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L’unica rivoluzione possibile e necessaria è la rivoluzione interiore

Da quando l’Illuminismo ha posto all’ordine del giorno il "diritto" alla felicità, non è cessata l’opera nefasta di obnubilamento delle coscienze e di radicale stravolgimento della ragionevolezza (oh, ma sempre in nome della ragione, ben s’intende!), nonché del puro e semplice buon senso, ridotto, quest’ultimo — specialmente nella fase marxista e contestatrice di quella corrente di pensiero che da Rousseau porta a Marcuse, passando per Majakovskij, André Breton e Wilhelm Reich, fra i tanti altri — alla misura d’un bieco e meschino spirito borghese, anzi, piccolo-borghese (ove quel "piccolo" lo rende ancora più spregevole).

Da allora, sia in chiave individualistica – che da Locke ad Adam Smith, a Bentham, arriva fino a Nietzsche, a Stirner, a Sartre -, sia in chiave statalista o collettivista — che da Hegel e Marx giunge a Lenin, Stalin, Hitler, Mao, Che Guevara — tutti fanno un gran parlare della felicità, del raggiungimento della felicità, del diritto inalienabile alla felicità, e si sforzano di cercare e consegnare alla perpetua infamia il responsabile, o i responsabili, del suo eterno differimento, della sua perenne elusività: trovandolo, di volta in volta, nella Chiesa cattolica, nell’aristocrazia, nella borghesia (come volevasi dimostrare), nei conservatori, nei reazionari, nei nemici del progresso, nelle quinte colonne del nemico di classe, di religione, di razza, nel capitalismo e nel comunismo, negli agenti della cospirazione mondiale, nel sionismo e nella Massoneria.

La società europea, nel frattempo, si è radicalmente laicizzata e secolarizzata; credere in qualcosa di diverso o di superiore all’uomo, è diventato poco meno che un crimine, quando non una forma di demenza senile; "fare la rivoluzione" è stata, per decenni, la parola d’ordine della nostra gioventù, dando per scontato che, una volta fatta, insieme alla libertà e alla giustizia sociale avrebbe trionfato, una buona volta, anche la felicità, come profetizzato da tutta quella folta schiera di pensatori, ideologi e agitatori politici che sopra abbiamo ricordato.

Se la felicità non si era ancora realizzata, dunque, né nella vita dei singoli, né in quella dei popoli, ciò era dovuto unicamente alle ultime, feroci resistenze del capitale, dell’egoismo di classe, del dominio della finanza internazionale: mescolando qualche grano di verità al profluvio di sciocchezze, luoghi comuni e formule scaramantiche che si voleva contrabbandare per ragionamenti politici, economici, sociali, mentre non erano che slogan di consumo per il nuovo soggetto della società moderna: l’individualista di massa che vive immerso nel più rigoroso conformismo (o nel più rigoroso anticonformismo, se si preferisce, però non meno standardizzato e canonizzato del suo preteso nemico), ma non vuole saperlo, non vuole aprire gli occhi, desidera soltanto auto-convincersi di essere dalla parte "giusta" della barricata e di trovarsi nobilmente impegnato in una battaglia di civiltà contro l’oscurantismo e per l’affermazione dei più alti valori umani.

Strano che nella cultura moderna, così piena di persone intelligenti, di intellettuali — come oggi si usa dire: brutto surrogato dell’antico concetto dell’uomo di cultura — nessuno, o pochissimi, abbiano fatto due più due: la felicità si allontana, mano a mano che ci si allontana da Dio: forse, dunque, varrebbe la pena di tornare al sentiero interrotto, di riprendere il cammino trascurato; di vedere se, per casso, recuperando la dimensione del sacro, tornado a cercare l’amicizia con Dio, non si recuperi, per caso, una parte almeno del proprio equilibrio interiore, non si ritrovi il gusto della vita, senza bisogno di dover ricorrere così spesso a psicanalisti, psichiatri, santoni e chiromanti, per dare un poco di sollievo alla depressione, all’angoscia, alla disperazione esistenziale.

Ma la dimensione del sacro, l’amicizia e la confidenza con Dio, non si ristabiliscono, se non si recupera il senso del mistero: che è, nello stesso tempo, senso del limite: il limite dell’umano, oltre il quale si apre l’infinità, la gratuità, la perfezione dell’Essere. Noi, infatti, abbiamo perduto il senso del mistero: lo scientismo, che ha preteso di abolirlo, o, quanto meno, di ridurlo alla misura di un innocuo ninnolo d’arredamento, di un banale santino da appendere al muro o da infilare tra le pagine d’un libro che non si apre quasi mai, non è stato, però, in grado di sostituirlo neppure alla lontana: siano rimasti soli con tutti i nostri dubbi, con tutta la nostra inquietudine, in compagnia di un progresso scientifico freddo, insensibile, e — sovente – disumano.

