
Quale futuro per la città?
29 Luglio 2015
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29 Luglio 2015Il poeta Srečko Kosovel, nato a Sesana, sull’altopiano carsico, il 18 marzo 1904 e morto nella vicina Tomaj, dove trascorse l’intera esistenza, il 27 maggio 1926, a soli ventiquattro anni, è, senza dubbio, una delle voci più pure e suggestive della lirica slovena contemporanea.
Fatta eccezione per il periodo degli studi di slavistica e romanistica presso la facoltà di filosofia dell’università di Lubiana, Kosovel non si allontanò mai dal paese della sua infanzia, ove la sua famiglia si era trasferita allorché egli aveva otto anni: la sua brevissima vita fu tutta raccolta e quasi ombreggiata sotto le fronde dei pini del Carso, che, con i loro fusti diritti e con lo stormire delle fronde, ritornano continuamente nelle sue liriche.
Dal 1925, nell’ultimo anno della sua vita terrena, subì gli influssi del costruttivismo russo, e a tali influssi si deve, a nostro avviso, la parte più "studiata", meno spontanea e, in definitiva, meno felice della sua produzione poetica; per tutto il resto la sua poesia si svolse sotto il segno di suggestioni vitaliste, paniste, estetiste, riconducibili al clima complessivo del Decadentismo e del Simbolismo e in una tonalità generale, quasi pittorica, che risente dell’impressionismo.
In Kosovel c’è anche e soprattutto, l’attitudine al sogno, alla nostalgia, al dolce abbandono tipici dell’anima slava, unita alla fresca vitalità di un poeta poco più che adolescente, e di una letteratura, anch’essa, quasi ancor bambina, che intuiscono una forza intima, segreta e non ancora pienamente sviluppata, la quale freme e scalpita per aprirsi una strada, come certi fiumi carsici che riappaiono in superficie dopo chilometri di corso sotterraneo, anelanti al sole e alla luce.
Per gli anni in cui visse, Kosovel sentì come un intollerabile oltraggio al proprio sentimento nazionale gli sforzi del governo fascista per italianizzare quelle terre e si sentì in dovere di ergersi contro il pericolo della snazionalizzazione; anche se metodi ben più brutali venivano allora adoperati dal democratico governo francese per eliminare l’elemento culturale tedesco dall’Alsazia e anche se il vero pericolo per l’autonomia culturale e politica slovena non veniva dall’Italia, dal cui patrimonio di antica civiltà la giovane nazione slava avrebbe avuto comunque di che arricchirsi, ma dal duro e ottuso nazionalismo panserbo, mirante a omologare non solo la Slovenia, ma anche la Croazia, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro, la Macedonia, entro le coordinate di uno Jugoslavia intesa, centralisticamente, come l’estensione e il potenziamento della sola Serbia. Funzionale al nazionalismo serbo era, poi, l’incoraggiamento ai sub-nazionalismi jugoslavi: nel caso della Slovenia, all’assurda pretesa di spingere avanti i confini politici, da un lato sino alla Carinzia austriaca, Klagenfurt compresa, e, dall’altro, sino a Trieste, Monfalcone, Gorizia, le valli del Natisone, comprese Aquileia, Cividale, Gemona, Pontebba, Tolmezzo.
Kosovel era un giovanissimo poeta che sentiva in sé la forza emergente di una giovane letteratura e di una giovane nazione; non era uno studioso di storia, né un filosofo, cui si possa rimproverare di aver avuto la vista corta in fatto di idee politiche e nazionali, tanto più che una certa vena di ribellismo politico era comunque nel clima della poesia europea di quell’epoca, dalla Francia all’Unione Sovietica (e non solo di quell’epoca: i poeti e la rivoluzione, quale strano ma ricorrente connubio, nella storia moderna!). Ci so potrebbe, semmai, aspettare un maggior equilibrio da chi, come lo scrittore Boris Pahor, autore di una peraltro pregevole biografia del Nostro, ha il vantaggio, non piccolo, di vedere le cose con il senno del poi, cioè dopo aver assistito alle atrocità titine contro sloveni e croati nel 1945, fino alle drammatiche guerre civili degli anni ’90 del Novecento, con le quali crollò miseramente il sinistro castello (fatto anche menzogne) della Jugoslavia comunista.
Tralasciando, perciò, la componente "costruttivista" e, per così dire, politica e sociale della lirica di Srečko Kosovel (cosa che a qualcuno potrà non piacere: ma è una prerogativa della critica quella di non farsi imbeccare su ciò che vada ritenuto valido di un poeta), e privilegiando il momento "impressionistico", possiamo dire che la natura carsica, i boschi, le rocce, le strade bianche, i piccoli paesi aggrappati sui margini dell’altopiano con le loro povere case, hanno trovato in lui una delle voci più vive e fresche, più suggestive nostalgiche, più commoventi per sincerità e profondità d’ispirazione, di quella terra aspra e rude, che ha nell’anima dei suoi abitanti qualcosa della solitudine dei vasti spazi e del gelido soffio del vento di bora.
