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Giuseppe Fantino su Jean Cau: un (a torto) dimenticato su un altro (a torto) dimenticato

Jean Cau: e chi si ricorda di lui? Eppure è stato un grande scrittore, uno dei più grandi scrittori francesi del Novecento; e alcune sue opere, alcune sue pagine toccano i vertici del sublime, sono pagine immortali, che hanno qualcosa da dire agli uomini di ogni tempo e di ogni cultura; pagine eterne, che continueranno a parlare anche fra due o quattro o dieci o venti generazioni.

Jean Cau era un meridionale, nato a Bram nel 1925 e morto a Parigi nel 1993: dimenticato già in vita e quasi del tutto obliato dopo la scomparsa; eppure è stato un giornalista molto apprezzato, oltre che il segretario di Sartre, ha fatto parlare di sé nei circoli esistenzialisti, ha avuto il suo momento di notorietà e di gloria. Ma poi è successo qualcosa, nella sua vita e nel suo percorso intellettuale e letterario, qualcosa di indicibile e di imperdonabile, che ne ha fatto un reprobo e quasi un maledetto: dall’estrema sinistra, in cui militava, si è spostato su posizioni di estrema destra; e questo a partire dal 1960, giusto in tempo per andare pienamente controcorrente, per opporsi frontalmente a quella marea gauchista che stava montando dalle profondità del Quartiere Latino e che sarebbe culminata, straripando, nel Maggio del 1968, dilagando poi in tutta la Francia, in tutta l’Europa e in buona parte del mondo.

Figuriamoci: non si potrebbe immaginare un anacronismo più scandaloso, una apostasia più blasfema; sono cose che si pagano, in tempi di quasi totale egemonia culturale della sinistra, e infatti Jean Cau le ha pagate e, e duramente: è stato condannato a una sorta di invisibilità, di trasparenza: non c’è praticamente studentello, in Francia e fuori della Francia, che non conosca, ancora oggi, il nome e l’opera di Sartre (o che creda di conoscerla), ma non c’è quasi uomo di cultura che si ricordi ancora di Jean Cau, a dispetto dell’indubbio valore di alcuni suoi libri. E si consideri che la sua produzione letteraria, sia narrativa che saggistica, è semplicemente impressionante, sia per vastità che per originalità e profondità: eppure, a malapena, il lettore italiano non più giovanissimo ricorderà — perché, all’epoca, se ne fece un gran parlare – «Il cavaliere, la morte e il Diavolo» (edito da Volpe nel 1979), oppure, forse, «Una passione per Che Guevara» (Vallecchi, 2004).

Di questo grande dimenticato, anzi, di questo grande rimosso, si era occupato, a suo tempo, e con pagine bellissime per finezza di sentire e acutezza di giudizio, un altro grande dimenticato, o forse rimosso, della cultura italiana: lo scrittore e critico letterario Giuseppe Fantino (1908-1975), calabrese di Melicuccà, un paesino d’un migliaio d’abitanti in provincia di Reggio, ai piedi dell’Aspromonte, con una nobile storia alle spalle, risalente alla Magna Grecia: un meridionale come lo era Jean Cau, nativo della Linguadoca-Rossiglione, terra occitanica per eccllenza; entrambi uomini del Sud, del Mediterraneo, ed entrambi scrittori controcorrente, che inseguivano la verità con rara onestà intellettuale e con assoluto rigore, e non cercavano, come facevano e fanno tanti, il riconoscimento del pubblico e dei salotti letterari a qualsiasi prezzo. Uomini capaci di sopportare la solitudine e di lavorare in silenzio, in raccoglimento, in spirito quasi francescano: uomini veri, d’altri tempi, di quelli che disprezzano il successo facile e i riconoscimenti dell’establishment culturale politicamente corretto. Uomini scomodi, in fondo: tanto scomodi da venir cancellati in fretta dalla memoria dei loro contemporanei benpensanti, allineati e "navigati", chi quali credono di saperla lunga perché sono abbastanza furbi o prudenti da rimanere sempre nella corrente.

Carattere fiero e battagliero, Giuseppe Fantino non era uomo da domandare scusa: soleva dire che, se aveva sbagliato in qualcosa, non avrebbe domandati l’indulgenza di nessuno, perché è cosa abietta speculare sulla buona educazione e sulla arrendevolezza altrui; per lui, chi sbaglia deve pagare, è giusto e non c’è niente da recriminare. Era anche un acceso patriota; adorava Mazzini e Campanella; si sentiva un uomo del Risorgimento, e avrebbe voluto un’Italia più dritta sulla schiena, e la cultura italiana meno servile verso le mode straniere.

