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29 Luglio 2015
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29 Luglio 2015L’immaginario degli Italiani è rappresentazione, scena, teatro: come insegna Francesco Petrarca

Gli Italiani vivono di rappresentazione, non di realtà: per essi, la cosa rappresentata diventa più importante della cosa reale; peggio: diventa la realtà "vera", mentre quella finisce per diventare qualcosa di remoto, d’improbabile, che si perde nelle brume della distanza (o, magari, di una burocrazia tanto tirannica quanto inconcludente).
In fondo, è la vecchia politica imperiale romana del "Panem et circensens": il popolo vuol sognare, non fare i conti con la realtà; per essere più precisi: vuol sognare e, nello stesso tempo, divertirsi; vuole, insomma, che il sogno sia interessante, seducente, che non diventi mai noioso.
Ecco perché è impossibile fare politica onestamente, in Italia: non si può additare al popolo delle mete concrete, possibili, realizzabili; bisogna intrattenerlo, svagarlo, divertirlo: in compenso, se si è abbastanza abili, si viene dispensati dall’onere di governare davvero, di affrontare e risolvere le difficoltà, di perseguire degli scopi, magari ("horribile dictu"!) a prezzo di sacrifici: basta, e avanza, proclamare che si vuol governare, che si vogliono affrontare le difficoltà, che si intende perseguire delle mete; e far finta di partire, lancia in resta, contro il nemico inesistente. Se lo spettacolo sarà soddisfacente, il popolo ne sarà altrettanto contento e applaudirà alla bravura degli attori e del regista; anzi, per dirla tutta, questo è precisamente quel che esso vuole: non la cosa reale, ma la sua rappresentazione, la scena, il teatro.
Dicono che alle sfilate militari del regime fascista si facessero passare e ripassare gli stessi carri armati; che, in cielo, sfrecciassero e tornassero a sfrecciare gli stessi, pochi velivoli. Era solo scena? Nessun problema: non era necessario possedere una vera forza militare; bastava fare finta di averla. E lo si vide allorché, dopo tanto parlare di guerra, d’impero e di posto al sole, la guerra arrivò per davvero: eravamo totalmente impreparati. Non importa: entrammo in guerra lo stesso, convinti che la guerra fosse già vinta: dal nostro poderoso alleato. Eppure fu chiaro, sin dalle prime settimane, che così non era: l’osso più duro, il nemico più coriaceo, era tutt’altro che sconfitto; nemmeno allora qualcuno pensò che, una volta dichiarata la guerra, tanto valeva farla per davvero. Si preferì tirare a campare: non c’erano nemmeno i piani operativi per una offensiva nel solo settore veramente strategico per l’Italia, il Mediterraneo. Eppure, oggi lo sappiamo, la flotta inglese era già pronta a lasciare Alessandria e a uscire dal Mediterraneo, armi e bagagli: aspettava solo di vedere se avremmo fatto la guerra sul serio, o no. Non ci mise molto a capire che la facevamo per finta: su Malta, difesa da quattro gatti, senza aviazione, senza navi, non si fece vedere nemmeno un paracadutista italiano: eppure, prendere Malta avrebbe avuto l’effetto di tagliare le linee inglesi da Alessandria a Gibilterra, rendere quasi impossibile la difesa britannica dell’Egitto e del Canale di Suez. Ma noi non facemmo nulla, né per terra (in Libia), né sul mare, né dal cielo: e la flotta inglese, che aveva già acceso i motori ed era in procinto di levare le ancore, ebbe l’ordine di rimanere. Così noi perdemmo la guerra prima ancora d’incominciarla: per non aver voluto combatterla, per aver atteso che qualcun altro la facesse e la vincesse al posto nostro.
Ed eccoci al presente. Per vent’anni, o giù di lì, Berlusconi ha fatto finta di occuparsi dell’Italia; si occupava, invece, delle sue televisioni e del suo impero finanziario; però, sia con le televisioni, sia con la sua personale sceneggiatura, ha fatto in modo che il popolo non si annoiasse: ed è stato sufficiente perché venisse rieletto, di volta in volta, come se davvero avesse fatto qualcosa per il Paese. Oltre alle leggi "ad personam", s’intende.