Scrive, dunque, Boris Pahor in «Srečko Kosovel», Pordenone, Ed. Studio Tesi, 1993, pp. 15-20):
«… è necessario notare il carattere indenne e puro della prima fase della lirica carsica di Kosovel. Valga, come esempio, la poesia "Razpoloženje" ("Stato d’animo") nella tradizione di Gino Brazzoduro, cui si deve una bella raccolta di poesie di Kosovel tradotte in italiano. […]
"Un sommesso bisbiglio di pioggia autunnale / si perde nel cupo fogliame /e nel vento il ramo si piega al ramo / quasi a baciarlo… // E tutta profuma la grigia penombra / gocce brillano sui grappoli, / gocce stillano / dai bruni tetti di paglia. // L’azzurra prugna si nasconde / nel cupo verde del ramo. / L’ombra scende dai monti, / il cuore sta in ascolto e riposa."
Così, anche prendendo in considerazione solamente alcuni canti, con i quali il critico e lo storico della letteratura slovena Lino Legiša apre il suo florilegio dell’opera kosoveliana, si ha modo di entrare subito in quel mondo originario di cui, insieme al poeta, si sentirà in seguito una indicibile nostalgia. Nostalgia di quei momenti felici, per esempio, in cui il poeta vede il paese circondato da un arco di pini simili a due mani tese e paragona il gruppo di case a un uccello tenuto tra le due palme delle mani. Delle "sue" mani, perché tutte le strade bianche che partono anche dagli altri paesi conducono direttamente nel suo cuore. […]
"IL PAESE AL DI LÀ DEI PINI
Abbracciato dalle verdi mani dei pini / bianco, impolverato villaggio, / semiaddormentato villaggio / come uccello nel nido sicuro di mani. // Mi fermo tra gli olezzanti pini: / Non è questo, l’abbraccio delle mie mani? / Un gran abbraccio, una grande volta / per un gruppo così piccino di figli. / Dietro la cinta della chiesa è sepolto / qualcuno. Sulla tomba fiorisce la rosa canina. / Dai bianchi villaggi bianche strade – / e tutte le strade dentro il mio cuore."
Leggendo le liriche di Kosovel si è testimoni di quella sua persuasione, che la realtà futura annullerà, che in compagnia degli odorosi pini e del suolo pietroso tutto è bello e giusto se si è giovani e sani e aperti ala vita.
Oppure ci si trova assorti dinanzi al chiarore lunare che inonda le foglie del pioppo mentre bisbigliano intrattenendosi con qualcuno che è al di là del mondo… Perciò non è affatto strano che il giovane, innamorato della sua terra, senta infondersi nel suo essere un mare di energia, oppure provi l’impulso di inginocchiarsi davanti all’infuocata dell’astro solare, andando poi per il Carso come un re, pieno di nuova vitalità. E così, dice, anche la nostra terra, cari fratelli, se spronata da una giovane energia, potrebbe elevarsi verso il sole.
Questa disposizione resterà sempre, come il colore fondamentale in un marmo pregiato, nella lirica di Kosovel, seppure differenti influssi verranno a sovrapporsi o a tramutarne l’essenza.
Uno dei primi motivi che viene a modificare l’interpretazione del paesaggio e dell’abitato, sono le considerazioni di contenuto sociale. Sono pertanto oltremodo efficaci quelle composizioni in cui l’elemento naturale è strettamente legato alla fatica, alla povertà, al muto e preoccupato raduno della famiglia vicino al fuoco. Eloquente è, in questi quadretti, la bora che con le sue zampate furiose e con i suoi ululati trasforma l’attitudine iniziale di un canto e ne sottolinea il contenuto discordante. Spesso il vento tiene tutti svegli e li costringe a discorrere di "tutto ciò ch’è insolito e terribile" per poi in fondo far desiderare di "poter volarsene via con la bora". […]
Certo, il più radicale turbamento che si riflette sui campi, sull’abitato e nell’animo della gente è quello venutosi a creare con l’avvento dell’autorità straniera, e, poi, con il manganellesco, volgare genocidio culturale imposto dal regime, degli autocarri di camicie nere scorrazzanti per i paesi carsici. E la lirica di Kosovel ne risente in maniera diversa per lo più in modo simbolico — sarà differente negli "Integrali" — sì da parlare direttamente al sentimento della sua gente.