Cosa gravissima e quasi imperdonabile: non amava il neorealismo; definiva "uomini di legno" i personaggi creati dagli scrittori neorealisti; guardava con una certa simpatia al filone "magico"" (Buzzati, Landolfi), ma rimproverava loro una eccessiva timidezza, lui che non temeva di opporsi frontalmente al gusto dominante — e si ricordi che il neorealismo rappresentava, nei decenni centrali del Novecento, la Cultura con la C maiuscola da parte di chi aveva il controllo della cultura italiana nel suo complesso, vale a dire il Partito comunista -; era, inoltre, un sincero estimatore della cultura popolare e regionale, in tempi in cui tali simpatie erano sospette, perché viste come antitetiche al Verbo internazionalista di matrice staliniana; per finire, era un ammiratore di Giovanni Papini, anche se non ne condivideva tutte le idee: e stimare un mezzo proscritto, un mezzo sopravvissuto, dopo la cosiddetta Liberazione del 1945, era già un candidarsi al suicidio sociale e culturale e un prenotare il proprio oblio anticipato.

Questo era l’uomo, lo scrittore, il critico, il professore: persona tutta d’un pezzo, straordinariamente acuta nelle intuizioni critiche (come solo i meridionali sanno essere), straordinariamente lucida nei suoi giudizi; un calabrese che passò quasi ignorato fra i suoi conterranei — mentre altri, come Corrado Alvaro, mietevano facili successi accodandosi alle mode politico-culturali — perché assolutamente allergico a qualunque forma di accomodamento o compromesso; un uomo schivo e quasi umbratile, che lasciò, nondimeno, un profondo ricordo di sé in quanti lo avvicinarono e lo conobbero personalmente, a cominciare dai suoi studenti.

Scriveva, dunque, su Jean Cau, Giuseppe Fantino, recensendo il suo libro «La pietà di Dio» (in: G. Fantino, «Appunti e saggi di critica letteraria», Milano, Gastaldi, 1964, pp. 178; 180-3):

«Jean Cau ha preso il materiale umano del suo romanzo da una prigione, tanto valeva prenderlo da un manicomio, perché dei suoi quattro detenuti uno ha ucciso la moglie, l’altro il padre, il terzo l’amico, il quarto la moglie e l’amante di lei, ma tutti e quattro parlano e agiscono da pazzi. Infatti essi rivivono le loro tetre avventure in una fuga d’incubi, che sono descritti in ben 250 fittissime pagine, e non si arrestano mai, e non ingenerano il minimo senso di noia in colui che vi assiste (più che narrazione "Pietà di Dio" è rappresentazione). Da momento a momento la realtà cangia il suo volto, e i quattro criminali chiusi nella stessa cella, ora a vedono in un modo e ora in un altro. […]

C’è una visione esistenzialistica della vita esasperata fino alla follia. C’è la razza umana fissata nei ritratti di tre uxoricidi e di un parricida. C’è l’uomo sollevato o degradato nella follia criminale. Jean Cau non si ferma a tempo. Ma allora Jean Cau sarebbe una specie di Moravia parigino che vede pazzi prostitute e assassini da per tutto? Nient’affatto. Questo che abbiamo presentato non è tutto il Jean Cau de "La pietà di Dio". Nel volume c’è altro. C’è l’angoscia che levita e redime la follia criminale dei quattro protagonisti. Essa delimita il mondo esistenzialistico dei Sartre, delle Rochefort,dei Jean Cau dal mondo puramente meccanico dei Moravia, dei Silone e dei Levi. Essa stabilisce una differenziazione netta tra il mondo dei robot e il mondo degli uomini che hanno un’anima. L’angoscia scava fino a cambiare le fattezze dei quattro disgraziati chiusi nella stessa cella. Il rimorso funge da specchio e questo rimanda un volto di terrore. La follia è un tentativo di fuga, un’evasione da ciò che essi sono, una conquista o un acquisto. Il dottore si fa venire le crisi per non pensare a Helene che ha ucciso, Macht si rifugia nell’attenuante della desolazione morale e del suo squallore fisico. Per non pensare al padre; Eugene vince le corse ciclistiche, per dimenticare il caposquadra e la moglie che ha ucciso; Alex inventa un sinistro giornale radio per illudersi che i delitti della natura sono più atroci dei suoi. La coscienza vigila nei quattro assassini che nondimeno si amano come fratelli, non per il denominatore comune dell’omicidio, ma per un bisogno della loro anima intossicata, ma non distrutta dall’atto criminale. Essi hanno un passato innocente dietro di loro e in esso si rifugiano. Il Dottore pensa ai suoi colloqui con Helene, Macht alle preghiere che faceva prima di addormentarsi, Eugène all’amore di sua moglie, Alex ai suoi trionfi di pugile. L’isola incantata non è scomparsa dai loro occhi, e per questo dicono di non avere ucciso e si costruiscono una realtà fittizia. La realtà vera li persegue come un incubo. "C’è qualche cosa dietro di me" dice il Dottore "che non mi lascia mai con lo sguardo; che sorveglia i miei gesti; che mi fa dei tiri birboni" (p. 148). Dinanzi a questo tormento sparisce ogni colpa. La Sagan è una scrittrice amorale o immorale, Jean Cau è moralissimo. Questa storia atroce ha un fondo d’umanità che commuove., Dentro a quegli occhi bianchi e a quelle facce bianche s’annida l’espiazione e il rimorso. La Sagan fabbrica dei manichini, Jean Cau crea delle "anime", e non importa se siano maledette o dannate. L’amoralità dell’artista è nella sua indifferenza al male, non nella efferatezza del male. "Da bambino, quando vedevo una folla, avevo l’inaudito desiderio di uccidere tutti; sognavo di bombe che esplodessero facendo a pezzi quei corpi imbecilli e mettendo il terrore su quei volti" (p. 151). L’atrocità dei pensieri presuppone l’atrocità l’angoscia. Il Dottore e Macht ne sono i più straziati. Il Dottore, giovanetto, ha fatto precipitare in un baratro suo fratello, più grande di lui e più bello; poi sposa e costringe la moglie al suicidio; Macht uccide il padre e fa morire la madre di dolore. Pare che la morte di "quella specie di padre" non l’interessi più che tanto, la morte della madre è il suo dramma. Come tutti i bambini brutti, Macht era il prediletto della madre; ciò ispira le pagine più umane e più commosse del romanzo. Si ha un bel sentenziare sulla disumanità di Jean Cau, essa non è vera; come non vera negli altri esistenzialisti.

