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L’errore logico di Machiavelli è l’aver descritto uno Stato che non può esistere

Delle teorie politiche di Machiavelli, della sua concezione filosofica e antropologica, del bene o del male che la sua opera può aver fatto alla cultura italiana e alla società italiana, si è detto tutto e il contrario di tutto; e noi non intendiamo minimamente ripercorrere gli alti e bassi della discussione storiografica intorno a ciò che l’idea della politica, e la prassi della politica italiana in modo particolare, gli sono debitrici.

Una cosa, a noi, appare evidente: Machiavelli, comunque la si voglia girare, è stato un cattivo maestro, un pessimo maestro: la sua radicale separazione della politica dalla morale; la sua pretesa che si possa fare della buona politica con cattivi, o con pessimi mezzi morali; la sua esaltazione, certo non del male in sé, ma del politico che sappia "entrare" nel male, "se necessitato", nonché le sue lodi sperticate nei confronti delle azioni politiche moralmente ripugnanti, ma da lui ritenute utili o necessarie nell’arte di conquistare o rafforzare il potere; infine la sua mescolanza, mai del tutto chiarita, e insomma la sua confusione tra il fine della politica come buon governo e il fine della politica come semplice strumento di potere, ne fanno uno dei più tetri e spregiudicati esponenti di una concezione nichilista, brutale, degna precorritrice, in tutto e per tutto, degli orrori che l’Europa e il mondo, specialmente nel corso del XX secolo, hanno vissuto e sperimentato, sempre all’ombra della politica come pura tecnica del potere, e con la giustificazione di una presunta "necessità" per i fini superiori dello Stato.

Quel che qui ci preme evidenziare è, tuttavia, un’altra cosa: e cioè come il pensiero politico di Machiavelli, oltre che profondamente, intollerabilmente immorale, è anche intrinsecamente sbagliato e contraddittorio; esso si rivela, a un esame anche rapido, come insostenibile proprio da un punto di vista logico, e a dispetto di quel supposto "realismo" di cui Machiavelli si fa banditore, e in nome del quale egli ostenta il più grande disprezzo e la più insultante commiserazione nei confronti di coloro i quali giudicano i fatti della politica, e la stessa natura umana, non accettandoli così come sono e per quello che sono, ma considerandoli come essi vorrebbero che siano o come sarebbe auspicabile che siano.

L’errore consiste in questo: nel non aver visto che uno Stato retto principalmente sulla malizia, sulla frode, sull’inganno, sul tradimento, è in contrasto, quanto ai mezzi, con le "buone leggi" (e perfino con le "buone armi"), da lui tanto esaltate quali necessità vitali; e, quanto ai fini, è in contrasto con l’obiettivo del bene pubblico, della sicurezza, della stabilità e della pace, senza i quali non si danno né produzione e commercio fiorenti, né rispetto e collaborazione fra le classi, né, meno ancora, amore e fedeltà verso i governanti, ma solo il regno del caos, della lotta di tutti contro ciascuno, la giungla selvaggia e feroce popolata di belve dalle zanne insanguinate.

Eppure, Machiavelli ha esaltato entrambe le cose: da un lato, la politica cinica, immorale, crudele, perfida, fraudolenta (compresi l’assassinio politico degli avversari e la deportazione d’interi popoli); dall’altro, il valore di una società prospera e ordinata, anzi, di una società prospera perché ordinata, e ordinata in quanto fondata non sulla malizia, sull’inganno, sulla slealtà eretta a sistema, ma sulla fiducia reciproca, sulla "bona fides", sulla "pietas", insomma sulle virtù che fecero grande la Repubblica romana, da lui tanto ammirata, e senza le quali nessuno Stato potrà mai essere, non diciamo grande, ma nemmeno ordinato, prospero e pacifico, ma sarà eternamente sconvolto da dissensi, rivalità, lacerazioni, fazioni egoiste e superbe in lotta incessante, miranti unicamente al trionfo del proprio bene "particulare", a prescindere ed anche a danno del bene generale.

Questa contraddizione è stata vista perfettamente ed evidenziata da un filosofo oggi pressoché dimenticato, forse perché collocabile in un’area culturale allora minoritaria e non troppo ben vista dalla cultura dominante: Pietro Conte, un uomo e uno studioso che meriterebbe d’essere riscoperto.