Ciò vale, ad esempio, per la ballata di soli quattordici versi in cui la cesena, giunta in autunno sul Carso, e lasciata in pace dai cacciatori del luogo, viene colpita da un inseguitore straniero; il tutto non è detto direttamente, è sottinteso. Lo stesso vale per un’altra lirica dove c’è ancora la cesena e ci sono gli spari, ma dove il poeta chiude con una domanda retorica: Perché il pensiero si è soffermato sul Carso / in questa desolata stagione autunnale?"
Altre volte il simbolo è più palese. Per esempio, nei due canti in cui c’è il dialogo intimo con i pini; la ripetizione della "o" accentata di "bòr", il termine sloveno per pino, seguita "r" rende i versi di contenuto tragico anche onomatopeicamente cupi. […]
"Pini, pini in silenzioso orrore, / pini, pini in muto orrore, / pini, pini, pini, pini! […]
E gli alberi sono, nel muto orrore, sentinelle che sussurrano sulla landa petrosa, cosicché il poeta si domanda:
"O pini stanchi e sognanti, / stan forse morendo i miei fratelli, / o sta morendo mia madre, / o mi sta chiamando mio padre?"
In un’altra lirica invece gli alberi sono già personalizzati, sono i fratelli che cadono sotto la scure. A nulla serve che il poeta li scongiuri a rimanere e a crescere nella rivolta: cadono in silenzio, uno dopo l’altro. Forse è una forzatura vedere nella "scure nemica" quella raffigurata nel simbolo fascista, ma anche se il poeta non ci ha pensato di proposito, la realtà è quella, e la concordanza casuale ben appropriata.»
Non solo è una forzatura: non è neanche un bel gesto di onestà intellettuale quello di voler dire cosa un poeta intendeva con una certa immagine, anche se non lo intendeva. E quanto al randello, al genocidio culturale, ai pini che cadono in silenzio come esseri umani, quella terra ha visto un’altra tragedia, ben più grave e storicamente documentata, nonostante decenni di congiura del silenzio: l’uccisione sommaria e l’infoibamento di migliaia di Italiani, colpevoli solo di essere tali, e la cacciata di quasi tutti gli altri — qualcosa come 300.000 persone – dalle terre che abitavano, con dignità e laboriosità, da innumerevoli generazioni. A ciò si aggiunge il massacro, nel 1945, di migliaia di sloveni non comunisti da parte delle forze partigiane di Tito: fatti che Boris Pahor ha denunciato apertamente, vedendosi perfino proibito l’ingresso in Jugoslavia, e che, forse, avrebbero potuto renderlo più cauto nell’impostare la questione del nazionalismo di Kosovel.
Un vero poeta, comunque, non è quasi mai tale nell’espressione del sentimento nazionalista, che è, pur sempre, per quanto legittimo, un momento "politico" e, dunque, estrinseco al senso ultimo della poesia in quanto tale. Nemmeno Dante è sempre un poeta veramente grande, quando si abbandona alle elucubrazioni sull’Aquila imperiale o quando profetizza il Veltro; figuriamoci quelli che Dante non sono. Certo, abbiamo la grande poesia di un Petöfi, di un Mickiewicz, di uno Slowacki: ma essa è tale non quando si abbandona esclusivamente sul versante politico, bensì quando — come avviene nel poema «Anhelli» di Slowacki, per esempio — trascende e trasfigura il momento politico e sociale nelle superiori istanze dell’umanità in quanto tale: che sono etiche e spirituali.
Se, dunque, vogliamo cercare la vera poesia in questo giovanissimo figlio della terra carsica, del quale si potrebbe dire, come di Eminescu, che stato il poeta della foresta e della polla, dobbiamo fermare la nostra attenzione là dove, un po’ come in Pascoli, risuonano più immediati e sorgivi gli accenti della natura stessa, coi suoi boschi nereggianti di pini profumati di resina e con le sue bianche, aride rocce che nascondono profonde voragini e misteriosi inghiottitoi, e coi suoi piccoli, minuscoli paesi raccolti intorno alla chiesa cattolica che, nelle forme svelte del campanile e della facciata, rivelano l’inconfondibile impronta della secolare presenza austriaca. Kosovel, allora, ci si rivelerà non come un banale poeta bucolico, senza problema e senza aggancio con la storia, ma come un uomo del suo tempo, che ha sentito e vissuto fortemente le passioni del suo tempo, e, soprattutto, che ha sentito di rappresentare, per la sua terra e per la sua gente, l’inizio di qualcosa di nuovo: d’una nuova stagione della vita e di rinnovate, più alte speranze per il futuro.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels