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L’imperatore romano Valeriano fu catturato e ucciso da Shapur come punizione divina?

Forse non sapremo mai come sono andate realmente le cose: se, cioè, il re sasanide Shapur I sconfisse l’imperatore romano Valeriano in una leale battaglia e poi lo fece prigioniero, oppure se lo catturò con un vile tradimento, dopo averlo attirato in un tranello con la scusa di parlamentare; tuttavia il fatto è quello: nel 260 d. C., Valeriano fu fatto prigioniero nei pressi di Edessa e deportato, con i resti del suo esercito, in Persia, ove qualche tempo dopo, in una data non precisata, si spense in circostanze oscure.

Sesto Aurelio Vittore, uno storico del IV secolo che ricoprì anche importanti cariche politiche (nel 389 raggiunse il grado "Praefectus Urbis") nonostante le sue posizioni tradizionaliste e anti-cristiane, tipiche della rinascenza tardo-pagana dell’età di Teodosio, nella sua opera maggiore, «Epitome de Caesaribus», risalente al 361, che narra le vicende politiche e militari dell’Impero romano da Augusto a Costanzo II, ha così rievocato la disfatta e la tragica fine di Valeriano (cit. in: Giovanni Leone, «Vertendi Exempla», Bari, Laterza, 2005, p. 358):

«At milites, qui, contracti undique, apud Raetias ob instans bellum morabantur, Licinio Valeriano imperium deferunt. Qui, quamquam genere satis claro, tamen, uti mos etiam tum erat, militiam sequebantur. Eius filium Gallienum senatus Caesarem creat, statimque Tiberis adulta aestate diluvi facie inundavit. Prudentes [intendi: uomini saggi] perniciosum rei publicae cecinere adolescentis fluxo ingenio [per il carattere effeminato], quia Etruria accitus venerat, unde amnis praedictus; quod equidem confestim evenit. Nam, cum eius pater bellum per Mesopotamiam anceps diuturnumque instruit. Persarum Regis, cui nomen Sapor erat, dolo circumventus, foede laniatus interiit, imperii anno sexto, senecta robustiore.»

Anche per Aurelio Vittore, dunque, Valeriano fu catturato da Shapur con il tradimento; è la stessa tesi sostenuta dal massimo storico di Roma che sia vissuto fra la generazione di Ammiano Marcellino e quella di Procopio di Cesarea, il greco Zosimo, che, nella sua «Storia Nuova», afferma esplicitamente che l’imperatore venne catturato mentre si recava ad un abboccamento con il rivale, scortato solo da pochi soldati, fidando nella lealtà dei Persiani; anche se Zosimo sottolinea la sua leggerezza, che pone in una luce d’imprudenza quasi inconcepibile, e la vergogna che la sua cattura provocò allo Stato, trattandosi di un evento assolutamente inedito nella lunga storia di Roma.

Sia come sia, frode o no, è certo che l’avvenimento suscitò molto scalpore, non solo a Roma, ove, però, uno dei pochi a non sbigottirsi fu proprio suo figlio Gallieno, che rifiutò sempre di pagare un riscatto o di aprire qualsiasi trattativa con il nemico per la liberazione di suo padre (secondo gli autori della «Historia Augusta», saputo di essere rimasto solo a capo dell’Impero, egli avrebbe semplicemente commentato: «Sapevo che mio padre era mortale; e, poiché si è comportato da coraggioso, io sono tranquillo»), né solo in Persia, ove Shapur ne trasse motivo di vanto in ogni possibile maniera, arrivando a far scolpire sulla roccia, a Naqsh-e-Rustam ed a Bishapur, le scene in rilievo della sua "vittoria" sul nemico. Anche presso i sovrani delle potenze "cuscinetto" poste tra i due imperi, come l’Armenia e l’Iberia, nella zona posta fra il Mar Nero e il Mar Caspio, a sud del Caucaso, erano molto inquieti e preoccupati per la piega che avevano preso le guerre romano-persiane: essi erano certi che i Romani non avrebbero mai mandato giù un simile disonore e che avrebbero raccolto ingenti forze militari per prendersi una solenne rivincita (come in realtà accadde: nello stesso 260, Odenato di Palmira, per conto di Gallieno, lanciò una campagna vittoriosa contro i Persiani, che lo avrebbe portato, due anni dopo, fin sotto le mura della loro capitale, Ctesifonte).