Scriveva il filosofo ed esoterista Massimo Scaligero nel suo libro «Rivoluzione. Discorso ai giovani» (Roma, Perseo, 1969, pp. 22-23; 29; 117):

«Quello che l’Occidente ha perduto è il senso del mistero. Ogni cosa, o ente, o evento, nella sua intima verità, è MISTERO, in quanto la sua essenza è indicibile, non può essere espressa se non nel linguaggio che essa stessa detta per sé. Questo linguaggio può essere veicolo verso l’indicibile, se verso di esso muove lo spirito stesso da cui emana. L’uomo di questo tempo non può più conoscere la verità, non perché la verità, o l’essenza, non sia conoscibile, ma perché egli pretende di ridurla al livello discorsivo, non elevarsi ad essa. Né verità, né libertà, né amore egli evita così ogni giorno di contraddire, o di tradire.

Soltanto la reintegrazione dello spirituale si può ravvisare come Rivoluzione. Ogni forma rivoluzionaria che contraddica tale reintegrazione non può che essere espressiva di impulsi morti del passato, tendenti ad affermarsi mediante finzione di rinnovamento esteriore. Quasi tutti gli attuali rivoluzionari sono in tal senso inconsapevoli conservatori. La vera impresa richiede la consacrazione della conoscenza, un SACRO AMORE che attinga consapevolmente alle forze basali della vita, là dove l’individuale affonda nel superindividuale e accoglie le idee viventi che trasformano la realtà umana. […]

I critici della civiltà, i filosofi del "rifiuto" o della protesta abbondano. Ma il superamento della tecnologia non è la critica, o il romantico rifiuto, del suo sistema formale, o l’incomposta distruzione dei suoi prodotti o delle sue compagini, bensì l’atto del pensiero che si rende indipendente da essa e usa di essa secondo la richiesta dello spirito. […]

Da questa corrente di vita [cioè dal pensiero puro, nel suo immediato darsi] può scaturire un pensiero nuovo, risolutore del male della dialettica: può scaturire il pensiero rivoluzionario. Il trapasso del pensiero alla propria corrente di vita è l’esperienza più alta dell’uomo, perché è la correlazione ritrovata: con l’essere, con la natura, con l’essenza, con l’altro,. La correlazione è stata perduta dall’uomo razionale: egli può ritrovarla ove redima la propria razionalità, non eludendola mediante ulteriori forme razionali, bensì possedendo il movimento grazie a cui essa è razionalità.

La correlazione ritrovata è l’amore: l’uomo può riconoscere per virtù ideale ciò che, unendo un essere all’altro nella profondità originaria del sentire e del volere, determina la loro storia e il loro destino. In tal senso la conoscenza diviene ispirazione dell’operare sociale. Solo un SACRO AMORE, riacceso dalla conoscenza, può restituire all’uomo l’elemento vivente della conoscenza: la verità della relazione con l’altro, con l’essere, con la vita.

La conoscenza diviene liberazione: a colui che consegue tale liberazione, o rivoluzione di sé, ogni essere rivela la causa originaria che lo porta sulla scena del mondo ad apparirgli secondo una determinata parvenza, simbolo di un grado del valore dell’Io. La realtà medesima gli suggerisce l’atto della coscienza che le è necessario a ricongiungersi con il proprio essere originario, a cui la forma illusoria o dialettica dell’Io ogni volta la sottrae.»

L’uomo non può spogliarsi veramente del senso del mistero, perché esso fa parte della sua stessa umanità, della sua struttura ontologica fondamentale. Non è vero che appartiene ad epoche lontane o, comunque, superate; non è vero che ne aveva bisogno bensì l’uomo delle culture pre-moderne, mentre l’uomo moderno non ne ha più bisogno, non lo sente più, non trova alcuno spazio, per esso, entro la sua anima. È vero il contrario: il senso del mistero appartiene all’uomo di ieri, di oggi e di domani, all’uomo di sempre; il giorno in cui non ne avvertisse più la presenza, o la mancanza; il giorno in cui potesse davvero farne a meno, liberarsene, gettarselo dietro le spalle, come un rimasuglio del passato: ebbene, quel giorno l’uomo non sarebbe più uomo, sarebbe divenuto qualche cosa d’altro, una creatura post-umana, più simile a un calcolatore elettronico che a un vivente e a un senziente: qualche cosa di semi-artificiale, di totalmente staccato dalla natura, ma in gravissima contraddizione con se stesso: perché l’uomo è, in senso fisico, una creatura naturale, e questo dato può essere, in parte, trasceso, giammai negato o rinnegato. L’uomo, in altri termini, può cercar di diventare altro da quel che è, ma non può simulare di essere quel che non è; inoltre, se vuole superare la propria umanità, deve cercar di farlo per una strada solitaria, individuale, con la sola compagnia dell’Essere; non può farlo collettivamente, non può farlo per forza d’inerzia, né può farlo — o, magari, farselo fare – per decreto.

