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L’epos del lavoro e la vita come teleologia nella «Conchiglia di Anataj» di Carlo Sgorlon

è piuttosto strano, di primo acchito, ma alquanto significativo, a ben guardare, che la civiltà moderna abbia prodotto così poche epopee del lavoro e che la letteratura italiana contemporanea, in particolare, sia stata così latitante davanti all’ethos del lavoro e all’epos del lavoratore. A parte, ovviamente, l’epos fasullo e strumentale degli scrittori di ascendenza marxista, nella doppia versione di "ribelli" al lavoro (nella società borghese), in nome della rivoluzione che verrà, e di "eroi" del lavoro, come realizzatori di una nuova civiltà, fondata sull’armonia e sul progresso (nella società comunista prossima ventura: di quella sovietica, non osavano parlare troppo neanche loro), quel che si nota è un radicale, assordante, sconvolgente silenzio.

I personaggi di Svevo, Gadda, Moravia, Pasolini, semplicemente non lavorano; e nei versi di Montale, Penna, Saba, non è che il lavoro si sprechi. Parlano del lavoro, della fatica del lavoro, della santità del lavoro, Carducci e Pascoli, Moretti e Cassola; dei lavoratori parlano Cesare Pavese, ma con pena e dolore, poi Carlo Bernari e Nanni Balestrini, ma, naturalmente, in chiave ribellistica; e ne parla anche il poeta Giovanni Giudici, con la sua ragazza Carla, ma in chiave di alienazione e solitudine. Che il lavoro sia una forza collettiva potente e necessaria; che sia portatrice, anche, di valori morali; che in essa si esplichi una visione consapevole e coerente della storia, una vera e propria teleologia: tutto questo è ancora presente in Verga, poi si affievolisce e infine si perde, forse come quei fiumi carsici che a un certo punto scompaiono alla vista e s’inabissano, per poi riapparire, magari a grande distanza, dopo essersi aperti, nel buio, un loro corso misterioso dentro le viscere della terra.

Ed ecco che uno di questi fiumi carsici riappare, verso la fine del Novecento, appunto là dove meno ce lo saremmo aspettato: nella narrativa "fantastica", "mitica", "simbolica" del romanziere friulano Carlo Sgorlon, così legato alla sua "piccola patria", da non aver mai cercato fuori di essa, o fuori della sua gente, l’ispirazione a scrivere: una "piccola patria" già di per sé appartata, conservatrice, aliena dalle mode della modernità, e che, nella scrittura di questo autore, diventa ancor più lontana e inafferrabile, ancor più seminascosta dalle nebbie della leggenda e della favola, ancor più radicalmente refrattaria al verismo, al positivismo, all’illuminismo, allo scientismo, al razionalismo, al realismo e a tutti gli altri "ismi" della cultura moderna.

Non fra gli scrittori o i registi del tanto decantato Neorealismo, dunque, ma nelle pieghe di una terra di frontiera, provinciale e raccolta in se stessa, nelle pagine di uno scrittore a lungo snobbato dalla critica "progressista" e "politicamente corretta" (perché non era devoto alla religione marxista) si incontra uno dei massimi interpreti della civiltà del lavoro ai nostri giorni: è un fatto che induce a meditare, visto e considerato che la cultura di sinistra, "impegnata" e "militante", ha fatto letteralmente il bello e il cattivo tempo su tutte le manifestazioni dell’arte e del pensiero nel nostro Paese, negli ultimi settant’anni circa

Stiamo parlando di Carlo Sgorlon, e, più specificamente, del suo romanzo «La conchiglia di Anataj», vera e propria epopea del lavoro e del lavoratore, in questo caso friulano (ma potrebbe anche essere abruzzese, o polacco, o svedese), del suo mondo affettivo, dei suoi valori, del suo codice etico, della sua nostalgia per la terra natia, della sua fierezza di partecipare a qualcosa di grande: la costruzione della ferrovia transiberiana (1891-1903), proprio alla cerniera fra i due secoli, l’Ottocento e il Novecento, in cui si compie il passaggio della civiltà europea e mondiale verso le «magnifiche sorti e progressive» della modernità.

