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La legge naturale è inscritta nella coscienza perché possa distinguere il bene dal male

La cultura del relativismo, oggi non solo dominante, ma che pretende di essere, lei sola, quella politicamente corretta, parte da una autentica fobia nei confronti dell’idea della verità: pretende che la verità non esista, e che anche solo il volerne parlare rappresenti un atto di autentica arroganza intellettuale, meritevole delle più aspre ripulse e della censura più radicale.

Sarebbe assai lungo esaminare tutti i rivoli e i torrenti che, scorrendo sempre più torbidi e limacciosi, hanno creato quest’ampio fiume, quasi un mare, il mare opaco del relativismo e del soggettivismo estremi, dove è vero tutto e il contrario di tutto, dove non si ammette altra verità che quella del momento, e dove la molteplicità dei punti di vista e la frammentazione dell’io hanno portato alla confusione più completa circa il fatto conoscitivo, e all’agnosticismo più spinto quanto all’esistenza di un mondo oggettivo — il mondo dell’essere.

Da Kant e da Hegel in poi, in particolare, si dà quasi per scontato che il reale sia quello che appare, quello che sembra, quello che si manifesta; che un reale "in sé" non esista affatto, o che, se pure esistesse, sarebbe impossibile raggiungerlo, o anche solo averne cognizione; che il bello e il brutto, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto non siano altro che pregiudizi, convenzioni, formule interessate prive di effettiva sostanza ontologica; e insomma che la ricerca della verità equivalga a quello che ciascuno crede, che a ciascuno sembra, così come lo crede e così come gli sembra che sia («as you like it»: fate un po’ come vi piace).

La vecchia formula tomista, secondo la quale la verità non è che l’accordo fra la cosa e il giudizio, è stata messa in soffitta, fra la polvere delle cose inutili e sorpassate: non ha forse Kant dimostrato, una volta per tutte, che la cosa in se stessa è al di là della nostra portata? Non ha forse dimostrato, con la massima chiarezza ed evidenza, che tutto quel che possiamo fare è cercar di conoscere i fenomeni, e non le cose in quanto tali? Ed Hegel, il gran Coribante (come giustamente lo chiamava Schopenhauer), non si è dato un gran daffare per convincerci che tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale, e pertanto che non serve cercare la verità, perché essa è comunque conforme a ragione, manifestazione dello Spirito Assoluto, e, in quanto tale, auto-evidente? La filosofia, allora, cessa di essere quel che era sempre stata finora, ricerca dell’essere, per diventare una cosa del tutto nuova: una "ideosofia", ossia una ricerca dell’idea e non dell’essere: la verità non concerne più l’essere, ma solo l’idea che dell’essere ci siamo fatta. Sembrerebbe, di primo acchito, che ciò implichi un passo indietro, una forma di umiltà conoscitiva, di modestia intellettuale; niente di più falso, di più lontano dal vero (se ci è lecito adoperare ancora questa vecchia e decrepita terminologia, che, orribile a dirsi, sa di metafisica). È, tutto al contrario, la forma più estrema di presunzione e quasi un delirio d’onnipotenza: se tutto quel che serve è conoscere l’idea, allora io posso anche fare della mia idea l’idea suprema, l’idea universale, e pretendere che tutti gli altri si prostrino davanti ad essa; inoltre, io divengo il solo esegeta, il solo interprete autorizzato dell’Idea (divenuta, mediante qualche abile gioco di prestigio da illusionista di professione, "Idea" con la iniziale maiuscola), io solo sarò in grado di spiegare cosa significhi, come funzioni, e perfino i suoi piccoli trucchi (l’astuzia della Ragione!): precisamente quello che fa Hegel, il grande Coribante, il re di tutti gli ideosofi, senza pudore e senza senso del ridicolo.

Resta una piccola questione: se tutto è Idea, che ne sarà dell’idea del bene e del male? Evidentemente, il bene e il male hanno un senso se vengono posti non da un’idea (perché un’idea non può sorreggere un’altra idea, a meno di voler innescare un processo di regressione all’infinito), ma dall’essere; però se l’essere scompare nelle nebbie del relativismo, e il pensiero prende il suo posto, quale pensiero sarà autorizzato a pensare la distinzione del bene e del male? Il mio, il tuo, il suo: quale? Oppure quello di Dio? Ma Dio non c’è più, perché Dio è la Verità; e non una verità qualsiasi, ma la verità dell’Essere (questo, sì, con l’iniziale maiuscola): mentre, per gli ideosofi e per tutti i loro numerosi figlioli e nipotini — i marxisti per primi, non importa quanto attardati, patetici e tormentati dalla cattiva coscienza: li riconosci dal vizio, anche se hanno perso il pelo — la sola verità che conti è quella dell’Idea: la verità dello Spirito, o quella della Classe, o quella del Conscio e dell’Inconscio, oppure, ancora, quella della Patria, fatta di sangue e suolo; o magari, perché no, quella del Progresso, della Tecnica, dell’Economia, del Profitto (tradotta nel linguaggio di Ezra Pound: dell’Usura).