Ora la palla è passata in mano a un altro grande illusionista, a un altro grande affabulatore: quel Renzi che nessun Italiano ha mai eletto quale presidente del Consiglio; che non è nemmeno parlamentare; e che giunge, buon terzo, sulla poltrona governativa più alta — dopo Monti e Letta — direttamente per l’investitura di Re Giorgio: ha promesso mari e monti, ha anche detto di considerarlo un buffone se non avesse fatto una riforma al mese; ma questo accadeva un anno fa, chi se ne ricorda più? In pratica, è come se fosse preistoria: gli Italiani hanno la memoria cortissima, dimenticano tutto, anche le balle che i politici rifilano loro ad ogni nuova legislatura. Purché lo spettacolo sia divertente, purché gli attori recitino bene, nessuno, o quasi, sarà tanto rozzo e incivile da chiedere ai politici di rispettare le promesse fatte in campagna elettorale. Del resto, quelli che vanno a votare sono sempre di meno: dunque, gli eletti sono sempre più i rappresentanti di una parte assolutamente minoritaria della società. Non importa; è fisiologico: perché preoccuparsi per così poco? Succede anche nelle democrazia più "mature" (così dicono tutti), a cominciare dagli Stati Uniti d’America; perché non dovrebbe succedere anche da noi?
Dunque: l’importanza della rappresentazione; del sogno ad occhi aperti; dello spettacolo teatrale — condito, s’intende, di buone, anzi ottime, intenzioni — ci mancherebbe altro. Se guardiamo alla nostra cultura, alla nostra letteratura, vediamo subito che il male si è manifestato sin dalle radici: come è illustrato dal caso di messer Francesco Petrarca, colui che per secoli e secoli, fino quasi al Manzoni, è stato osannato, riverito, preso a modello insuperato e insuperabile (non Dante, si badi): maestro di lingua, di stile, di profondità, e, naturalmente, di modernità. Eh, sì: perché con tutti quei "ohimé, lasso", il nostro bravo Petrarca è davvero, meravigliosamente, prodigiosamente "moderno"; ha tutto della modernità: la visione complessa del reale, la coscienza della scissione dell’io, perfino la consapevolezza del proprio male, l’accidia: insomma, tutto, fuorché la ricerca per uscire dal pantano. No, quella proprio no. E poi, perché uscire dal pantano? Ci si sta così bene, dopotutto: al calduccio e al riparo dalle correnti d’aria. Magari con l’aiuto di qualche beneficio economico dovuto all’aver preso gli ordini minori: Parigi vale bene una messa. Proprio come la cultura dei moderni: dei Pirandello, dei Montale, dei Zanzotto: eh, sì, che cosa complicata è la realtà, e soprattutto, che schifo è mai la vita, che cosa disdicevole, inelegante; intanto, però, mica male sentirsi dei profeti, magari inascoltati (ma non troppo: mai esagerare, né in un senso, né nell’altro), delle Cassandre, dei titani troppo grandi per il proprio tempo. Peccato che chi si crede un titano, il più delle volte, è in effetti solamente un nano.
Citiamo qualche passaggio del buon vecchio Francesco De Sanctis (da: F. De Sanctis, «Storia della letteratura italiana», Milano, Edizioni Popolari, 1943-XXI, vol. 1, pp. 221-224):
«Non c’è […] nel "Canzoniere" una storia, un andar graduato da un punto all’altro:; ma è un vagar continuo tra le più contrarie impressioni, secondo le occasioni o lo stato d’animo in questo o quel momento della vita. Non ci è storia, perché nell’anima non ci è una forte volontà, né uno scopo ben chiaro; perciò è tutta in balia d’impressioni momentanee, tirata in opposte direzioni. Di che nasce un difetto d’equilibrio, la discordia o la scissura interiore. Il reale comparisce la prima volta nell’arte, condannato, maledetto, chiamato "il falso fuggitivo": pur desiderato, di un desiderio vago che si appaga solo in immaginazione, debolmente contraddetto e debolmente secondato. Minore è la speranza, più vivo è il desiderio, il quale, mancatagli la realtà, si appaga in immaginazione. Nasce una vita di sogni, di estasi, di fantasie di quello che l’animo desidera, non con la speranza di conseguirlo, anzi con la coscienza di non conseguirlo mai. Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli piace sognare: "E più certezza averne fôra il peggio". Perché, se per averne più certezza, rompe il corso dell’immaginazione, sopraggiunge il disinganno. Così vive in fantasia, fabbricandosi godimenti, interrotti spesso dalla riflessione con un: "ahi lasso!" in un flutto perenne d’illusioni e disillusioni. Il disaccordo interno è appunto in questo: nella immaginazione che costruisce e nella riflessione che distrugge: malattia dello spirito, nata appunto dall’esagerazione dello spiritualismo. Lo spirito non è sano, perché, a forza di segregarsi dalla natura e dal senso, si trova alfine di rincontro e ribelle l’immaginazione; e l’immaginazione non è sana, perché ha di rincontro a sé e ribelle la riflessione, che in un attimo le dissipa i suoi castelli incantati. Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta, e non ha forza di sottoporsi la volontà, per il contrasto che trova nell’immaginazione. L’immaginazione rimane pura immaginazione, e non ha forza sulla volontà, non lavora a realizzare i suoi dolci fantasmi per il contrasto che torva nella riflessione. Se una delle due forze potesse soggiogar l’altra, nascerebbe l’equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza alcun risultato, non si giunge mai a un virile "io voglio"; c’è al di dentro il sì e il no in eterna tenzone: perciò la vita non esce mai al di fuori in un risultato, in un’azione: rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di dentro: "… in questi pensier, lasso, / notte e dì tienmi il signor nostro Amore". Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile e in una inutile riflessione. È punito là dove ha peccato. Ha voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba di se stesso, ed è egli medesimo il suo avvoltoio. Stanco, svogliato, disgustato di una realtà a cui si sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle al mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e rimane solo con se stesso a fantasticare, "solo e pensoso", incalzato dal suo interno avvoltoio: "Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti". […]
Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della sua malattia, di questa attività interna inutile e oziosa, una specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da sé e attingere il reale avremmo la tragedia dell’anima, come Dante ne concepì la commedia (una tragedia nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna): tra’ dolori della contraddizione vedremmo il misticismo morire, spuntare l’alba della realtà; il senso o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza virilità. Gli manca la forza, che abbonda a Dante, d’idealizzarsi nell’universo; e, rimanendo chiuso nella sua individualità, gli manca pure ogni forza di resistenza; sì che la tragedia si risolve in una flebile elegia. Il poeta si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in lamenti. Acuto più che profondo, non guarda negli abusi del suo male e si contenta di descriverne i fenomeni, condensate in immagini e in sentenze rimaste proverbiali. Tenero e impressionabile, capace più di emozioni che di passioni, non dimora lungamente nel suo dolore, ché vien presto l’alleviamento, lo scoppio delle lacrime e de’ lamenti. […]
La famiglia, la patria, la natura, l’amore sono per il poeta, com’era Dante, cose reali, che riempiono la vita e le danno uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione: l’immagine per lui vale la cosa. Ma come ci è insieme in lui la coscienza che è l’immagine e non la cosa, la sua soddisfazione non è intera: ci è in fondo un sentimento della propria impotenza., ci è questo: Non potendo avere la realtà, mi appago del suo simulacro. Onde nasce un sentimento elegiaco "dolce-amaro": la malinconia sentimento di tutte le anime tenere, che non reggono lungamente allo strazio e non osano guardare in viso il loro male, e si creano amabili fantasmi e dolci illusioni. Manca al suo strazio l’elevata coscienza della sua natura e la profondità del sentimento. Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo, cercando scampo nella benefica immaginazione.»
Evidentemente, al De Sanctis non viene in mente che la lotta tra il desiderio e la realtà, nel Petrarca, è senza virilità non solo per una differenza psicologica tra lui e Dante, ma anche perché Petrarca, che non è affatto un poeta medievale, ma il primo poeta moderno, possiede anche la prospettiva dei moderni. Infatti, perché mai ci si dovrebbe assumere la responsabilità di scavare impietosamente in se stessi, quando è sufficiente mostrare di farlo, e strapparsi i capelli, e piangere e gemere, e commuovere ugualmente i propri contemporanei, svirilizzati, anch’essi, fino al punto di non sapere o non voler guardare al fondo delle cose, ma paghi di lasciarsi impressionare dalle pose teatrali di chi recita meglio, con più lacrime e sospiri — proprio come fanno le donne?
Il problema, infatti, non è il Medioevo, che non saprebbe mettere d’accordo la terra con il cielo e che sacrificherebbe il corpo e la gioia di vivere (visione ormai largamente superata da tutti gli studiosi seri: solo Umberto Eco pare non essersene accorto); il Medioevo lo sa fare benissimo, come si vede, appunto, in Dante, che di quella cultura e di quella spiritualità è la sintesi suprema: il problema sono la fiacchezza, ma anche il narcisismo, l’esibizionismo e la teatralità dell’anima moderna, la quale sa benissimo quel che le manca e quel che dovrebbe fare per ritrovare il proprio equilibrio, ma non vuole saperne, perché ha scoperto che si sta troppo bene a rimanere sprofondati nel ruolo di eterne vittime, di eterni sofferenti, di eterni malati: guai se, per avventura, arrivasse un buon medico, e guarisse tutti codesti malati immaginari! Non saprebbero più che farsene della salute, anzi, della loro stessa vita: perché vivere da malati, ma (si badi bene) da malati che recitano senza posa la loro parte, è la sola vita che conoscono, l’unico mestiere che sappiano esercitare: qualunque altra prospettiva sarebbe troppo faticosa, per codesti spiriti eletti e delicati.
