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Tutti vogliono la felicità; ma, per trovarla, bisogna cercarla nel posto giusto

Tutti gli esseri umani, tutti indistintamente — salvo il caso di certe gravi malattie psichiche — vorrebbero essere felici; tutti, dunque, cercano, o dicono di stare cercando, la felicità; pochissimi la trovano, o trovano qualche cosa che vi assomigli almeno un poco: sorge pertanto, inevitabile, il quesito se la cerchino nel posto giusto, là dove essa effettivamente si trova.

La cosa, in fondo, è terribilmente semplice (ma il pensiero moderno, a forza di cerebralismi, intellettualismi esasperati, fumisterie, "superamenti" che non superano un bel nulla e sofismi d’ogni tipo, spacciati per cose profonde, ha completamente smarrito la nozione della vera semplicità): se si cerca una cosa, bisogna sapere cosa essa sia, e anche, ovviamente, dove la si possa trovare, perché le due cose sono correlate; rispondendo alla prima domanda, si risponderà, per deduzione, anche alla seconda, e ci si metterà alla ricerca nella giusta direzione.

La felicità, dunque, è uno stato dell’essere, non un bene positivo: è un modo in cui l’essere si rapporta al reale ed a se stesso, non un qualcosa che stia fuori di esso, e che possa raggiungere e, per così dire, conquistare; è la realizzazione della vita perfetta, della pace perfetta e della perfetta armonia, rispetto alla quale ciò che non è perfetto, anche se buono, appare immediatamente come limitato, fragile, precario.

Ma esiste, si domanderà, un tale stato dell’essere? Si sarebbe tentati di rispondere senz’altro negativamente: nessuno, infatti, potrebbe dire, con verità, di averne fatto la piena ed effettiva esperienza, se non, tutt’al più, per qualche prezioso, ma brevissimo istante d’illuminazione, sì da far apparire ancora più scure le tenebre della condizione d’esistenza ordinaria. Eppure, non bisogna avere fretta di concludere con una tale risposta negativa; perché subito sorge la domanda come mai, allora, tutti gli uomini, indistintamente, ne sentano la nostalgia, e donde essa venga loro: è mai possibile che sognino tutti quanti, che tutti quanto s’ingannino, immaginandosi qualche cosa che non è reale, che non esiste, se non nel regno dei desideri e dell’immaginazione? Ma si può desiderare, si può immaginare, qualche cosa che non si conosce per niente, dato che non esiste addirittura? Evidentemente, no: se si desidera qualcosa, se s’immagina qualcosa, vuol dire che se ne ha quanto meno la nozione; vuol dire che, in qualche modo, da qualche parte, la si è vista, oppure se ne è fatta l’esperienza, magari senza più ricordarsene.

Ecco il punto: quel che si desidera, quel che si cerca, non è, non può essere una pura e semplice invenzione: deve avere origine da una esperienza reale; d’altra parte, se non se ne conosce niente di più preciso, l’unica spiegazione possibile è che si sia dimenticata quella esperienza, proprio come accade che al mattino, talvolta, risvegliandosi, si sappia d’aver fatto un sogno, e se ne provi tuttora un’impressione vivissima, senza riuscire, però, a ricordarne i contenuti precisi. Ecco: la felicità deve appartenere a quel genere di esperienze: tutti ne hanno la nozione, nessuno sa in che cosa consista; dunque, deve trattarsi di qualche cosa che gli esseri umani hanno sperimentato in qualche altra forma di esistenza, in qualche altra modalità del loro essere, che poi hanno perduto, smarrito, dimenticato; eppure quella nostalgia è ancora lì, palpitante, struggente, e sta a testimoniare che non di un’illusione deve essersi trattato, ma di un’esperienza reale. Forse non loro, ma dei loro lontani progenitori: non è forse vero che vi sono dei ricordi ancestrali, degli archetipi universali, delle forme dell’inconscio collettivo, che non appartengono al singolo individuo, ma alla stirpe umana in quanto tale, e che riaffiorano, talvolta, allorché se ne presenta l’occasione?

Il filosofo che prima di tutti gli altri e meglio di tutti gli altri ha esplorato questa possibilità, ha battuto questa strada, ha approfondito questa intuizione, è stato, dopo Platone, il cristiano Agostino: a lui si devono alcune pagine formidabili, per chiarezza concettuale e potenza di penetrazione psicologica, che ancora oggi hanno moltissime cose da dirci, e a paragone delle quali, viceversa, tante pagine del sapere moderno, orgogliosamente sbandierate come ciò che di più acuto il pensiero umano abbia saputo elaborare, appaiono povere, incerte, vanitose e meschine ad un tempo.