Possediamo il testo di una lettera, che un personaggio non precisato, molto probabilmente un sovrano, inviò a Shapur, invitandolo a non abbandonarsi a una soverchia esultanza per aver catturato e condannato a morte l’imperatore romano; tale documento, che si trova riportato nella «Historia Augusta», recita così (come sopra, p. 358):

«Si scirem posse aliquando Romanos penitus vinci, gauderem tibi de victoria, quam praefers. Sed quia vel fato vel virtute gens illa plurimum potest, vide, ne, quod senem imperatorem cepisti, et id quidem fraude, male tibi cedat posterisve tuis. Cogita, quantas gentes Romani ex hostibus suas fecerint, a quibus saepe victi sunt. Audivimus certe, quod Galli eos vicerint et ingentem illam civitatem incenderint: certe Romanis serviunt. Quid Afri? Eos non vicerunt? Certe serviunt Romanis. De longioribus exemplis et fortasse interioribus nihil dico. Mithridates Ponticus totam Asiam tenuit: certe victus est, certe Asia Romanorum est. Si meum consilium requires, utere occasione pacis et Valerianum suis redde. Ego gratulor felicitate tuae, si tamen illa uti tu scias.»

Ma Shapur non seguì affatto il consiglio di questo ignoto sovrano asiatico: poco gl’importava della storia passata, evidentemente, di Mitridate e delle antiche guerre vittoriose di Roma; da re sasanide, egli rivendicava tutti i territori che un tempo avevano fatto parte dell’impero di Dario, dunque tutte le province romane dell’Asia Minore, fino al Mare Egeo, nonché la Siria e la Palestina, e inoltre, possibilmente anche l’Egitto. Pertanto Valeriano rimase prigioniero, simbolo vivente della sconfitta e dell’umiliazione della potenza di Roma: morì non molto tempo dopo la cattura, forse dopo aver partecipato alla costruzione di imponenti opere in territorio persiano (secondo le «Res Gestae Divi Saporis»); forse, dopo essere stato costretto a inginocchiarsi e a porgere la schiena affinché il suo orgoglioso carceriere potesse montare a cavallo (sempre secondo Aurelio Vittore); forse, addirittura, dopo essere stato giustiziato, il suo corpo venne scuoiato e riempito di paglia, indi collocato in un tempio persiano, quale terribile monito ai nemici dello stato sasanide e offerta agli dei (secondo Lattanzio).

Valeriano, durante il suo regno — che era iniziato nel settembre del 253, in piena anarchia militare — aveva condotto una dura persecuzione anticristiana; è abbastanza logico, pertanto, che i cristiani abbiano visto nella sua ingloriosa e tragica fine una precisa punizione divina, per aver alzato la mano contro i seguaci del Vangelo. Quasi certamente, Valeriano, come altri imperatori del III secolo e fino a Diocleziano e Galerio, perseguitò i cristiani nel quadro di un disegno strategico più ampio, mirante alla restaurazione dello Stato romano, che doveva passare, secondo loro, per un energico ripristino delle religioni pagane. Bisognerà aspettare Costantino perché la politica imperiale cambiasse verso, e provasse a trasformare il cristianesimo da forza interna potenzialmente eversiva, in uno dei più validi fattori di sostegno spirituale al vacillante edificio politico di Roma. In ogni caso, gli scrittori cristiani non potevano perdonare a Valeriano la sua politica persecutoria nei confronti della loro fede, e infatti non la perdonarono: si veda, in proposito, quel che scrive Lattanzio nel suo celebre "pamphlet" antipagano intitolato, significativamente, «De mortibus persecutorum» (op. cit., p. 359):

«Non multo post Valerianus impias manus in deum intentavit et multum quamvis brevi tempore iusti sanguinis fudit. At illum dues ex novo ac singulari poenae genere adfecit, ut esset posteris documentum adversarios dei simper dignam scelere suo recipere mercedem. Hic captus a Persis non modo imperium, quo fuerat insolenter usus, sed etiam libertatem, quam ceteris ademerat, perdidit vixitque in servitute turpissime. Nam rex Persarum Sapor, is qui eum reperat, si quando deliberavit aut vehiculum ascendere aut equum, inclinare sibi Romanum iubebat ac terga praebere et imposito pede super dorsum eius illud esse verum dicebat exprobrans ei cum risu, non quod in tabulis aut parietibus Romani pingerent. Ita ille degnissime triumphans aliquamdiu vixit, ut diu barbaris Romanum nomen ludibrio ac derisui esse. Etiam hoc ei accessit ad poenam, quod cum filium haberet imperatorem, captivitatis suae tamen ac servitutis extremae non invenit ultorem nec omnino repetitus est. Postea vero quam pudendam vitam in illo dedecore finivit, derepta est ei cutis et exuta visceribus pellis infecta rubro colore, ut in templo barbarorum deorum ad memoriam clarissimi triumphi poneretur legatisque nostris semper esset ostentui, ne nimium Romani viribus suis fiderent, cum exuvias capti principis apud deos suos cernerent.»