De Sanctis, insomma, per il solito pregiudizio anti-medievale, sopravvaluta Petrarca: pensa che il suo soffrire sia autentico, che sia sincero, solo perché, ogni tanto, quest’anima nobilmente pensosa, se ne va in Valchiusa, e cerca — o dice di cercare — la solitudine, in quanto è disgustato dal mondo e dalle sue illusioni. Ci vuole una bella ingenuità, a noi pare, per credere a simili dichiarazioni. Tanto per cominciare: solo, il Petrarca, non è mai; anche se, di quando in quando, si allontana dal palcoscenico del mondo — palcoscenico che ama moltissimo, e che è la vera ragion d’essere della sua esistenza di uomo e di poeta -, a fargli compagnia è sempre il suo io narcisista, debordante, incontrollabile, invadente, impudico. Essere soli, cercare la solitudine, amare la solitudine, è cosa di cui il Petrarca è costituzionalmente incapace. Come minimo, deve avere uno specchio per farsi compagnia. Davanti allo specchio egli prova, si osserva, si studia, si contempla, s’intenerisce, si commuove, si turba, si applaude, perché trova d’essere meraviglioso: il più grande poeta d’ogni tempo, assai più di Dante (che gi fa sempre ombra, e del quale è gelosissimo e invidiosissimo, anche se ha l’impudenza di negarlo, con grandi esclamazioni di sincerità).
Petrarca non sa vivere un solo istante senza recitare; ha bisogno d’un pubblico, sempre e ovunque: e quale pubblico più gradito del suo ego, che si perde in continua ammirazione di se stesso, che si alimenta dello spettacolo di se stesso mentre soffre, sospira, geme, dice di non poterne più, si vede già morto e sepolto (come in «Chiare, fresche e dolci acque»), rimpianto da Laura, rimpianto dagli uomini (benché dica di disprezzare il "vulgo"), rimpianto dall’universo mondo? E recita così bene, perfino con se stesso, che finisce per credere alla sua stessa commedia: finisce per piangere lacrime vere, se "vere" sono le lacrime che si versano per un dolore reale, indipendentemente dal fatto che la causa di questo sia immaginaria. Insomma, Petrarca è l’attore perfetto: si cala talmente nella propria parte d’innamorato sofferente e infelice, che finisce per recitarla da artista consumato. Ma che sia solo un giullare senza pudore, lo dimostra il fatto che, in tutte le poesie del «Canzoniere», non ce n’è una sola in cui parli di Laura: tutte parlano sempre e solo di lui, della sua ferita immedicabile, del suo strazio perenne: come altrettanti specchi che rimandano, da cento angolature diverse, sempre e solo la sua immagine.
Il guaio è che un simile giullare è stato preso terribilmente sul serio, e non solo dai suoi contemporanei — i quali, incredibilmente, lo hanno preferito a Dante, e di molto, come modello e maestro di poesia -, ma anche dai letterati dei cinque secoli successivi; evidentemente, lui, e non Dante, incarna a meraviglia l’anima nazionale italiana: commediante, narcisista, poco seria.
Ecco perché gli Italiani, davanti a un problema, non si chiedono come risolverlo: ne fanno un romanzo, o un’inchiesta giornalistica, o un film, o una interpellanza parlamentare. La mafia imperversa? Ebbene: si fa uno sceneggiato che parla della mafia, che denuncia la mafia, che mostra la barbarie della mafia; poi se ne fa un secondo, e un terzo, e un quarto, e un quinto, e un sesto… e così via, all’infinito. Si fanno inchieste, interrogazioni, si scrivono saggi sociologici, si chiede il parere d’insigni studiosi; si discute, si pontifica, si sentenzia; si fanno proclami, mostre, manifestazioni, minuti di silenzio, commemorazioni, e ancora discorsi, e così via, sempre, all’infinito. Anche con il sangue fresco sulle strade di Palermo, che grida vendetta al cielo, che chiede giustizia sulla terra.
Ma perché limitarsi ad agire, ad affrontare la realtà, a sporcarsi le mani, e rischiare, e pagare in moneta sonante, quando si può trasformare il tutto in un bellissimo spettacolo, e far promesse da campagna elettorale, e tenere discorsi vibranti e applauditissimi, e commuoversi fino alle lacrime alla propria stessa indignazione, alla propria stessa sete di giustizia? Sì: fino alle lacrime. Lacrime perfino sincere, alla fine. Esattamente come insegna il gran padre spirituale dell’italica commozione scandita dalle oscillazioni dell’applausometro: messer Francesco Petrarca, il primo poeta moderno…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels