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29 Luglio 2015Per generazioni innumerevoli, per i nostri e bisnonni, per i nostri trisavoli e antenati, vigeva una semplice, chiara, intuitiva verità: la voce della coscienza è la voce di Dio; se vuoi ascoltare la voce di Dio, ascolta la tua coscienza; se ascolti la tua coscienza e metti in pratica ciò che ti dice di fare, allora stai vivendo nell’amore e nel timore di Dio. E se no, no.
Poi, gradualmente, ma, in effetti, nel corso di sole due o tre generazioni, tutto è cambiato. È venuto fuori qualcuno, qualche intellettuale, a dirci che bisogna diffidare delle cose semplici ed evidenti, a spiegarci che esse, il più delle volte, nascondono una insidia, un inganno, un trucco; che noi non abbiamo affatto una coscienza, ma una quantità di cosciente fittizie, o meglio di maschere, che indossiamo di volta in volta, per reggere la nostra parte su più fronti, per farci credere quel che non siamo — ma, sostanzialmente, per coprire il vuoto, la miseria, il nulla del nostro io, l’assoluta inconsistenza del nostro essere.
Niente più coscienza, dunque: roba vecchia, credenza ingenue d’una volta. E allora, neppure niente Dio. Dio, ci hanno spiegato sempre quei tali sapientoni, non è che la proiezione illusoria, nevrotica, patologica, della figura paterna, amata e odiata, dalla quale vorremmo emanciparci, pur desiderando segretamente possedere, nello stesso tempo, alcune sue caratteristiche, prime fra tutte la sicurezza e l’autorevolezza.
Del resto, come possiamo essere certi che quella che noi crediamo la voce della coscienza non sia, invece, la voce di qualche autorità interessata, di qualche interesse costituito, di qualche subdola manovra mirante a strumentalizzarci, a sottometterci, a ingannarci, a manipolarci, a lusingarci, a deriderci; oppure che non sia, semplicemente, un inganno, un’allucinazione, un miraggio, cui a torto attribuiamo una qualche forma di consistenza ontologica, mentre è null’altro che fumo, nebbia, sogno, delirio, fantasma?
La coscienza, la coscienza: bisogna andarci piano, dicono gli intellettuali contemporanei; chi mai l’ha vista e conosciuta, in realtà, codesta coscienza? Chi può dire d’averne fatto reale, immediata, concreta esperienza? Se pure riusciamo a imporre un minimo di silenzio alle mille voci e ai mille suoni discordi della vita moderna, quel che si sente, a tratti, e quasi per caso, non è detto che sia la coscienza, perché la coscienza, se pure esiste, è uno stato, un modo del’essere, non un soggetto, non un ente attivo; e allora, come potrebbe mai avere una sua voce, parlarci, istruirci, indicarci la via da seguire? Chi potrebbe farsene garante, chi potrebbe avvalorarla, esserne buon testimonio?
E ancora: non ci ha forse mostrato, la cultura contemporanea, che bisogna diffidare di tutti i maestri, di tutti coloro i quali hanno la pretesa d’insegnarci qualcosa, di tutte le verità assolute? Non ci ha forse raccomandato, la cultura contemporanea, di basarci solo su quello che scientificamente può essere visto e toccato, misurato e sperimentato, dimostrato e infine, se possibile, riprodotto a piacere in laboratorio? Si può forse riprodurre in laboratorio quella cosa chiamata "coscienza" No? Dunque, bisogna relegarla fra le cose vecchie e senza più valore, in soffitta, tra la polvere di altri arnesi ormai sorpassati, di altre credenze superate, delle quali si parla, se mai se ne parla ancora, con un sorriso d’imbarazzo e di bonaria condiscendenza.