Il critico e scrittore istriano Bruno Maier ha delineato benissimo questo carattere del libro di Sgorlon, con parole che ci piace riportare, per quanto possibile, nella loro interezza (dalla «Introduzione» a C: Sgorlon, «La conchiglia di Anataj». Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1983, pp. XVIII-XIX):

«…La ferrovia e la conchiglia sono, insomma, due simboli diversi, ma concomitanti e in certo modo complementari: il primo indica il dovere che lega come "dannati" o "forzati" a una catena i lavoratori friulani, anche se ciò dà loro la soddisfazione e l’orgoglio di partecipare a una grande costruzione collettiva; la seconda è la bellezza, il sapore, il profumo dell’esistenza, il magico e iridescente mormorio della vita, l’eco misteriosa delle cose o la rivelazione quasi oracolare del loro mistero; o, anche, la monta liana "ondata della vita" nella sua dimensione estetica, perché abbellita dal desiderio, dall’immaginazione e dal sogno. E proprio perché coincide, per chi sta morendo, con il ricordo del passato; e per chi vive con l’attesa di un domani migliore, sorretta sull’abbinamento del "sussurro delle cose" con la musica serenatrice e allettatrice della fantasia. La vita come teleologia cosciente e razionale, pur se offuscata da lunghe ombre (con riferimento, oltre che agli operai della Transiberiana, all’umanità in generale); e la vita come condizione irrazionale e favolosa, oscillante fra memoria e fiduciosa aspettativa dell’avvenire: tutto ciò simboleggiano, rispettivamente, la ferrovia e la conchiglia; e il secondo simbolo, in apparenza secondario di fronte al primo, è in realtà forse più sottile, interiore, indefinito poetico, e quindi relativamente aderente — non meno del primo — alle "memorie" siberiane di Valeriano [il protagonista del libro, un friulano emigrato in Russia]. Pertanto il titolo del romanzo è giustificato e pertinente; e rileva una volta di più la sostanza poetica del libro. "La conchiglia di Anataj" è l’epos del lavoro e del lavoratore, friulano o no, insieme protagonista e vittima, ma anche solerte, appassionato esecutore di un’opera destinata a durare in un mondo che si dissolve nell’illusione, è fatto di miraggi e di sogni e non può sottrarsi all’insidia occulta del nulla. Ma l’opera resta, come rimane, valore incontestabile, il lavoro che la costituisce: "Labor omnia vincit / improbus", si potrebbe ripetere con Virgilio, e aggiungere che questo celebre passo delle "Georgiche"potrebbe essere il motto o l’epigrafe del romanzo: un romanzo che esalta, tutto sommato, la vita, l’umanità, i valori positivi dell’umano agire, anche se questo agire, che ha le sue radici nella terra, sfuma ai vertici nella penombra dell’inconoscibile e nelle nebbie del mistero.

Ciò è ancora una volta sottolineato dallo stile, lento, grave, talora solenne della "Conchiglia", che fa pensare a un’armonia d’organo ed è, al solito, ricco d’immagini, di metafore, di analogie, di similitudini, indice di una singolare capacità di vedere e di concepire fantasticamente, poeticamente…»

In diversi romanzi di Sgorlon s’incontra la figura dell’emigrante che, dopo molti anni passati all’estero, a un certo punto decide di ritornare in patria (Valeriano, invece, decide di restare in Russia): non così vecchio da essere tornato solo per morire ed essere sepolto al cimitero del paese, ma neanche abbastanza giovane da poter guardare alla vita con gli stessi occhi di prima: eppure quegli occhi, benché provati, non hanno conosciuto il disincanto. Nel mondo narrativo di Sgorlon vi è una figura di eroe "positivo" (l’esatto contrario dell’anti-eroe novecentesco, da Svevo in avanti), che vive la vita con dignità e consapevolezza; che l’accetta, anche quando non arriva a comprenderla sino in fondo; che si sente parte di un disegno più ampio, molto più ampio della sua piccola esistenza individuale, peraltro niente affatto insignificante.

Valeriano è un po’ l’anti-Anguilla, se il lettore di Pavese, che conosce «La luna e i falò», capisce quel che vogliamo dire: Anguilla torna dall’America al suo paese, nelle Langhe, alla disperata ricerca delle proprie radici (radici per modo di dire, visto che è un trovatello, abbandonato a suo tempo sulla scalinata del duomo di Alba): ma non le trova, perché tutto è cambiato, e si rende conto che la sua nostalgia di "avere un paese" non potrà mai essere soddisfatta. Alla conclusione pessimistica di «La luna e i falò», in perfetta continuità con tutto il percorso letterario e la ricerca, umana ed esistenziale, di Pavese, che vi trova il suo testamento spirituale (il libro fui scritto nel 1949 e pubblicato nel 1950, poco prima del suicidio dell’autore) si contrappone il "ritorno" di tanti personaggi di Sgorlon, di tanti emigranti che cercano, anch’essi, le radici perdute; e che, pur dopo difficoltà e turbamenti — nemmeno loro ritrovano i luoghi e le persone così come li avevano serbati nel ricordo — riescono a re immettersi nel grande flusso vitale della loro gente, della loro terra, dell’umanità intera: a comprendere, cioè, che nessuno vive per se stesso soltanto, che ogni vita è parte della grande Vita universale, e che è necessario credere in essa, aver fede in essa, e, se necessario, anche sapersi sacrificare perché essa vada avanti e trovi le sue strade.

