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Nel risveglio cristiano della «Torre» una risposta popolare all’irruzione della modernità

Fra il 1913 e il 1914, l’antivigilia della prima guerra mondiale, fu pubblicata, a Siena, una rivista letteraria dichiaratamente cattolica, anzi, di un cattolicesimo tanto acceso quanto tradizionalista e intransigente: ad animarla erano due scrittori di gran classe, Federigo Tozzi e Domenico Giuliotti, che presero a polemizzare immediatamente con quasi tutta la cultura "laica" del momento, dal futurismo di Marinetti alla rivista di Papini e Soffici, «Lacerba», confuso concentrato di anarchismo e superomismo.

«La Torre» ebbe vita breve e i suoi due fondatori si distinsero in seguito come due delle più interessanti figure "atipiche", non inquadrate e non allineate, dell’intero panorama letterario italiano fra le due guerre. Tozzi, come è noto, si rivelerà, con i suoi romanzi «Con gli occhi chiusi», «Tre croci» e «Il podere», uno dei più potenti narratori della prima metà del Novecento, di una potenza drammatica non inferiore a quella del Verga, ma con le sottili inquietudini e la cronica "inettitudine" dei personaggi che richiamano, almeno per taluni aspetti, l’opera di Svevo, oltre che quella di Pirandello. Se nella cultura scolastica e nella percezione del pubblico italiano non gli viene riconosciuto il posto che meriterebbe, vale a dire uno dei maggiori (non certo inferiore, tanto per fare un nome, a quello del tanto decantato Gadda, semmai superiore), ciò si deve al peso tenace di un certo pregiudizio ideologico anti-cattolico e anti-"moderato" che, fondato sull’egemonia culturale marxista imperante dopo la seconda guerra mondiale, spesso sulla punta degli inappellabili giudizi estetici di Gramsci (così come, nei decenni precedenti, la cultura di segno liberale era stata dominata dagli altrettanto implacabili giudizi del Croce), ciò si deve unicamente alla pavidità e alla inconsistenza dei cosiddetti intellettuali d’oggi, brutta copia degli uomini di cultura d’un tempo: gente piccola, abituata a cavalcare sempre il cavallo vincente.

Quanto a Giuliotti, il trattamento che gli è stato riservato è stato ancor più duro e ingiusto: tutta la sua opera è stata praticamente passata sotto silenzio nei salotti buoni dell’establishment culturale nostrano, cosicché la sua figura rimane semplicemente sconosciuta a quasi tutti gli studenti, anche universitari: e se ne comprende facilmente il motivo. Se i romanzi di Tozzi, per quella loro aspra, desolata vena di realismo, può prestarsi in qualche modo (si capisce, più o meno esplicitamente in mala fede) a una operazione di recupero in senso neo-realista e cripto-marxista, se non altro in chiave di supposta denuncia anti-borghese (il che sarebbe tanto plausibile quanto il vedere in «Rosso Malpelo», poniamo, una "denuncia" dello sfruttamento capitalistico), per i libri di Giuliotti una tale operazione di revisione e addomesticamento si presenta come puramente impossibile, tale è la coraggiosa veemenza e la cristallina intransigenza religiosa dell’autore de «L’ora di Barabba», che si sentiva una specie di "lupo cristiano", come lo era stato, secondo lui, Jacopone da Todi, personaggio e scrittore che tanto ammirava.

Insomma: se era possibile far passate il povero Tozzi per un verista, a dispetto delle sue evidenti affinità con Dostoevskij e persino con Kafka, e mettere tra parentesi la sua profonda fede religiosa e le sue radicate convinzioni nazionaliste e conservatrici, nulla del genere si poteva anche solo tentare con Giuliotti: più semplice, dunque, metterlo semplicemente da parte, riporlo nel cassettone delle cose vecchie che si finisce per dimenticare; e così è stato, non solo per Giuliotti, ma per tutto il movimento neocattolico italiano e toscano, sviluppatosi negli anni Venti e Trenta.

Perfino i maggiori, Prezzolini e Papini, sono stati messi nel Limbo di quegli autori dei quali non si sa bene cosa fare, perché la loro sola presenza risulta imbarazzante, o magari semplicemente incomprensibile, ai critici e agli storici della letteratura: non rientrano negli schemi, non si lasciano catalogare ed etichettare, recalcitrano fastidiosamente ad ogni sforzo per mettere loro la briglia, per arruolarli nelle file di ciò che è "politicamente corretto". Non parliamo poi di Nicola Lisi, un grande scrittore oggi ingiustamente obliato (il suo «Diario di un parroco di campagna» potrebbe reggere, per certi versi, al paragone con il capolavoro di Bernanos), o di Nino Salvaneschi (il cui nome p oggi pressoché impronunciabile fra i signori accademici), o di Piero Bargellini, che fu anche uomo politico, che i Fiorentini ancora ricordano come "il sindaco dell’alluvione", ma che la critica letteraria ha posto nel dimenticatoio; o il delicato e umanissimo Bruno Cicognani, del pari rimosso; per giungere al più grande di tutti, Riccardo Bacchelli, il cui capolavoro, «Il mulino del Po», prosegue il solco della grande tradizione manzoniana e riprende (con le debite differenze) la concezione dell’uomo, fra epica e dolente, che anima «I promessi sposi».