Riportiamo una pagina dalla sua limpida e vigorosa monografia «L’errore logico del Machiavelli» (Roma, Edizioni Paoline, 1956, pp. 148-153):

«Gli stati solidi sono quelli fondati su un sincero ordine morale. A tale conclusione sarebbe dovuto giungere il Machiavelli sulla via d’una rigorosa logica: sulla via, ad esempio, della logica ciceroniana del "De Republica". Ma il pensiero del nostro strabiliantemente punta verso una meta opposta. Se egli accetta l’immanente religioso e morale come categoria insopprimibile d’ogni concezione politica, tuttavia il suo precettiamo pratico si fonda su un principio totalmente contrario: la malizia, la quale si articola in due forme o mezzi di governo: la forza che prescinde in tutto dalla morale, e la frode. Ecco tutta un’esaltazione, nei "Discorsi" e nel "Principe", della cattiveria, della forza immorale e della frode. Anzitutto non è da badare a una discriminazione morale dei mezzi. Quanto al principe, "conviene bene che accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi" (Disc., 1, 9). Che Romolo, uccisi il fratello e Tazio, "meritasse scusa, lo dimostra lo avere quello, subito, ordinato un Senato, con il quale si consigliasse, e secondo l’opinione del quale deliberasse" (ib.). La malizia in proporzioni immani acquista agli occhi del Machiavelli un suo aspetto di grandezza e di bellezza. Egli lamenta che gli uomini "non sanno essere onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni; e come una malizia ha in sé grandezza, o in alcuna parte generosa, e non vi sanno entrare" (Disc., 1, 27). […] E non pensa Machiavelli che nessun vantaggio porta, anche in un computo puramente economico dei fatti politici, l’uso e l’accrescimento della crudeltà e della perfidia; giacché l’esempio diventa subito norma costante, e il vantaggio tuo di oggi si muta in possibile trappola in un vicino o lontano domani. Ma c’è di peggio. La crudeltà e la perfidia usate contro altri guastano la moralità degli stessi cittadini o sudditi. Roma fu spietata con Cartagine, e con un pretesto l’annientò. Ma il popolo romano, già proverbialmente leale e rispettoso degli dei, quella stessa crudeltà e perfidia che usò contro Cartagine e Numanzia rivolse poi con indifferenza contro se stesso. E si vide nelle sciagurate lotte civili; vere carneficine fratricide. Il Machiavelli ci ha detto […] che il vero principe deve mirare al pubblico bene, alla pubblica libertà ("giovare non a sé ma al bene comune, non alla sua propria successione ma alla comune patria", Disc., 1, 9). Ma ecco altri precetti ben diversi. Il principe nuovo "deve fare ogni cosa, in quello stato, di nuovo: come è nella città fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i ricchi poveri, i poveri ricchi; edificare nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un luogo a un altro; pigliare per mira Filippo di Macedonia che tramutava gli uomini di provincia in provincia come e’ mandriano tramutano le mandrie loro" (Disc., 1, 26). Il principe deve "in somma, non lasciare niuna cosa intatta in quella provincia, e che non vi sia né grado, né ordine, né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te" (ib.). A questo punto finanche il Machiavelli accenna a un lieve imbarazzo morale: "Sono questi modi crudelissimi, e nimici d’ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, o volere piuttosto vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male" (ib.. dalle quali parole si deve inferire che il Machiavelli ritiene che in ogni caso il politico deve essere pronto a consumare atti immorali, scellerati. Chi voglia seguire "la via del bene", non faccia il politico, faccia il privato! […] Quanto alla funzione e al posto della forza e della frode nel governare, egli riassume così tutto il suo pensiero: "Credo si trovi mai che la forza sola basti, ma si troverà bene che la fraude sola basterà" (Disc., 2, 13). Senofonte stesso, egli afferma, sostiene che "a uno principe che voglia fare gran cose è necessario imparare a ingannare" (ib.). E pertanto il principe "deve tenere in modo i sudditi che non lo possano o debbano offendere"; e pertanto deve "o beneficarli o spegnerli" (Disc., 2, 23). Il Machiavelli e i machiavellici credono naturalmente che queste affermazioni, anche nei loro portati estremi, siano la conseguenza di una rigorosa deduzione logica da principi assiomatici. È la fredda realtà, essi dicono. Eppure, proprio la realtà è un’altra. Il Machiavelli, senza per nulla avvedersene, da un pezzo è lontano dalle deduzioni logiche dei principi di partenza, riconosciuti e validi. I principi della socialità il Machiavelli li aveva ben capiti. C’è alla base il concetto innato e imprescindibile di un bene assoluto. Ad esso, ha affermato il nostro, deve ispirarsi l’azione del popolo e del principe per tendere "al perfetto e vero fine". Solo in questo caso si ha una società degna di tal nome; solo a tali condizioni si ha uno stato che abbia per scopo "il bene comune in un vivere libero". Quel principato o dominio dive un tiranno tenga sotto di sé coartate, oppresse in schiavitù delle "mandrie", non è uno stato, non solo perché ne mancano le forme di vita, gli ordinamenti civili, i necessari rapporti sociali, i costumi di morale e giuridica responsabilità fondati, come il Machiavelli ci ha detto, sulla giustizia,; non solo, dico, lo stato manca perché ne manca la vita effettiva, ma lo stato non esiste perché non c’è neppure come idea nel pensiero e nel fine che si propone l’unico che agisce con libertà o autonomia: il principe. Non c’è lo stato perché egli ovviamente, se attua un dominio efferato quale poco sopra abbiamo riportati dal Machiavelli, non ha il concetto di quel "primum" morale e religioso che è da porsi come elemento o principio imprescindibile. Almeno dobbiamo dire che il principe in questi casi non attua un concetto oggettivo di stato, ma un "suo" stato: uno stato che è "stato" per lui. Così, io potrei (anche in buona fede) chiamare "stato" un carcere nel quale rinchiudessi orde di esseri umani, senza nessuno dei rapporti che la socialità statale esige in dipendenza della concezione di quel "primum" che ne sia il suo "fine" e il suo "sommo bene".»

