
Panegirico di San Tommaso d’Aquino
29 Luglio 2015
Le tre forme della metafisica classica: dell’Uno, dell’Essere e della Persona
29 Luglio 2015Può l’albero buono dare frutti cattivi? Come può essere accaduto che un vero e grande filosofo, come Sören Kierkegaard, abbia dato inizio ad un indirizzo filosofico sempre più fumoso e inconcludente, sempre più velleitario e pretenzioso, a un’autentica moda e a un costume degenerato, fatto di pose e di atteggiamenti esteriori, che è stato, per parecchi anni, un modello negativo cui ha attinto, purtroppo, una intera generazione di giovani intellettuali o, se si preferisce, di giovani animati da confuse ambizioni cultuali, ma, in fondo, terribilmente a corto di autentica motivazione filosofica, di autentica passione per la ricerca del vero
Adesso che la grande ubriacatura è passata e che perfino i postumi della sbornia sono stati metabolizzati, riesce difficile credere, a quanti non hanno vissuto quella stagione, fino a che punto l’esistenzialismo dei cattivi maestri, Heidegger e soprattutto Sartre, abbia esercitato una torbida seduzione sulla cultura europea per almeno un paio di decenni, usurpando addirittura, per un momento, la qualifica di "filosofia", grazie a pose e ad ostentazioni nichiliste e vagamente ribellistiche, genericamente antiborghesi, permeate di sufficienza e di autoreferenzialità, e inducendo migliaia di studenti a sprecare la loro intelligenza nell’inseguimento di un mito di cartapesta, ancor più fragile e inconsistente, se possibile, dell’altro grande mito del Novecento, parimenti seduttore della gioventù: il marxismo.
Gli esistenzialisti che, dal centro dell’infezione, Parigi e il Quartiere Latino, hanno contagiato l’Europa tra la fine della seconda guerra mondiale e il Sessantotto, altro non sono stati che la replica, ma sempre più stanca ed esangue, della figura del "philosophe" illuminista, del parolaio tuttologo e petulante, tanto più sfiduciati e negativi, quanto i "philosophes" erano ottimisti e battaglieri, simili a loro, però, quanto a presunzione intellettuale e a smaccato narcisismo, e quasi identici in fatto di intolleranza verso il pensiero diverso dal loro e verso tutti ciò che si può ricondurre al concetto di tradizione. L’esistenzialismo parigino è il frutto malato di una civiltà esangue e isterilita, piena di complessi e di rimorsi, tormentata dalla cattiva coscienza di se stessa, troppo fiacca per pensare veramente il nuovo e troppo vile per riconoscere il proprio debito con il passato; è la manifestazione banale di un pensiero che vorrebbe essere anticonformista e che instaura un nuovo conformismo; in breve: l’espressione codificata e politicamente corretta dell’individualismo di massa, proprio dell’urbanesimo malato dell’Occidente.
Il padre nobile dell’esistenzialismo è Kierkegaard: ma quale incommensurabile distanza, quale incolmabile abisso fra il nobile maestro solitario, incompreso dai contemporanei nella sua vertiginosa grandezza, ignorato dai professori e dal pubblico, snobbato dalle grandi agenzie culturali, e codesti suoi nipotini in sedicesimo, chiacchieroni e ciarlatani, venditori di fumo all’ingrosso, solidali nelle loro consorterie e lobbies e cricche e conventicole, schierati tutti insieme appassionatamente contro l’establishment borghese, ben decisi ad "épater les bourgeois" e a contestare, sbeffeggiare, denigrare tutto ciò che ha a che fare con la serietà della vita, del lavoro, della famiglia, della patria, del sentimento religioso. Figli di papà che si annoiano e che non sanno fare niente, che non hanno alcuna voglia di lavorare (nel senso più ampio della parola), ma che, in compenso, vogliono vivere sparando a zero su tutto e su tutti, vomitando il loro senso di nausea verso la vita, verso il mondo, verso il futuro, il loro disgusto per gli altri (che sono l’inferno, come dice Sartre), per la società, per la cultura, per i genitori, per il matrimonio.