Eppure di tutti questi scrittori, e di altri ancora, anche più recenti, come Mario Pomilio o Eugenio Corti, ben poco si parla nelle aule scolastiche e universitarie, ben poco si scrive su giornali e riviste, ben poco si discute nella repubblica delle lettere, dopo che, per decenni, ci è stata rintronata la testa con i sedicenti "capolavori" di Moravia e della Morante; Pasolini è stato accolto, almeno parzialmente, nel Pantheon, perché, nel suo dichiarato catto-comunismo («sto con Cristo perché insegna l’amore e con Marx perché da lui viene la giustizia», diceva), ovviamente si è fatto leva sul secondo aspetto, e non del tutto a torto, visto che il Cristo del suo tanto decantato «Vangelo secondo Matteo» (decantato perfino ai vertici della Chiesa odierna) è figura pochissimo cristiana e, semmai, alquanto marxista.

Ma adesso torniamo alla «Torre» ed alla sua breve, interessante stagione. Lo storico della letteratura e insigne dantista Giorgio Petrocchi così ha ricordato la rivista senese e i suoi due grandi animatori, Tozzi e Giuliotti, nel contesto della cultura toscana e italiana nei primi anni del Novecento (da: G. Petrocchi, «Segnali e messaggi», Milano, Rusconi, 1981, pp. 45-48):

«L’impossibilità di poter conoscere nella loro interezza i pochi fascicoli della "Torre", la rivista fondata e diretta da Federigo Tozzi e da Domenico Giuliotti tra 1913 e 1914, a Siena, l’"organo della reazione spirituale italiana", come reca il sottotitolo della rivista, ha finora impedito un’adeguata conoscenza della formazione giovanile dei due scrittori, l’uno destinato a rappresentare, in un momento successivo, l’emblema della crisi morale e sociale del primo dopoguerra, il secondo, Giuliotti, tra i più pugnaci e originali scrittori cattolici della generazione di Papini, e anzi d’una lunga stagione letteraria che annovera anche negli anni del "Frontespizio" la presenza singolarissima dei "Pensieri d’un malpensante" e dell’"Ora di Barabba". […]

Dalla rilettura della "Torre" emerge sostanzialmente l’esistenza, pugnace e persino intransigente, d’una stagione letteraria d’ispirazione cristiana ancora informe, più d’intenti che di vere e proprie realtà culturali, più di colleriche ripulse (contro l’Italia giolittiana, contro il connubio del patto Gentiloni, contro la massoneria, il futurismo, il socialismo) che di meditata elaborazione d’un nuovo modo d’intendere e di esprimere la società provinciale e contadina del primo ventennio del secolo. L’oltranzismo torriano contro la Democrazia cristiana altrettanto come contro i liberali e i socialisti non si configura tuttavia in un’alcuna forma d’intolleranza politica di tipo nazionalista (e, dunque, pre-fascista), meno che mai dannunziana, anche se "La Torre", per mano di Tozzi, tenta d’insinuare la presenza di "elementi cattolici deformati, quasi invisibili, trascurati, ma sufficientemente poderosi da animare le figurazioni pagane delle "Laudi" di D’Annunzio.

L’asprezza maggiore della polemica della "Torre" è nella direzione di "Lacerba", del futurismo, di Paini, il quale non si farà pregare due volte per aggredire "La Torre" nell’articolo "Cattolici belve": "Sono intransigenti a discorsi, aggressivi più che non comporti la loro fede. In generale sono antichi miscredenti che hanno inciampato in qualche sasso sulla via di Damasco e, come tutti i neofiti, si sono buttati subito alle peggiori estremità. A sentirli accettano tutto, il papa imperatore, infallibile, padrone del cielo e della terra, dei soldi e delle anime. Fanno i reazionari servendosi della libertà. Combattono l’oscenità con il turpiloquio. Predicano l’amore con la bava dell’odio". Naturalmente Giuliotti non restava zitto,, rincarando la dose contro l’immoralità di "Lacerba", contro Marinetti, contro l’"Eroica" di Cozzani, contro la fiorentina "La Forca", e contro Papini, contrassegnando così il suggestivo primo momento di una storia d’uomini che saranno destinati a incontrarsi (Paini darà molto peso all’amicizia con Giuliotti nella vicenda della propria conversione), persino a scrivere un libro assieme, il "Dizionario dell’Omo salvatico", a procedere appaiati nella loro stagione matura.