Così, nel mondo di Sgorlon — mondo contadino, arcaico, primordiale — l’epos del lavoro e quello della vita si fondono e si sostengono a vicenda: se è vero che non si viver lavorare, ma che si lavora per vivere, è altrettanto vero che nel lavoro, e solo nel lavoro (inteso nella accezione più ampia e profonda del termine) l’uomo si fa veramente uomo, esce dal proprio egoistico individualismo, riscopre la solidarietà verso i suoi simili, il legame con la natura, l’incanto e la magia della bellezza, quello slancio dell’anima che fa amare anche il dovere, anche il dolore, anche il sacrificio, quando essi sono diretti al raggiungimento dei più alti fini morali: la protezione della famiglia, la difesa dell’integrità morale contro le forze dissolventi della cupidigia, della prepotenza, della ricerca incosciente del piacere privato, i mostri che insidiano la nostra stessa umanità.

Il lavoro, dunque, in Sgorlon .- proprio come in Virgilio, se ci è lecito questo paragone così "alto — non è solo una forza benefica di organizzazione della vita, capace di piegare tutti gli ostacoli e di conquistare qualunque meta; è anche forza redentrice, perché in esso e attraverso di esso l’anima si purifica di molte impurità, si alleggerisce di molta zavorra, espia non pochi peccati, tanto di azione che di omissione e ci restituisce alla parte più vera e più nobile di noi stessi, parte che, quqando siamo in ozio, tenderemmo continuamente a dimenticare, a trascurare, a lasciar cadere da noi come un ramo secco, come un tralcio inutile.

«Non omnis moriar», potremmo aggiungere a questo punto, citando Orazio, dopo aver citato Virgilio: «non morirò del tutto», potrebbero dire con tranquilla coscienza e con pacata fierezza, tanti eroi ed eroine — soprattutto eroine, anzi! — della narrativa di Carlo Sgorlon; non muore interamente colui che, attraverso la forza operosa del lavoro, ha contribuito a difendere ed estendere l’ordine morale che governa il mondo e che lo preserva dalle spinte centrifughe dell’individualismo grossolano e dell’utilitarismo senz’anima. Sì, perché il mondo di Carlo Sgorlon possiede un’anima: è un grande luogo, talvolta difficile, sempre misterioso, mai però incomprensibile, mai estraneo, mai alieno: vi è un "genius loci" in ogni valle, in ogni borgo, presso ogni torrente, ogni bosco, ogni campo. È un universo animato e popolato da antiche presenze, da un flusso impalpabile che lega le generazioni, il passato al futuro, scavalcando le generazioni,m i secoli, i millenni: è un universo che nasce da un disegno benevolo e che merita di essere adorato e servito dagli uomini. Così, senza stare a discutere, senza strare a sindacare di diritti e doveri, di giusto e sbagliato, di vero e falso, quando invece le cose da fare sono tanto chiare, d’istinto, senza mediazione alcuna: rimboccarsi le maniche e prestare la propria opera, generosamente e illimitatamente, là dove si aiuta la vita, la si incoraggia, la si sostiene, si crede nel futuro; negarla, e ritrarsi a prudente distanza, là dove accade il contrario.

Perché il mondo di Sgrolon è un mondo contemplativo ed incantato, che non ignora le ombre del male, ma che non permette loro di intorbidare lo sguardo, pieno di stupore, di colui che contempla. Non è un mondo cristiano in senso stretto, ma ad esso molto vicino. Come ricorda Luca Negri (su «L’Occidentale», Sgorlon era abbastanza fiero da non nascondere il proprio conservatorismo e abbastanza umile da non osare definirsi cristiano: in fondo, come il filosofo colombiano Nicolàs Gomez Davila, era un pagano che credeva in Cristo. Uno che parlava delle foibe, quando la cultura di sinistra faceva di tutto per nasconderle; che si era opposto all’aborto e all’aborto (da lui definito «un assassinio») quando quasi tutti gli intellettuali erano schierati sull’opposta barricata. Eppure questo conservatore impenitente, questo cristiano che non osava dirsi tale, ha celebrato l’epos del lavoro e la fede nella vita più di tanti altri scrittori modernisti e progressisti, e con meno retorica…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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