Nel libro decimo, e nei capitoli dal ventunesimo al ventitreesimo delle «Confessioni», il santo vescovo d’Ippona svolge alcune riflessioni memorabili su questo argomento, che qui ci sembra opportuno ricordare (traduzione di Onorato Tescari, Torino, S. E. I, 1968, pp. 376-380):

«Dove, dunque, e quando ho io provato la felicità, per ricordarmene e amarla e desiderarla? Né sono io solo o siamo in pochi a voler essere felici; tutti, assolutamente tutti lo vogliamo. Che se non n’avessimo una conoscenza sicura, non lo vorremmo con volontà così chiara che non lascia dubbio. O che è questo? Se si domanda a due persone se vogliono entrare nella milizia,  può darsi che l’una risponda di sì, l’altra di no.  Ma se si domanda loro se vogliono essere felici, entrambe dicono subito di sì, senza esitazione alcuna. E l’una vuole entrare nella milizia e l’altra no proprio per questo, perché vogliono essere felici. Forse perché l’uno trova il suo piacere in una cosa, l’altro in un’altra? Così tutti, a una voce, s’accordano nel voler essere felici, come, se fossero interrogati, a una voce risponderebbero di voler godere, anzi proprio il godere chiamano felicità. Che se l’uno la trae da una cosa, l’altro dall’altra,, una, però, è la meta a cui tutti vogliono arrivare, il godere. E poiché si tratta di cosa che nessuno può dire di non aver provata, perciò, al sentir pronunciare questa parola "felicità", la si ritrova nella nostra memoria  e la si riconosce.

Lungi, o Signore, dal servo tuo che si confessa davanti a te, lungi l’affermazione che qualunque gioia costituisca la felicità. V’è, infatti, una gioia che non vien concessa agli empi, ma a coloro che disinteressatamente ti onorano, dei quali tu formi la gioia. E la felicità è, appunto, questa, gioire in te, di te, per te: questa e non altra. Chi pensa che ve ne sia un’altra, persegue una gioia diversa e non vera, per quanto la sua volontà non si discosti, in certo modo, dall’immagine della gioia. […]

Talché non si può affermare con sicurezza che tutti vogliono essere felici, poiché coloro che non vogliono gioire di te, che solo costituisci la felicità, non vogliono certo la felicità. O s’ha da dire che tutti la vogliono, ma, "poiché la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito desideri contrari alla carne, sì che non facciano ciò che vogliono (Gal., 5, 17), gli uomini si gettano su quello che possono e se n’accontentano, poiché quello che non possono nol vogliono così fermamene da poterlo raggiungere?  E invero io domando a tutti se preferiscono gioire del vero o dl falso: tutti, senza esitazione, mi rispondono che preferiscono gioire del vero, come, senza esitazione, affermano di voler essere felici. Ora vivere felici significa gioire della verità,  cioè di te che "sei la verità, il mio lume, la salvezza del mio volto, il mio Dio" (cfr. Giov., 14, 6; salm. 26, 1; 41, 12).

Questa è la felicità che tutti vogliono, questa vita che è la sola felice vogliono tutti, tutti vogliono gioire della verità. Ho conosciuto molti desiderosi d’ingannare: desideroso d’essere ingannato, nessuno. E allora dove hanno conosciuto questa felicità, se non là dove hanno conosciuto anche la verità? Ché col non voler essere ingannati mostrano di amare anche questa, e quando amano anche la felicità, che altro non è se non gioire della verità, amano senza dubbio anche la verità, né l’amerebbero, se nella loro memoria non ne conservassero una qualche conoscenza. Perché, dunque, non gioiscono di essa? Perché non sono felici? Perché si occupano maggiormente di altre cose, che li rendono miseri più che non li faccia felici quel barlume di cui serbano un tenue ricordo. "Ancora", infatti, "un po’ di luce v’è negli uomini."(cfr. de ver. relig., 52, 101). Cammino, cammino, "che" per avventura "non li sorprenda la tenebra".

Ma perché "la verità partorisce odio" (Terenz., Andr., 68) e il servo tuo, che predica la verità, è divenuto nemico a coloro che pur amano la felicità, che altro è se non gioire della verità? Non n’è forse questa la ragione, che la verità è amata in guisa tale che, chiunque ama altra cosa, vuole che la verità consista nell’oggetto del suo amore e, non volendo essere ingannato,  non vuole lasciarsi convincere ch’è stato ingannato? Ond’è che odiano la verità in grazia di quella cosa che amano in luogo della verità. Ne amano lo splendore, ne odiano il rimprovero. Perché non vogliono essere ingannati, ma vogliono ingannare, l’amano quando scopre sé stessa, l’odiano quando, invece, scopre essi. Perciò n’hanno questa ricompensa che, non volendo essere da essa disvelati, lo sono tuttavia, né essa si disvela ad essi. Proprio così, proprio così: l’animo umano, anche accecato e malato, anche brutto e sozzo, vuol rimanere occulto, ma non vuole che nulla rimanga occulto ad esso. E n’ha questo contraccambio, che egli non rimane nascosto alla verità, mentre la verità rimane nascosta ad esso. E tuttavia, anche in codeste condizioni, mentre si trova nella miseria, preferisce gioire del vero piuttosto che del falso. Felice sarà, pertanto, se, non distratto da nessuna cura, gioirà di quella sola verità per cui opera sono tutte le verità.»

