
L’adorazione della tecnica tradisce il carattere necrofilo della civiltà moderna
29 Luglio 2015
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29 Luglio 2015Lo Stato moderno si definisce, in Europa occidentale, nell’arco temporale che va, all’incirca, dal XIV al XVII secolo. Non è ancora lo Stato-nazione, perché stati importanti, come l’Austria, si coagulano attorno al principio dinastico e non a quello nazionale; ma tende a diventarlo, perché i maggiori stati, dalla Francia, alla Spagna, alla Gran Bretagna, sempre più si configurano come monarchie nazionali, pur se la coincidenza fra nazione e stato non è, in essi, affatto completa, ora per difetto, ora per eccesso.
Quel che caratterizza veramente lo Stato moderno è l’accentramento della giurisdizione e l’esercizio effettivo della sovranità da parte della monarchia, laddove gli stati medievali, basati sul sistema feudale, erano poco più che mosaici estremamente compositi di popoli e di territori, su una minima parte dei quali si esercitava l’effettiva giurisdizione centrale: nel caso della monarchia capetingia, ad esempio, sulla sola Île de France, il territorio intorno alla città di Parigi.
Pertanto la nascita dello Stato moderno è il risultato della lotta secolare tra le antiche aristocrazie guerriere, da una parte, rappresentate dal particolarismo feudale, e l’astro nascente delle monarchie intenzionate ad imporre la propria sovranità effettiva su tutto il territorio e su tutti i sudditi, inclusi i membri del clero. Ciò accadde a partire dalla fine del 1200 e dall’inizio del 1300, per una serie di fattori sia interni, sia esterni (nel caso delle monarchie iberiche, la serie di guerre religiose contro gli Arabi, denominata "Reconquista").
Nel caso della monarchia francese, dapprima — agli inizi del XIII secolo vi fu l’asservimento della grande nobiltà feudale, che si realizzò, in pratica, nel corso della crociata contro gli Albigesi, durante la quale venne inflitto un colpo irreparabile ai conti di Tolosa e alle altre altri potenti signorie occitaniche; poi, un secolo dopo, lo scontro diretto con la Chiesa, nella persona di Bonifacio VIII (oltraggio di Anagni) e, come corollario, la persecuzione dei Templari: ciò pose fine a ogni pretesa di autonomia del clero francese rispetto a Filippo IV il Bello.
C’era però un problema: la costruzione dello stato moderno richiedeva grossi capitali, per sostenere un apparato burocratico e amministrativo che si sovrapponesse, sostituendolo, alla rete dei poteri feudali semi-autonomi, i quali avevano, fino ad allora, esercitato il governo effettivo delle province, a nome della monarchia, ma, di fatto, quasi sempre nel proprio interesse prevalente. Era dunque necessario un inasprimento fiscale — ciò che spinse alla compilazione dei primi catasti -, ma ciò non era sufficiente: occorreva molto denaro, e i sudditi non potevano essere tassati oltre un certo limite (non a caso il XIV secolo è passato alla storia come il secolo delle grandi rivolte contadine e anche urbane).
Lo Stato moderno aveva bisogno, infatti, non solo di funzionari, amministratori, magistrati; aveva anche bisogno di un grosso esercito, per imporre la volontà del sovrano sia all’interno, che all’esterno: e i progressi nella tecnica militare, specialmente l’invenzione delle grosse bocche da fuco, rendevano operosissimo l’allestimento di tali eserciti. Le vecchie signorie feudali o le signorie regionali italiane, eredi dei Comuni, potevano mantenere piccoli eserciti pre-moderni, basati sulla cavalleria; ma ora erano necessarie somme enormi per pagare grandi eserciti di fanti bene addestrati (come gli arcieri inglesi che riportarono tante strepitose vittorie nella Guerra dei cent’anni) e per allestire poderosi parchi d’artiglieria (si pensi al ruolo decisivo svolto dalla nuova arma nella caduta di Costantinopoli, le cui mura avevano resisti a tanti assedi nei mille anni precedenti il 1453).