Che a Siena nascesse questo movimento della "Torre", fomentato da interessi religiosi, è elemento anche troppo evidente; ma è altrettanto interessante osservare che il momento torriano si pone come antefatto di quella rinascita d’una civiltà contadina, fedele alle tradizioni del popolo italiano (anche a quelle colte; onde il continuo richiamo a Dante, a Petrarca), insofferente dei maneggi e dei compromessi politici delle città, radicata in costumanze intensamente sentite; motivo per il quale "La Torre" è persino un prodromo del "Selvaggio" di Maccari e della polemica di Strapaese. E i pochi fascicoli della "Torre" restano significativi anche per la qualità d’alcune pagine di prosa, a cagione della loro scrittura densa, grumosa, satura di toscanismi, erompente da un fondo gergale e vernacolare molto schietto e sapido, destinato ad andar molto oltre i pochi mesi della rivista, e a consolidarsi nelle pagine più significative di "Tizzi e fiamme", di "Polvere dell’esilio", del "Merlo sulla forca" di Giuliotti, il solo, in fondo, dopo la diaspora (beninteso assai più produttiva sul terreno del romanzo) di Federigo Tozzi, e l’attività, assai fine e polita (le "Novelle selvagge", "Il libro dell’amore") di Ferdinando Paolieri, ma ferma ad una "toscanità" lieve e calligrafica. Al contrario, Giuliotti proseguirà nella sua strada, con le correzioni e gli addolcimenti imposti dall’evolversi della sua personalità come anche dal mutare della situazione politico-sociale dei cattolici nel dopoguerra…»

Insomma, «La Torre» era una rivista che diceva pane al pane e vino al vino: un modo di procedere oggi quasi impensabile, tanto si è radicata, specialmente in ambito cattolico, la preoccupazione di apparire "aperti" e "moderni", dialoganti con "il mondo", solleciti di tutto ciò che unisce — anche a costo di molte ambiguità, compromessi e cedimenti — e avversi a tutto ciò che divide: anche se, talvolta, la parola forte, che colpisce il bersaglio, serve non tanto a "dividere", ma a fare chiarezza, sgombrando il campo da insulse commistioni e forzando ciascuno ad assumersi la responsabilità delle proprie idee, dovesse anche ciò costare — "horribile dictu"! -, non diciamo qualche cattedra o qualche pubblicazione, ma anche soltanto il vedere diradare gli inviti ai salotti televisivi dove si può sproloquiare a piacere di tutto e del contrario di tutto senza mai venire al dunque e senza mettere in tavola le proprie carte.

Quanti studenti italiani, per esempio, dopo aver sentito parlare fino alla noia del «Manifesto del futurismo» di Marinetti, del 1909, sanno che cinque anni dopo, nel 1904, era stato pubblicato un altro manifesto non meno radicale e provocatorio, ma con ben più salde e antiche radici culturali, intellettuali e spirituali, il «Manifesto medievalista» di padre gemelli, che esordiva così: «Noi ci sentiamo profondamente lontani, nemici anzi della cosiddetta cultura moderna, così povera di contenuto, così scintillante di false ricchezze tutte esteriori, sia che essa si pavoneggi nelle prolusioni universitarie o che filantropica scenda nelle università popolari a spezzare agli umili il pane della scienza moderna».

Ebbene anche «La Torre» non duellava di fioretto, ma brandiva la scimitarra e non risparmiava i colpi a nessuno, convinti comperano, i suoi animatori e redattori, che non vi fosse più spazio per le acrobazie diplomatiche e per le esercitazioni retoriche; che il momento fosse estremamente grave, e che la posta in gioco fosse il futuro della civiltà cristiana d’Italia e d’Europa; che ombre oscure s’andavano addensando sul mondo — stava per scoppiare, infatti, la più grande tragedia della storia moderna, l’inizio della guerra civile europea, destinata a infuriare per decenni e ad annichilire secoli e millenni di civiltà e di cultura, facendo trionfare la barbarie più inumana e sanguinosa. Erano forse immotivate o esagerate, le preoccupazioni di uomini come Tozzi e Giuliotti? Erano essi, forse, dei visionari, dei nevrotici, dei farneticanti, oppure erano lucidi profeti d’una profezia, ahinoi, sin troppo facile, davanti all’orrore che stava per dilagare? Era forse incongruo il loro grido d’allarme?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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