Tutti, dunque, per Agostino, vogliono essere felici; e ciò che fanno nella vita è mosso e orientato da questa volontà, da questo desiderio, da questo bisogno: essere felici. Si uniscono o si separano, partono o restano, lottano e soffrono e sperano con questo obiettivo, trovare la felicità, conquistarla, possederla: essere felici. Però, il fatto stesso che scelgano strade diverse, dimostra che non sanno, di preciso, dove stia: ne hanno una nozione, e dunque un ricordo; ma niente di più; troppo poco per dirigere i loro passi con sicurezza: e infatti, il più delle volte, essa sfugge loro, e così trascorrono l’intera vita senza essere arrivati alla meta, senza aver placato la loro sete.

Eppure, se guardassero meglio, un indizio lo avrebbero: la felicità non può trovarsi in qualunque tipo di gioia; la gioia non è la felicità, è soltanto il suo possesso temporaneo e parziale, destinato a dileguarsi, lasciando l’amaro in bocca. La felicità, quella vera, deve trovarsi, per forza, là dove la gioia non finisce mai, e dove nessun gusto amaro rimane in bocca, dopo averla gustata. Eppure, l’esperienza ci dice che una cosa del genere non esiste: non, almeno, nella dimensione del finito, ossia della vita terrena. Nella vita terrena, tutto quel che si può averne, è un anticipo: una caparra, un sorso appena; ma non se ne può spegnere la sete, non la si può possedere interamente. Ciò significa che la felicità esiste, ma non è di questo mondo: in questo mondo se ne può avere solo una vaga idea, o un pallido ricordo: il ricordo di una esperienza vivissima, ma pressoché cancellata dall’oblio; un ricordo debole, vago, incerto, e tuttavia sufficiente ad alimentare la speranza, anzi, la certezza che essa esiste, perché in qualche modo, da qualche parte, ne abbiamo pur fatta l’esperienza — non si sa dove, non qui, ma altrove.

Il ragionamento è di tipo socratico: quando si cerca qualcosa, evidentemente lo si ignora, perché altrimenti non lo si cercherebbe; eppure lo si conosce, altrimenti non se ne avvertirebbe la mancanza, né il desiderio. Trasposto dal piano del conoscere al piano della felicità, esso dà una spiegazione ineccepibile della forza misteriosa che guida gli esseri umani alla sua ricerca, pur se nessuno può dire d’averla mai afferrata, se non in maniera fuggevole. Eppure, essa esiste: e se è possibile farne un’esperienza fuggevole, deve essere possibile anche conquistarla interamente. Ma dove, come? Non presso le gioie terrene: nessuna di queste dura, nessuna soddisfa interamente. Non resta che la gioia assoluta, eterna, ultraterrena; ed essa ha un nome: è Dio. Chi cerca e trova Dio, ha trovato, con ciò stesso, la piena felicità: quella che non passa, che non delude, che non lascerà giammai l’amaro in bocca.

L’errore della maggior parte degli uomini, dunque, consiste nel cercare la felicità lì dove non c’è, dove non possono trovarla: nelle gioie fuggevoli di questa dimensione di esistenza. Per possederle, essi si danno un gran daffare; lottano, si accapigliano, soffrono e fanno soffrire, calpestano e vengono calpestati, ingannano e vengono ingannati. Nessuno, però, è tanto misero, o tanto folle, da desiderare di essere ingannato: con questa giusta osservazione, Agostino fa notare che tutti gli uomini, in fondo al loro cuore, desiderano la verità, anche coloro i quali la cercano nelle esperienze più lontane da essa. S’ingannano, ma conservando un fondo d’istintivo buon senso: sentono che la verità è bene, mentre la menzogna è male; e lo sentono anche quando mentiscono. Mentiscono agli altri, infatti; a se stessi, credono di non mentire. Ma è proprio vero? Per amare la verità, bisogna amare anche se stessi: ma amarsi nel modo giusto, cioè secondo verità. Ed è difficile amarsi così: è proprio degli animi forti, che sono alquanto rari. È più facile amarsi da deboli, da vigliacchi: raccontandosi mille bugie, mille mezze verità. E condannandosi, così, all’infelicità della menzogna.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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