Occorreva, dunque, tassare la nobiltà e il clero, o almeno incominciare a farlo; però la cosa si presentava estremamente difficile e laboriosa, dati i mille ostacoli che questi due ordini privilegiati erano ancora in grado di mettere in campo per sottrarsi a una vera e propria tassazione sistematica, almeno fino al 1789( fu ben questo problema che indusse Luigi XVI a convocare gli Stati generali, innescando, senza volerlo, il processo che sarebbe sfociato nella Rivoluzione francese). Dunque non restava altra strada che quella di procurarsi denaro con mezzi straordinari, come la confisca delle proprietà di singoli ordini religiosi, accusati, ad arte, di colpe gravissime (i templari all’inizio del XIV secolo, i gesuiti nel corso del XVIII) o anche della Chiesa cattolica in quanto tale (come avverrà nei Paesi che aderirono alla Riforma protestante).
E tuttavia, ancora non bastava. Lo stato moderno è una formidabile macchina che divora denaro, sempre più denaro: guerra chiama guerra, dunque sempre nuove spese militari; e la confisca dei beni della Chiesa e la soppressione degli ordini religiosi induce lo Stato a farsi carico, almeno in parte, dei servizi che essi svolgevano nella società, dall’istruzione alla sanità. Non restava altra via che quella di indebitarsi con chi, il denaro, lo aveva: i grandi banchieri fiorentini nel caso della Francia e dell’Inghilterra del XIV e XV secolo, i banchieri tedeschi per l’elezione al trono imperiale di Carlo V, nella cattedrale di Aquisgrana, nel 1520.
Talvolta, però, anche le risorse dei banchieri erano insufficienti, oppure le monarchie si trovavano nell’impossibilità di pagarli. Che fare, dunque? Restava ancora una strada da percorrere: quella di far pagare grandi somme di denaro agli Stati nemici, dopo averli sconfitti, addossando loro le responsabilità della guerra. È quel che fecero, in forma assai rudimentale, i "conquistadores" spagnoli nelle Americhe, e specialmente Francisco Pizarro, allorché chiese e ottenne che i sudditi peruviani riempissero una stanza di metalli preziosi in cambio della liberazione (che non vi fu) del loro sovrano, l’inca Atahualpa, a Cuzco, nel 1532-33. Ed è quel che incominciarono a fare gli Stati europei ai danni degli altri Sati europei, dopo averli sconfitti in guerra.
Wallenstein, nel corso della Guerra dei trent’anni, aveva affermato che la guerra si alimenta con la guerra, vale a dire che gli eserciti si pagano con i saccheggi e le contribuzioni forzate imposte alle popolazioni dei Paesi sconfitto o semplicemente attraversati (anche se, in teoria, amici). Lo avevano già fatto i capitani di ventura del tardo Medioevo, per esempio l’inglese John Awkwood; si trattava, adesso, di farlo a spese non di singole popolazioni, ma imponendo delle vere e proprie riparazioni di guerra ai governi delle nazioni sconfitte.
Allorché la Prussia sconfisse la Francia, nel 1870-71, le impose il pagamento di cinque miliardi di franchi come indennità di guerra: cifra che parve enorme, ma che il governo della Terza Repubblica fu in gradi di pagare ancor prima della scadenza. Quando, poi, fu la Germania a trovarsi sul banco degli sconfitti, alla conferenza di Versailles del 1919, i suoi delegati si videro imporre, senza poter discutere, la somma astronomica di 132 miliardi di marchi oro a titolo di riparazione per i danni inflitti alla Francia e ai suoi alleati durante la Prima guerra mondiale. Era una cifra mostruosa, inconcepibile, tanto più per un governo dalle finanze totalmente dissestate, come lo era la Repubblica di Weimar: ma Clemenceau, che voleva ad ogni costo una pace punitiva, fu irremovibile; e più tardi, nel 1923, quando i Tedeschi si mostrarono lenti a dar seguito all’assurda richiesta, l’esercito francese entrò in armi nella Ruhr, il maggiore bacino carbonifero tedesco, provocando loro la seconda crisi economica nel giro di cinque anni.
Una cosa appare dunque evidente: nelle guerre moderne non basta vincere, bisogna stravincere, per poter accollare alla nazione sconfitta, dopo averle fatto riconoscere la propria responsabilità esclusiva, il pagamento di somme astronomiche, sì da pagare i debiti contratti con la finanza internazionale e, possibilmente, guadagnare anche qualcosa per soprammercato, sì da rilanciare la macchina dell’economia nazionale. Un governo che, in piena guerra, si accontentasse di un semplice armistizio, di un sempòice ritorno allo "status quo ante", si troverebbe a dover affrontare il problema insolubile dell’immenso indebitamento dello stato: è questa la ragione per cui il semplice buon senso e la buona volontà non sono bastate a porre fine alla Prima guerra mondiale, nemmeno quando le nazioni belligeranti erano esauste e desideravano tutte, più o meno, la stessa cosa: por fine ad ogni costo all’immensa carneficina («l’inutile strage» di Benedetto XV).