In loro si riuniscono e si fondono tutti i detriti, tutti i liquami, tutte le pietre di scarto delle avanguardie, del surrealismo, dell’anarchismo a un tanto il chilo (perché il vero anarchismo è una cosa sbagliata, ma seria), del vitalismo, del superomismo, del decadentismo, del teatro del’assurdo, del decostruttivismo, mescolando insieme Nietzsche e Derrida, Camus e Breton, il tutto in nome di una rivolta contro il pensiero tradizionale che si riduce a una rivolta contro il pensiero e basta, in un deserto speculativo e concettuale, in un vortice caleidoscopico di cose incompatibili, in un guazzabuglio dove tutto diventa giusti e vero, purché si dica o si faccia in nome dell’esistenza, della vita, del singolo individuo e in odio all’universale, al pensare per concetti, al formulare ipotesi sensate e al tirare conclusioni di qualunque sorta.
Proibito concludere, proibito generalizzare, proibito pensare! Non bisogna pensare, ma vivere; se i marxisti volevano cambiare il mondo, gli esistenzialisti volevano vivere la propria vita e negare qualunque valore, qualunque realtà all’infuori di essa; novelli gnostici, avevano orrore di tutto ciò che non è immediato, concreto, esperibile sui due piedi, di tutto ciò che è universale e necessario, di tutto ciò che è trascendenza e progettualità; odiavano la libertà che ci rivela la nostra schiavitù, ma anche la schiavitù dell’esistenza che ci nega la libertà; denigravano il passato e il futuro in nome del presente, ma intanto lo sprecavano guardandosi allo specchio e girandosi i pollici nell’impotenza eretta a vanto e a giustificazione di se stessa; denigravano la maledizione di dover vivere, ma intanto affermavano che niente è degno di essere preso in considerazione all’infuori dell’esistenza; e qualificavano come un tradimento verso la vita qualunque tentativo di dare a quest’ultima un ordine, un significato, una meta, un valore.
Infaticabili giullari, stakanovisti del nulla eretto a sistema, indossando impermeabili sgualciti e stringendo mozziconi di sigaretta fra le labbra, seducevano folle di romantiche giovinette: erano l’incrocio bastardo fra il dandismo alla Lord Byron e la schopenhaueriana negazione della volontà di vivere, da cui si ripromettevano, in virtù di chissà quali incomprensibili alchimie, la rivelazione del senso vero dell’essere, l’epifania di chissà quali arcane rivelazioni: pere metà poeti maledetti alla Rimbaud o alla Verlaine, e per metà romantici da strapazzo alla Prévert, con le sue poesia da Baci Perugina, ma con qualche spruzzata alla maniera del giovane Werther di Goethe, comprese le incoercibili tendenze suicide e con la pretesa d’essere troppo profondi perché i mediocri filistei li possano mai capire ed apprezzare. Con le avanguardie novecentesche condividevano la strana convinzione che lasciarsi comprendere dalla massa sia un segno di pochezza e di banalità e che la cosa migliore che un intellettuale possa fare è quella di scandalizzare, o di pontificare sul niente, in breve di lasciarsi mantenere dall’odiata società senza dover mai lavorare, o voler bene a qualcuno o a qualcosa, o preoccuparsi minimamente di coloro che verranno.
Ha scritto il filosofo Remo Cantoni nel suo saggio «Kierkegaard e la vita etica» (prefazione a: Sören Kierkegaard, «Aut-aut»; traduzione dal danese di K. M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Milano, Mondadori, 1956, 1975, pp. 26-28):
«L’esistenzialismo è un movimento culturale importantissimo, che fa sentire la sua azione non solo in seno alla teologia e alla filosofia, ma in tutti quanti i campi in cui l’attività umana diviene a se stessa problema. Nel secolo della macchina e della statalizzazione, della guerra e dell’economia, dell’obiettivazione e della socializzazione, questo richiamo all’intimità e alla solitudine dell’io, questo appello alla personalità e alla religione, non poteva non trovare aperti e pronti i cuoi degli uomini. L’esperienza tragica delle guerre mondiali e delle spietate lotte tra le divergenti ideologie, le diverse classi, i diversi interessi, il fenomeno atroce della predicazione dell’odio e del fanatismo, — la più tremenda cancrena del nostro secolo — che rischia di lacerare per molto tempo il tessuto prezioso della solidarietà umana, portano a prendere di petto proprio quella filosofia che ha proclamato la razionalità e la provvidenzialità della storia, l’obiettivazione in essa dello spirito e dei valori, quella filosofia che ha sommerso la personalità nel mare della vita storica, distraendo il proprio sguardo dall’uomo singolo, dai suoi problemi e dal suo destino. Questo serve a spiegare il successo dell’esistenzialismo e l’odierna "Kierkegaard Renaissance". Naturalmente questa motivazione culturale non è ancora una motivazione teoretica. La trama storico-psico-sociologica non coincide con la trama delle idee, che ha una logica infinitamente più pura e un movimento infinitamente più razionale, però una CULTURA è sempre la risultante dell’intreccio delle due trame, e la loro separazione pota, da una parte, al pericolo di un mondo cieco e arbitrario, dall’altra al pericolo di un mondo vuoto e formalistico.