Certo, non si può fare a meno di notare con quanto compiacimento, che sfiora addirittura il sadismo, Lattanzio si sofferma a rappresentare l’abiezione in cui l’empio Valeriano è caduto durante la prigionia, le atroci umiliazioni cui viene sottoposto, e infine, dopo la sua uccisione, il vilipendio quasi raccapricciante cui viene sottoposto il suo cadavere. Tutto ciò fa parte della tesi di carattere generale che Lattanzio, in questa macabra operetta, vuole sostenere: che tutti gli imperatori i quali si sono resi responsabili di crudeltà nei confronti dei cristiani, hanno fatto una bruttissima fine: o uccisi dal nemico, o colpiti da dolorose e inspiegabili malattie, o, addirittura, rosi dai vermi e putrefatti mentre ancora respiravano e vivevano (come nel caso di Galerio, cui, nel «De mortibus persecutorum», viene riservato il destino, probabilmente, più atroce e orripilante; cfr. il nostro articolo: «L’agonia spaventosa di Galerio come paradigma della fine immonda dei persecutori», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 16/01/2012).

Dal punto di vista strettamente teologico, dire che una simile impostazione rappresenta una forzatura, è ancora poco: nulla, nel Nuovo Testamento, autorizza a trarre la conclusione che il bene e il male compiuti in vita, riceveranno la loro rispettiva mercede già nella dimensione terrena; al contrario, pensare così, significa ricadere nella logica del Vecchio Testamento, nella logica del giudaismo, oltretutto del giudaismo più antico, dato che in libri come quello di Giobbe già si affaccia una mentalità nuova e diversa (la giustizia di Dio non segue le nostre vie). Cristo, giusto giudice, non giudica subito e non premia, né castiga gli uomini, necessariamente, nella vita terrena; nella vita terrena, può anche accadere che i buoni soffrano e i malvagi o gli egoisti, trionfino: vedi la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone; ma vedi, soprattutto, la vicenda esemplare del Giusto per eccellenza, Cristo medesimo, il quale deve bere sino in fondo l’amaro calice dell’abbandono, del tradimento, del dolore, dell’umiliazione e della morte.

D’altra parte, i tempi in cui Lattanzio scriveva, tra la fine del III e il principio del IV secolo, allorché infuriò la più dura di tutte le persecuzioni anticristiane, quella i Diocleziano, non erano tali da favorire la riflessione teologica serena e una impostazione pacata delle questioni più spinose riguardanti, da un lato, il grande mistero del male, dall’altro, i delicatissimi rapporti tra la nuova religione e le istituzioni statali. I cristiani, almeno nella gran maggioranza dei casi, non rifiutavano l’Impero Romano in quanto tale, ma si rifiutavano di riconoscere la natura divina del sovrano: vale a dire, si rifiutavano di sottomettersi completamente, anima e corpo, alle pretese dello Stato, le quali, legittime nel suo ambito, divengono intollerabili se estese arbitrariamente al di fuori di esso, nella sfera intima della relazione con Dio. E Dio, pensavano i cristiani, non può essere rappresentato da un uomo, sia pure potentissimo, dal capo dello Stato: la sua natura spirituale, onnisciente e perfetta, non tollera simili commistioni di sacro e profano. Il cristiano deve rendere a Cesare quel è di Cesare, a cominciare dal pagamento delle tasse, ma deve riservare a Dio solo ciò che è di Dio: l’abbandono fiducioso, totale, incondizionato dell’anima al suo volere. Come aveva detto Cristo: un servo non può avere due padroni: se obbedisce all’uno, non potrà servire fedelmente anche l’altro — specialmente se "l’altro" è un persecutore, come Diocleziano, o, appunto, come Valeriano.

Se, poi, allarghiamo la nostra sfera di riflessione, dobbiamo ammettere che, da un punto di vista cristiano, l’idea di una relazione precisa, anche se non immediata e diretta, fra il male morale che l’uomo compie e il male che può, a sua volta, colpirlo, come sua conseguenza, non è affatto peregrina, né che essa si addica soltanto alla mentalità di tempi remoti, ma potrebbe appartenere benissimo anche a un credente dei nostri giorni. Se ce ne siamo dimenticati e se quell’idea ci sembra, a tutta prima, un po’ strana, ciò non dipende dall’idea in sé, ma dalla nostra tendenza a "modernizzare" la concezione cristiana della vita, forse più di quanto non saremmo in diritto di fare.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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