Diceva San Giovanni Crisostomo, che fu il secondo patriarca di Costantinopoli e uno dei massimi teologi cristiani vissuti fra IV e V secolo (da: G. Crisostomo, «Omelie al popolo antiocheno (Delle statue)», a cura di Carmelo Conti Guglia, Roma, 1958, pp. 290-293):

«[…] Dio, plasmando l’uomo nella creazione, gli infuse la legge naturale.

In che senso gli infuse la legge naturale? Plasmò la coscienza e la volle autodidatta nella conoscenza del bene e di ciò che non è bene. Non abbiamo bisogno di imparare che la fornicazione è un male, e la continenza è un ben: lo sappiamo da noi fin dal principio.

Per farti vedere che lo sappiamo fin dal principio, il legislatore, quando alla fine ci diede la legge disse: "Non ammazzare", e non soggiunse: "L’omicidio è un male", ma semplicemente: "Non ammazzare". Proibì l’omicidio, non lo spiegò. Come mai dicendoci "Non ammazzare" non aggiunse "perché l’omicidio è male"? Perché la coscienza già prima ci aveva insegnato ciò. Dio ci ha parlato come a persone già dotte e bene informate. Quando invece parla di altri precetti la cui conoscenza non ci è data dalla coscienza, non si contenta di condannare ma aggiunge anche il motivo.

Dando la legge del sabato disse (Es., 20, 10): "E il settimo giorno non farai opera alcuna" aggiunse anche il motivo del riposo. Quale? Eccolo: "Perché nel settimo giorno si riposò il signore da tutte le opere sue che aveva cominciato a fare" ed ancora (Deut., 24, 18): "Perché fosti schiavo in terra d’Egitto".

Come mai, dimmi, per la legge del sabato aggiunse il motivo, per l’omicidio nulla di tutto questo? Perché quel precetto non è di quelli primordiali, dettati esattamente dalla coscienza, ma è particolare e temporaneo, tanto che fu poi abrogato. Necessari invece ed essenziali alla nostra vita sono: Non ammazzare, non fornicare, non rubare", perciò non ne dà il motivo né la spiegazione e si contenta della sola proibizione. […]

Cercherò di dimostrarvi che l’uomo è autodidatta riguardo alla scienza della virtù non solo così ma anche in un altro modo.

Peccò Adamo il suo primo peccato e dopo e dopo il peccato immediatamente si nascose. Se non sapeva di aver fatto male perché si nascose? Non v’era ancora la Scrittura, non la Legge, non Mosè; come mai conobbe il peccato e si nascose? Non solo si nascose ma richiamato cercò di gettare su un altro la colpa, dicendo (Gen. 3, 12): "La donna che mi hai dato, essa mi ha dato del frutto e l’ho mangiato", e questa, a sua vilta, rigettò su di un altro, sul serpente, l’accusa. Tu intanto osserva la sapienza di Dio. Quando Adamo disse (Gen. 3, 10): "Ho udito la tua voce ed ho temuto perché ero nudo e i sono nascosto", Dio non gli rinfacciò immediatamente il fatto né disse: "Perché hai mangiato il frutto?". Ma invece: "Chi ti ha mostrato che eri nudo?", se non il fatto che hai mangiato del frutto, del quale solo ti avevo comandato di non mangiarne?"

Né tacque né l’accusò apertamente. Non tacque del tutto per richiamarlo alla confessione del proprio peccato; non l’accusò apertamente, perché non tutto fosse opera sua e l’altro non rimanesse privo del perdono a noi derivato dalla confessione del peccato.

Perciò non disse chiaramente la causa della sua nudità ma condusse il discorso per via di domande lasciando all’altro di procedere alla confessione. […]

Lo stesso si può notare nell’episodio di Caino e Abele. Prima offrivano a Dio le primizie delle loro fatiche. Possiamo così dimostrare non solo dal peccato ma anche dalla virtù che l’uomo è dotato della conoscenza di ambedue. Adamo ha dimostrato che l’uomo sapeva esser male il peccato, Abele dimostra che conosceva esser bene la virtù. Da nessuno l’aveva imparato, non aveva ascoltato la legge delle primizie, ma offriva quel sacrificio da se stesso per il solo dettame della coscienza.