Questo tragico circolo vizioso, questa spirale perversa, per cui la guerra non può finire con una pace di compromesso, neanche quando appare evidente che essa durerà molto più di quel che si era pensato e che costerà rovine e distruzioni molto maggiori di quel che si sarebbe mai immaginato, è stata benissimo illustrata in una pagina di prosa, non di uno storico di professione, ma di un romanziere contemporaneo, Ken Follet, che qui ci piace riportare per la sua cristallina chiarezza (da: K. Follet, «La caduta dei giganti»; titolo originale: «Fall of Giants», 2010; traduzione dall’inglese di A. Colombo e altri, Milano, Mondadori, 2010, pp. 554-5):
«Il mese precedente [siamo in Inghilterra, negli ultimi mesi del 1916] nell’Aryshire c’era stata un’elezione suppletiva, un’elezione votazione in un solo collegio per sostituire un membro deceduto del palamento. Al candidato conservatore, il generale di corpo d’armata Hunter-Weston, che aveva combattuto sulla Somme, si contrapponeva un pacifista, il reverendo Chalmers. L’alto ufficiale aveva vinto con un risultato schiacciante. 7.149 voti contro 1.300.
"Tutta colpa dei giornali" commentò Ethel, frustrata. "Che cosa può fare a favore della pace la nostra piccola pubblicazione di fronte a tutta la propaganda messa in campo da quel maledetto di Northcliffe?" Lord Northcliffe, fanatico militarista, ea il proprietario del "Times" e del "Daily Mail".
"Non si tratta soltanto dei giornali, c’è anche la questione economica".
Bernie era molto attento alla finanza pubblica, una stranezza per uno che non aveva mai in tasca più di qualche scellino.
Ethel vide la possibilità di scuoterlo dal suo malumore, per cui gli chiese: "In che senso?"
"Prima della guerra il nostro governo spendeva complessivamente mezzo milione di sterline al giorno per esercito, tribunali e carceri, istruzioni, pensione e amministrazione coloniale: tutto quanto."
"Così tanto!" Ethel gli sorrise con affetto. "Questo è il genere di dato che mio padre non trascurava mai".
Bernie bevve un sorso di cioccolata. "Indovina quanto spendiamo ora".
"Il doppio? Un milione al giorno? Sembra impossibile".
"Sei ben lontana. La guerra costa cinque milioni di sterline al giorno, dieci volte di più del normale costo di gestione del paese".
Ethel era sbalordita. "Da dove arrivano tutti questi soldi?"
"Proprio qui sta il problema. Li prendiamo in prestito".
"Ma la guerra va avanti da oltre due anni: dobbiamo aver chiesto… quasi quattromila milioni di sterline!"
"Una cosa del genere. Venticinque anni di spesa pubblica ordinaria".
"Come faremo a restituirli?"
"Impossibile riuscirci. Un governo che cercasse di imporre tasse sufficienti per ripagare questo debito provocherebbe la rivoluzione".
"E allora cosa succederà?"
"Se perdiamo la guerra, i nostri creditori, soprattutto americani, finiranno in bancarotta. Se la vinciamo, sarà la Germania a dover pagare. Sono quelle che si definiscono ‘riparazioni di guerra’.
"Ma come faranno ‘loro’"?
"Finiranno alla fame, ma tanto a nessuno importa cosa succede ai perdenti. Comunque i tedeschi hanno imposto lo stesso trattamento ai francesi nel 1871". Andò a mettere la tazza nel lavandino. "Capisci perché non possiamo fare la pace con la Germania? Altrimenti chi pagherebbe il conto?"
Ethel era esterrefatta. "Così continuiamo a mandare i nostri giovani a morire nelle trincee solo perché non siamo in grado di saldare il debito. […] Viviamo davvero in un mondo orribile".»
Chiaro, no? C’è una sola cosa da aggiungere. La guerra non è mai finita: oggi si fa con le armi dell’economia e della finanza; e, di nuovo, i Paesi soccombenti devono finanziare, attraverso il meccanismo del debito, il benessere di quelli che risultano vincitori…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash