso, i bianchi che sterminarono i pellerossa nel Nord America avevamo ragione, e i popoli indigeni, torto: i primi rappresentavano il Progresso, gli altri, il Regresso. Stesso discorso per gli industriali inglesi del XVIII e IIX secolo rispetto ai luddisti; e così via. È così che i progressisti si costruiscono, su misura e cion le loro stesse mani, la propria buona coscienza: quella che li fa sentire sempre dalla parte della ragione, e che mette gli altri dalla parte del torto. Così, ad esempio, tanti progressisti italiani non riescono a farsi una ragione del fatto che le regioni più vive e dinamiche, aperte e laboriose, come Lombardia e Veneto, in termini politici siano intollerabilmente conservatrici, e raramente si esprimano a favore dei partiti di sinistra. Mah!, misteri della Storia…
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