Perciò non parlo dei discendenti ma restringo il mio ragionamento intorno ai primi uomini quando non c’era la Scrittura, non la Legge, non i profeti né i maestri ma il solo Adamo con i suoi figli, affinché tu veda che nella stessa natura era riposta la conoscenza del bene e di ciò che bene non è.

Come mai Abele sapeva che era bene fare offerte e onorare Dio e ringraziarlo in tutto?

Perché dunque — si obietterà — non faceva offerte anche Caino? Le faceva sì, anche lui, ma non allo stesso modo.

Anche questo ci manifesta che c’è un dettame della coscienza; poiché aveva invidia dell’onore di Abele e gli meditava la morte, nascose la sua intenzione di tradimento e che disse? (Gen. 4, 8): "Vieni, andiamo nel campo. Altro è l’apparenza: ipocrita bontà, altro è il pensiero: intenzione fratricida. Se non capiva che l’intenzione era cattiva perché la nascondeva? E dopo compiuto il delitto, interrogato da Dio: "Dove è Abele tuo fratello?, rispose: "Non lo so. Sono forse custode di mio fratello io?". Perché lo nega? Certo perché era ben cosciente della cosa.

Come il padre suo si era nascosto, così costui nega e dopo la condanna dice (Gen. 4, 13): "È troppo grave la mia colpa perché mi sia perdonata."»

Dunque: la legge naturale esiste; ci è stata data "ab origine", fin dall’atto della nostra venuta al mondo; tutti ne possiedono una qualche nozione, o meglio, tutti ne avvertono la presenza, tutti sentono di non poterla ignorare: tanto è vero che, se si accingono a calpestarla, vanno in cerca di giustificazioni.

Se la distinzione del bene e del male fosse puramente convenzionale, se fosse del tutto artificiale ed estrinseca, perché allora gli uomini, allorché stanno per fare il male, o dopo che lo hanno fatto, si premurano di giustificarsi presso gli altri e presso se stessi; perché dicono di non aver potuto fare altrimenti, perché sostengono di aver fatto ricorso a una qualche forma di legittima difesa? Perfino i torturatori, perfino i sadici, affermano di aver dovuto agire così come hanno agito, per cause di forza maggiore: per evitare qualche sciagura, o per sfogare un impulso irresistibile, di cui non sono responsabili. Ma lo sono, invece. Solo che non vogliono ammetterlo, perché, se lo facessero, dovrebbero assumersi la responsabilità del loro agire. Lo sapeva già Fedro: perché, altrimenti, il lupo, nell’atto di piombare sull’agnello e divorarlo, si è sentito in dovere di attribuirgli la colpa di quel che stava per accadere, o, non potendo, di attribuirla ai suoi genitori?

Stiamo bene attenti: qualcuno sta giocando col fuoco. Predicare l’inesistenza del vero, o la sua irraggiungibilità, significa scherzare col fuoco e preparare l’avvento d’un mondo orribile, pieno di lupi bramosi di piombare sugli agnelli indifesi, per sgozzarli e divorarli. Una cosa è sostenere che la ricerca della verità è cosa ardua, specialmente se non illuminata dal principio superiore, cioè dall’Essere; e un’altra cosa, ben diversa, è negare che vi sia la Verità, ma che esistano solo tante piccole, conflittuali verità relative. I sofisti che predicano simili dottrine stanno accendendo le braci d’un incendio che rischia di divorare ogni possibilità di civile convivenza fra gli uomini. I pazzi fanatici che distruggono (oltre alle vite altrui) le statue antiche di millenni, i templi, le tracce del passato, sono convinti che la verità non risieda nell’essere, ma nell’idea: ovviamente, nella loro idea, ad esclusione di tutte le altre. È questo il futuro che vogliamo?

Eppure, fino a qui ci siamo adoperati per presentare la mancanza di verità non come una carenza da colmare e di cui vergognarsi almeno un poco, ma come una ricchezza da esibire con orgoglio, come una evoluta e intelligente strategia per combattere l’intolleranza; e abbiamo imbellettato questa impotenza, questa miseria, queste fumisterie da sofisti, con i nomi altisonanti del pluralismo, del multiculturalismo, dell’apertura mondialista. Abbiamo scambiato la confusione di Babele per una forma di dialogo, la migliore, la più proficua e moderna: a tal punto è giunto il nostro accecamento. E adesso, signori? Pensate davvero, su questo caos fumante, di poter edificare un mondo nuovo?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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