Quello che manca, dunque, nella visione politica di Machiavelli, che pur si vanta del proprio realismo, è la realistica e coerente applicazione del principio fondamentale, da lui ammesso in teoria, ma poi, di fatto, negato o dimenticato o trascurato: l’idea di un bene superiore alle varie forme di bene contingente (di un bene, cioè, che sia o che sembri tale solo per pochi individui, o per una fazione, o per uno stato), di un Bene assoluto, che costituisca la base etica per qualunque stato, anzi, per qualunque forma di vita associata. Senza una tale base, la società non è in grado di educare degli individui suscettibili di vera socialità: quest’ultima, infatti, non potrà mai equivalere all’egoismo assoluto e alla logica del più forte o del più astuto, a danno di tutti gli altri. Uno stato siffatto, una società siffatta, non potrebbero reggersi; e, di fatto, noi vediamo che non si reggono, che tendono continuamente a collassare, a precipitare nel caos. E a nulla vale, in tal caso, che un individuo d’eccezione, o che si crede eccezionale (ma da dove proverrebbe, un tale individuo? e chi mai potrebbe stabilire e confermare la sua eccellenza, e, insieme ad essa, il suo buon diritto?), solo perché particolarmente abile e spregiudicato nell’uso dei mezzi, si erga a difesa dello stato e a baluardo della società: nessun rimedio è possibile, quando le forze del disordine e del cieco interesse individuale prevalgono. Se, poi, come Machiavelli sembra auspicare, un solo individuo — che, di fatto, non è un principe, nel senso nobile della parola, ma un tiranno — pretende per sé solo il monopolio della forza e dell’astuzia, ovvero della frode, non per questo la situazione sarà migliore che se ciascuno si abbandonasse alla licenza: perché, inebriato dal proprio potere assoluto, costui finirà inevitabilmente per farsi trascinare e dominare da quella logica dell’egoismo e dell’arbitrio, per contrastare la quale, in teoria, afferma di aver conquistato il potere, e preteso di esercitarlo senza freni e senza controlli.

Quel che manca nella concezione politica di Machiavelli – e che manca in maniera contraddittoria rispetto agli stessi principi da lui ammessi — è l’esigenza dell’uomo morale, dell’uomo che non defletta mai dall’idea del bene, per realizzare il quale il male non potrà mai divenire lecito, e tanto meno necessario, se soltanto si riflette che l’uso immorale dei mezzi, che oggi potrà essere vantaggioso ad un principe o anche, ammettiamolo per amore d’ipotesi, a uno Stato, domani, fatalmente, e per le stesse ragioni — vale a dire, per il trionfo della logica della forza e della frode sul diritto e sulla giustizia — si ritorceranno contro di essi, e non varrà a difenderli l’invocare quelle leggi morali ch’erano state brutalmente calpestate, dal momento che colui il quale con la frode ferisce, per opera della frode è destinato a soccombere. Se il fine giustifica i mezzi, allora chi avrà più il diritto di discutere anche la liceità dei fini? Non si cadrà forse nell’adorazione del risultato, al punto di dichiarare "buono" solo ciò che si è realizzato, e cattivo tutto il resto?

Dunque: l’errore capitale del Machiavelli è stato precisamente quello che la cultura moderna considera il suo grande merito: l’avere distaccato la politica dalla morale, e l’aver proclamato che quella può fare, anzi, deve fare, del tutto a meno di questa.

Diciamo la verità: a molti Machiavelli piace, perché scusano il suo cinismo con la nobile esortazione a «pigliare e liberare l’Italia dai barbari» (contenuta nel ventiseiesimo, ed ultimo, capitolo de «Il Principe»): ma piacerebbe ancora a costoro, se fosse stato straniero; per esempio, se fosse stato tedesco? Se avesse proclamato che qualsiasi mezzo, e specialmente la crudeltà e la frode, sono necessari per il bene, per la prosperità e per la sicurezza della sua patria germanica? Gli avrebbero perdonato, in tal caso, i suoi odierni ammiratori nostrani – come di fatto gli perdonano – il suo cinismo, il suo culto della forza e della violenza spietata, la sua celebrazione della frode? Oppure, al contrario, non lo avrebbero visto e giudicato, per l’appunto usando il suo stesso linguaggio, come un "barbaro", come un nemico del vivere civile, come quel cattivo maestro che, in effetti, e senza ombra di dubbio, è stato e continua ad essere?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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