Uno dei compiti della nostra cultura, nei confronti della nostra cultura, è quello di non accettarlo acriticamente, in un”adeguazione massiccia ai suoi metodi, alle sue istanze, al suo fascino. Nell’introduzione a una edizione tedesca dell’"Enten-Eller", scritta da un noto esistenzialista, ho visto così caratterizzato il FILOSOFO ESISTENZIALE e il suo COMPITO EPOCALE: "Il suo tema non è il conoscere, ma l’esistenza. Le sue intenzioni intellettuali non sono la priva e la convinzione, ma la suggestione e la seduzione per ottenere una nuova legge, una nuova regola dell’esistenza e del pensiero. La meta del suo entusiasmo o del suo rapimento non è un assoluto ipertemporale, ma la immediata concreta epoca."Quando la filosofia vuol agore con la SEDUZIONE e la SUGGESTIONE e si abbandona al RAPIMENTO e all’ENTUSIASMO, il filosofo scende al livello del taumaturgo e dell’ipnotizzatore e tutti sanno quanta ciarlataneria e quanto istrionismo son necessari per quel mestiere. Coloro che abbandonano la via della ragione per ascoltare i richiami di un seducente quanto ambiguo irrazionale, sono i diffusori pericolosi dei germi dell’arbitrio, che suol degenerare in incontrollata autorità e in spietata violenza. Ove infatti venga meno l’organo del giudizio e della misura, quale sarà il criterio per accertare e valutare fatti e idee?
Non tutto è riducibile a ragione nel mondo ed esiste anche un tipo di conoscenza intuizione o percezione emozionale, specialmente per quanto riguarda i cosidetti valori, ma i dati emozionali devono essere sempre integrati, sorretti, illuminati dall’attività razionale che essi integrano, sorreggono e illuminano a loro volta.
Kierkegaard non va certo confuso coi rimestatori dei bassi fondi psichici e coi misologi che finiscono col non capire più né sé né gli altri. Vi è in lui una forza e una conseguenza di razionalità eccezionali. La familiarità col pensiero hegeliano e coi metodi del pensare scientifico si avverte in ogni sua pagina. Pure, da lui ha preso le mosse quel filosofare che s’incentra intorno a concetti ambigui, che non sono concetti, come la disperazione, la paura, l’angoscia, la preoccupazione, la frattura, la situazione, l’incarnazione, ecc. Sotto questi concetti emozionali vive la formidabile e veramente tragica esperienza religiosa di Kierkegaard, che, essendo assolutamente spontanea e originale, sente il bisogno legittimo di crearsi un nuovo linguaggio. Ma veder questo medesimo linguaggio divenir cifra e "cliché", sotto la penna di pacifici professori universitari, che non hanno mai conosciuto niente di tragico nella loro vita, e scrivono come degli invasati dal nume, è veramente uno spettacolo comico.
Per tutte le ragioni che abbiamo rilevato, riteniamo che il Kierkegaard di "Aut-Aut", sia il Kierkegaard più vicino agli spiriti e ai caratteri della nostra cultura e della nostra tradizione. In "Aut-Aut" lo stacco qualitativo tra umano e divino non è ancora definitivo. L’ispirazione è già religiosa e più volte vien ripetuto il severo giudizio che CONTRO DIO ABBIAMO SEMPRE TORTO, ma questo pensiero nell’Aut-Aut" è stimolo e sprone all’azione. E i versetti di preghiera dell’apostolo Luca, che terminano appunto colle parole CONTRO DIO ABBIAMO SEMPRE TORTO, hanno in sé, secondo Kierkegaard, qualcosa di EDIFICANTE, di sicuro e di giocando per l’anima che non vuol mai aver ragione di fronte all’oggetto del suo infinito amore. Nell’"Aut-Aut" sono contenuti già i motivi fecondi della critica all’idealismo in nome della personalità, della critica all’intellettualismo in nome della soggettività come unione di amore e conoscenza; ma il mondo e l’uomo non sono ancora recisi da Dio, e l’uomo, nell’attuare l’universale, integra in sé, dal basso,quel finito e quell’individuale senza cui non può vivere, e dall’alto, realizza quella personalità che, mentre è concretezza, è anche un valore eterno e religioso.»
Kierkegaard, dunque, ha intrapreso un nuovo modo di fare filosofia, tornando dall’universale al particolare, dalla storia all’individuo, ma sena allontanarsi dal solco della traduzione speculativa europea, che è razionale: egli vi ha aggiunto qualcosa, la potenza dell’intuizione e la suggestione della poesia (alcune pagine del filosofo danese sono poesia pura), non vi ha tolto nulla, se non quanto, in Hegel e nell’idealismo, era divenuto inutile zavorra e pretenziosa sentenziosità professorale. Come tutti coloro i quali aprono vie nuove, pagando di persona i loro sforzi sovrumani per spingersi fino in vista dell’altro orizzonte, è caduto talvolta in qualche eccesso, in qualche forzatura, in qualche ripetizione: ma la sostanza del suo pensiero è valida, di una validità che non teme l’usura del tempo, perché appartiene all’eterno.
I suoi banali e meschini epigoni, che della sua rivoluzione filosofica hanno orecchiato soltanto le parole d’ordine esteriori, un po’ come è accaduto a Nietzsche; hanno ripreso, sviluppato ed esasperato proprio ciò che, nel pensiero dell’iniziatore, era l’aspetto più caduco e contingente, il meno essenziale: una certa critica, talvolta insistita e compiaciuta, del perbenismo borghese (cioè al cristianesimo dei benpensanti); una certa ebbrezza romantica di sentirsi il solo puro in un mondo di filistei, il solo idealista in lotta contro gli interessati; una certa quale esasperazione, di matrice quasi gnostica, del contrasto fra i diritti terreni e quelli divini, che apre una voragine talmente abissale fra l’uomo e Dio, da rendere poi impossibile, se non a Dio solo, di tornare in soccorso dell’uomo, lasciando quest’ultimo in una condizione oggettiva di radicale impotenza e di estrema inadeguatezza, tale da rendere problematico il momento della libera scelta. Perché, se è vero, verissimo, che l’uomo, contro Dio, ha sempre torto, è pure altrettanto vero che Dio non vuole togliere all’uomo la fierezza e la bellezza di decidersi liberamente per Lui, permettendogli di venire incontro a Lui e fornendogli i mezzi per essere qualcosa, e non un nulla, al Suo cospetto; senza di che anche la scelta dell’uomo per Dio perderebbe di valore e di significato.
Ma Kierkegaard, da buon luterano, non poteva superare un tale scoglio: non poteva scorgere sino in fondo il senso dello splendido mistero per cui Dio, che è tutto, vuole attrarre a sé liberamente l’uomo, che non è un niente, ma è qualcosa, perché fatto a Sua immagine. Se lo avesse compreso, non sarebbe più stato un pensatore protestante, ma un teologo cattolico. Ecco, forse è da quel cupo senso di nullità e impotenza dell’uomo davanti a Dio, che è di matrice tipicamente luterana (e, più ancora, calvinista), che i tardi epigoni di Kierkegaard, i ciarlieri esistenzialisti parigini della "rive gauche", i figli di papà che scimmiottano Sartre stringendo la sigaretta fra le labbra, hanno ereditato il loro sepolcrale pessimismo, il loro cadaverico nichilismo, nei confronti della vita: di quella esistenza che pongono al centro di tutto, ma di cui, in fondo, hanno paura; che dicono di amare, ma che, in effetti, temono e odiano; di quel mondo in cui vorrebbero vedere il riflesso dell’Essere, ma che, a loro, non mostra altro volto che il Nulla.
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