La "Nausea" ha le pagine finali ispirate a un esasperato romanticismo; il "Riposo del guerriero" è la storia dell’amore virtuoso di una donna sana per una specie di sottouomo maculato di tutti i vizi, la "Pietà di Dio" è l’espiazione di quattro delitti perpetrati da quattro irresponsabili. Ognuno di costoro è unito da vincoli fortissimi alle sue vittime che ama, malgrado tutto. La vita dei quattro assassini nella cella della prigione, sotto apparenze diverse, è regolata dall’amore. Essi, un certo senso, vivono con coloro che hanno ucciso. "in ginocchio ai piedi di Helene, aveva posato la sua testa di bambino vecchio nel cavo delle sue cosce. Dolcemente ella accarezzava quella povera testa piena di vuoto e di follia e piangeva. Non mi piacciono gli uomini, Helene. Quelli che vengono chiamati uomini sono indifferenti" (p. 151). Chi parla e fa così è il Dottore, il più cerebrale dei quattro criminali. Gli altri fanno di più Macht fa testimoniare la madre morta al suo processo, e l sei pagine che rifanno il processo, con la presenza della madre che rivive per discolpare il figlio, sono tra le cose migliori della letteratura dei nostri tempi. Non credo che abbiamo in Italia qualcosa da accostare a queste umanissime pagine del Cau. Siamo a rimorchio come nel Settecento. Allora, della Francia soltanto; oggi, della Francia e dell’America. C’è nell’ultimo Buzzati il tentativo di animare i fantocci di legno del neorealismo italiano, ma soltanto il tentativo. Anche lui ignora la panagoscia dei nostri tempi. Anche lui fa dell’uomo un mezzo robot. E degli altri non parliamo.

Che l’espiazione sia anche redenzione e riscatto lo sapevamo da Dante, ma da Cau ne abbiamo la riprova. "Pietà di Dio" può essere una condanna della vita e dell’uomo, una condanna schopenhaueriana, ma è anche un’assoluzione di essi, per via della pietà e dell’amore. "Oggi Macht racconta (ma nessuno lo ascolta) che sua madre andò a testimoniare a suo favore al processo. Dichiarò che suo figlio non poteva essere un assassino… "Così signora, voi credete che vostro figlio sia innocente dell’uccisione di vostro marito perché vi vuole bene?". "Sì, signor Presidente, " risponde il Dottore "quando un figlio ama sua madre è innocente di tutto" (p. 222).»

Avremmo bisogno, oggi più che mai, di altri uomini come Giuseppe fantino; e avremmo bisogno di leggere altri libri come «La pietà di Dio»: libri che vanno dritti al cuore dei problemi essenziali del nostro tempo, primo dei quali lo smarrimento morale e intellettuale del mondo contemporaneo; libri duri, indigesti, che paiono pugni nello stomaco, ma che lasciano pensosi e aprono nuove prospettive, dischiudono nuovi punti di vista. Libri magari sgradevoli, ma profondamente seri, che hanno qualcosa da dire: non libri vacui, di puro intrattenimento, né libri furbi, che cercano il facile successo: non libri come «Il nome della rosa» di Umberto eco, tanto per non far nomi; né come quelli dei vari Baricco, De Carlo, Pennac, che passano per grandi opere e son fatti di niente…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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