Così come la felicità, cui aspira, non può essere instaurata per decreto: anche se la si considera un "diritto", anche se la si inserisce nella Costituzione degli Stati, non per questo la si farà scaturire dal nulla, come Mosè fece scaturire l’acqua dalla roccia, allorché gli Ebrei stavano per morir di sete nel deserto: possiamo raccontarci tante belle storie sul progresso e sulle magnifiche sorti che ci attendono in virtù di esso, ma una cosa non possiamo fare: inventare quello che non esiste, comandare alle cose di obbedirci, anche se non possediamo altro che tecniche per manipolarle superficialmente, mentre non possediamo alcuna idea di quello che significa abbandonare il proprio ego, liberarsi dalla schiavitù della brama e del timore, riscoprire la dimensione dell’amore che non pretende, che non esige, che non opprime alcuno, ma che si apre e che dona, semplicemente, benevolmente, pacificamente.

Ecco, allora, che l’unica rivoluzione possibile, e quella veramente necessaria, è la rivoluzione interiore: la riscoperta del Maestro interiore, dalla cui voce — purché si sia capaci di fare silenzio al centro della propria anima — si apprende ciò che realmente serve, si apprende l’essenziale. L’essenziale è prendersi cura di sé, portando alla luce la propria parte migliore, la parte luminosa, generosa, benevola, amorevole e disinteressata; il problema è che la maggior parte delle persone, per la maggior parte della loro vita, trascurano l’essenziale per correre dietro al superfluo, trascurano il silenzio per stordirsi con mille rumori, trascurano ciò che è bene per ciò che credono utile, ciò che è giusto per quel che credono piacevole, ciò che è vero per quel che credono comodo, facile, redditizio e soprattutto senza rischi, né sacrifici.

Intanto sono molti, troppi, i falsi maestri che aggravano il male dell’uomo moderno aggiungendo confusione a confusione: propongono tecniche di meditazione e di consapevolezza, come si propone una determinata merce da acquistarsi mediante catalogo: il malessere c’è ed è reale, ma chi ne soffre, non rendendosi conto di quel che significa, di quale sia la sua origine e la sua causa, cerca una soluzione nella direzione sbagliata, si rivolge a chi non è in grado di aiutarlo, si affida, cieco, a un altro cieco, che lo trascinerà nel precipizio insieme a sé. Infatti non esistono tecniche preconfezionate, non esistono vie buone per tutti: e nessun maestro serio si fa pagare, né si offre al primo che lo cerca; ma sempre, ovunque, il maestro serio è colui che sceglie il proprio discepolo, che lo chiama, che lo riconosce adatto e vuole metterlo alla prova. I maestri seri, però, sono merce rarissima; meglio, allora, piuttosto che affidarsi a qualche impostore, a qualche lupo travestito da agnello, a qualche confusionario che aggraverà il male, invece di diminuirlo, affidarsi al Maestro interiore: vale a dire, in ultima analisi, a Dio.

Il cerchio, così, si chiude, e si chiude nella maniera giusta: dall’Essere veniamo, all’Essere faremo ritorno; tutta la nostra esistenza non è che una ricerca della strada perduta, del sentiero interrotto che ci consenta di ritornare alla dimora dell’Essere, nella luce e nel calore del Suo amore infinito. Uniti all’Essere, difatti, noi possiamo fare quasi tutto; separati da esso, ignari di esso, dimentichi di esso, noi non possiamo fare assolutamente niente. Tale è la nostra natura di creature, di enti che possiedono l’essere, che sono partecipi dell’essere, ma che non sono l’Essere, e che ne hanno, dunque, una santa e perenne nostalgia.

Sopprimere in sé il senso del mistero, significa anestetizzare quella santa e benefica nostalgia, ed interrompere, forse per sempre, la strada che porta alla casa dell’Essere. E perdersi, così, nel nulla…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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