Ha scritto il cardinale Pietro Pavan, nato a Povegliano, in provincia di Treviso, nel 1903 e morto a Roma nel 1994, che fu docente e rettore della Pontificia Università Lateranense, e che scrisse o ispirò le due famose encicliche «Mater ef Magistra» (1961; il più importante documento pontificio di argomento sociale, dopo la «Rerum Novarum») e «Pacem in terris» (1963), considerato uno dei maggiori studiosi della dottrina sociale della Chiesa (in: P. Pavan, «Scritti», Roma, Città Nuova Editrice, 1992, vol. 4, pp. 124-6):
«La legge, propria della persona umana, immanente al suo essere esistenziale, è la legge MORALE: la quale si caratterizza per la sua AMPIEZZA e per il suo accento IMPERATIVO. Per la sua ampiezza:: copre tutto lo spazio dell’agire UMANO, e cioè lo spazio INTERIORE in cui si agisce consapevolmente, liberamente, responsabilmente; e copre quello spazio in tutti i rapporti con ogni ordine di realtà: nei confronti dell’universo; nei riguardi di tutti gli esseri umani nella convivenza civile; nel rispetto a se stessi, e in ordine a Dio. Ma la legge morale si caratterizza pure, e più ancora, per il suo ACCENTO IMPERATIVO. L’aspetto che maggiormente contraddistingue la persona umana è la sua interiore apertura sull’infinito: per cui la sua tendenza più profonda e più qualificante, è quella che la sollecita a muoversi verso Iddio. La legge o l’ordine morale, inteso in tutta la sua ampiezza, è, soprattutto, la traduzione in termini di conoscenza di quella apertura e di quella tendenza; e indica, IMPERATIVAMENTE, la direzione di fondo che si è chiamati a seguire nel proprio operare: qualunque sia l’oggetto immediato e specifico, in cui si concreta o il fine contingente che attraverso esso ci si propone di conseguire. In sintesi san Tommaso: "A ciascuno si addicono per natura quegli atti con i quali tende al suo fine naturale; mentre quelli opposti sono per lui naturalmente disdicevoli. Ebbene, sopra noi abbiamo dimostrato [cc. 17, 25] che l’uomo per natura è ordinato a Dio come a suo fine. Perciò gli atti con cui l’uomo viene portato alla conoscenza e all’amore di Dio sono naturalmente retti; mentre quelli che tendono all’opposto sono per lui naturalmente cattivi" ("Contra gentes", III, c. 129/7). Ne segue che alla base della legge e dell’ordine morale sta la natura del rapporto tra persona umana e Dio. Rapporto che si caratterizza per la sua ASSOLUTEZZA: scaturisce infatti da quello che ogni persona è e NON può non essere: creatura di Dio; e da quello che Iddio è e NON può NON essere; il suo Creatore: fonte prima da cui attinge il suo essere e da cui dipende totalmente nel suo esistere e nel suo operare; il fine ultimo a cui tende dal più profondo di se stessa.
Senonché la persona umana — come del resto ogni altra realtà — trae dalla NATURA del suo essere la NORMA del suo operare: Operari sequitur esse. Per cui vi è un nesso INTRINSECO tra l’assolutezza di quel rapporto sul piano esistenziale e l’assolutezza della legge morale sul piano operativo. Nell’agire umano il rapporto tra uomo e Dio si sviluppa in due momenti: il delinearsi nell’animo della legge morale; l’affiorare in esso della voce della coscienza. La legge morale è, come si è già detto, la traduzione in termini di conoscenza della tendenza, dell’esigenza, dell’aspirazione di muoversi verso Iddio; la coscienza è l’applicazione di quella legge alle singole situazioni concrete in cui si svolge la vita: situazioni che si succedono incessantemente l’una all’altra. La legge è la strada che indica all’operare umano la direzione di fondo; la coscienza è la individuazione e la indicazione dei singoli passi che si chiamati a fare in quella direzione in ogni momento della vita. La legge morale è la mediazione tra essere UMANO E L’OPERARE UMANO: la coscienza è l’imperativo morale ad operare nella luce di quella mediazione.
Nell’epoca moderna — soprattutto nell’Occidente -, in coincidenza più che a motivo del processo di secolarizzazione, sono sorte e si sono diffuse correnti di pensiero e ideologie nelle quali si tende a considerare o si considera la legge morale come promanante dal di dentro di quella realtà vivente che è ogni singola persona. È una legge — si afferma — che NASCE DALL’UOMO E FINISCE NELL’UOMO SENZA ALCUN RIFERIMENTO A DIO: guardare ad essa in una prospettiva che trascende l’uomo è cadere nel mito; anzi è spogliarla del suo autentico valore. Certo la legge morale promana dall’uomo: è la SUA legge. Ma l’uomo, nel suo profondo, è egli stesso una ESIGENZA D’INFINITO. La sua legge quindi gli chiede e non può non chiedergli che, mentre opera, si muova SEMPRE in armonia con quell’esigenza, si muova cioè verso Iddio; e renda sempre più luminoso e sempre più vivido il suo rapporto di comunione con lo stesso Iddio. E si ritiene che in ciò trovi la sua spiegazione il fatto universale, o quasi, che attraverso secoli e millenni nella storia di tutti i popoli — per quanto diverse fossero o siano le diverse culture — innumerevoli esseri umani sono vissuti nella persuasione che LA LEGGE E L’ORDINE MORALE SI FONDINO SU DIO. Ed è stato pure diffuso, e lo è ancora, il considerare VOCE DI DIO IL DETTAME DELLA COSCIENZA: dettame attraverso il quale, come si è già osservato, la legge morale, viene concretamente applicata ai singoli atti umani.
"Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare ed a fare il bene ed a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore; obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (cf. Rm. 2, 14-16). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nel’amore di Dio e del prossimo (cf. Mt. 22, 37-40); Gal. 5, 14). Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale" ("Gaudium et spes", n. 16; "Dignitatis humanae", n. 3).»
La verità è che la voce della coscienza esiste e corrisponde ad una legge morale naturale; la legge positiva non è che un tentativo di oggettivare e universalizzare quella voce, tenendo conto di tante circostanze esterne, di tanti fatti collaterali che, nella vita concreta, inevitabilmente s’intrecciano e si sovrappongono a quelle semplici norme, a quelle limpide e chiare indicazioni.
Invano i cattivi maestri e i ciechi che vorrebbero farsi guida delle masse si sforzano di confonderci, di sminuire o deformare questa semplice, immediata verità: perché vera è la cosa che si accorda al giudizio, e il nostro giudizio sa e sente e riconosce che quella voce che viene dal fondo dell’anima, purché noi le facciamo un po’ di silenzio intorno e ci prendiamo il disturbo di ascoltarla — ma sovente, ammettiamolo, anche se quel disturbo non vorremmo prendercelo affatto, poiché non ci conviene — è proprio la voce di Dio che risuona in noi, nel santuario del nostro spirito.
L’uomo non è veramente uomo se ignora la propria parte spirituale, la propria parte divina; se misconosce o finge di non vedere quella spinta, quell’anelito, quel bisogno imperioso dell’anima — che Pietro Pavan chiama "esigenza", ma noi preferiamo chiamarlo proprio "bisogno", e, se ci è consentito, vorremmo indicare con una parola più forte ancora, come "fame", per indicarne l’imperiosa immediatezza e la prepotente vitalità — di slanciarsi verso le regioni superiori, di trovare fuori di sé la spiegazione e soprattutto la ragione del proprio esistere e della propria inesausta nostalgia: vale a dire nell’Essere da cui noi, come tutti gli altri enti, traiamo origine, e verso il quale siamo impazienti, pur senza saperlo, di fare ritorno.
Solo tenendo presente questa sua componente essenziale, ontologica, l’uomo è veramente uomo: allora egli non "è" solamente uomo, ma lo diventa, vale a dire che realizza la propria umanità mediante una partecipazione volontaria, sofferta, sincera. Molti sembrano uomini, e non lo sono; per dire meglio: paiono uomini, ma rimangono al di qua del loro essere uomini, della loro umanità. Pwre realizzare pienamente la propria vocazione ad essere umani, bisogna diventare persone: la persona è l’uomo che si realizza, che si modella secondo l’archetipo divino in lui presente, e che, divenendo quel che ha da essere, trova la risposta alle sue due domande, l’appagamento alla propria nostalgia, il nutrimento che placa la sua fame e la sua sete d’infinito. La persona, dice ancor Pavan, è sempre qualcosa di più grande dei propri errori: giustissimo; perché la persona non è un uomo qualsiasi, non è un semplice uomo come dato statico, biologico, ma è la realizzazione di quel disegno superbo, ammirevole, di cui la condizione umana é potenzialmente depositaria e che ciascuno di noi ha la facoltà di realizzare, oppure no.
Realizzare la propria missione umana, costituire la propria umanità sviluppando l’elemento personale: significa ascoltare la voce della coscienza e lasciarsi guidare dall’invito dell’Essere che a sé vuole ricondurre ogni cosa, ciascuna secondo la propria natura e ciascuna in base alla propria vocazione trascendentale. Non siamo semplicemente uomini, siamo chiamati ad esserlo; e, per farlo, dobbiamo trasformarci in soggetti coscienti e volenti, dotati di libero arbitrio e chiamati ad osare, a rischiare, a mettersi in gioco. Non si diviene persone restando nella bambagia, giocando al risparmio, ma assumendo sino in fondo la bellezza e anche i rischi e i sacrifici che il nostro destino finale comporta, per potersi pienamente inverare.
Questo è quanto siamo chiamati a fare, sfrondato di ciò che non è essenziale; e nient’altro.
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