
Nelle «Tuscolane» di Cicerone le eterne domande sulla vita, sulla morte e sul dolore
29 Luglio 2015
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29 Luglio 2015Per i popoli vale, in fondo, la stessa regola che vale per gl’individui: per vedere di che stoffa son fatti, bisogna guardarli al momento della prova; e quanto più la prova sarà dura, dolorosa, perfino umiliante, tanto più risalteranno il loro valore o la loro pochezza.
Si prenda il caso della Repubblica romana dopo la disfatta di Canne, nel 216 avanti Cristo: una delle più grandi battaglie nella storia dell’antichità, e — per Roma – una delle più grandi disfatte: talmente grande che ben pochi, allora, avrebbero scommesso sulla sua capacità di ripresa; tutti, o quasi tutti, al contrario, contavano i giorni della sua caduta finale e irreparabile. Tanto è vero che gran parte dei popoli italici l’abbandonarono, armi e bagagli, passando al nemico.
Fu un disastro dalle proporzioni immani, inaudite: caddero sul campo di battaglia, insieme ai due consoli in carica, Gaio Terenzio Varrone e Luicio Emilio Paolo, qualcosa come 50.000 soldati romani, tra fanti e cavalieri (secondo Tito Livio), e addirittura 76.000, secondo un’altra fonte (lo storico greco Polibio); e ciò a fronte di un bilancio delle perdite cartaginesi assolutamente trascurabile (da 6.000 a 8.000 combattenti), tale da lasciare Annibale non solo padrone del campo, ma, con l’esercito pressoché intatto, anche in grado di scorrazzare liberamente, in lungo e in largo, per tutta la Penisola e di minacciare direttamente la stessa capitale nemica.
Lo storico che ha maggiormente colto questo aspetto della storia romana, la straordinaria capacità di ripresa, scaturita dalla forza del sentimento nazionale, dalla fierezza, dalla volontà di fare fronte comune, come un solo uomo, contro la mortale minaccia esterna, mettendo da parte ogni polemica, ogni dissenso e ogni interesse privato, è stato il padovano Tito Livio: uno storico-poeta, certamente non immune dalla retorica nazionalista, o, quanto meno, dalla tendenza a idealizzare e a nobilitare tutto ciò che riguarda la sua patria. E tuttavia, la sua narrazione deve ritenersi sostanzialmente attendibile, nell’insieme se non in tutti i particolari, perché è un dato di fatto che il popolo romano seppe rialzarsi da una catastrofe gravissima, laddove molti altri popoli, in quelle stesse circostanze, avrebbero disperato del futuro e si sarebbero arresi alla forza imperscrutabile del Fato: una forza talmente minacciosa, che gli stessi dèi, secondo la mentalità antica, si vedevano costretti ad inchinarsi davanti ad essa.
Ha scritto Augusto Serafini (in: A.A. V.V., «Virgilio, Orazio, Sallustio, Livio, Tacito», Firenze, Sansoni Editore, 1977, pp. 285-287):
«Le conseguenze della disfatta di Canne — la più grande batosta militare che Roma abbia mai avuto — furono enormi: quasi tutta l’Italia passava in potere di Annibale (Liv., XXII, 54: "Hannibalis… iam prope totam Italiam factam"); in Roma, all’annuncio della sconfitta, "non c’era mai stato tanto sbigottimento e così grande tumulto" (ivi). Bisognava rifare l’esercito; ma scarseggiavano i giovani, cosicché si approvò una legge in virtù della quale si potevano arruolare perfino quelli che avevano meno di diciassette anni (XXV, 5). Così dopo l’immane disastro di Caporetto furono arruolati all’inizio del 1918 i nati nel ’99 e nel ‘900!
E dopo Canne furono arruolati perfino 8.000 schiavi: cosa finora inconcepibile per un romano, dato che lo schiavo era generalmente un "captivus", un prigioniero di guerra, e per la legge latina non era più nemmeno un uomo, ma solo una "res". Fu inoltre deliberata ed approvata all’unanimità una sottoscrizione nazionale: tutto l’oro, l’argento, il rame dei privati doveva essere consegnato allo Stato, in un grandioso prestito nazionale (XXVI, 36). Insomma, la disfatta cannense mobilitò tutte le risorse fisiche e spirituali di Roma: "nessun altro popolo non sarebbe stato schiacciato sotto il peso di tanto disastro (XXII, 54: "Nulla profecto alia gens tanta mole cladis non obruta esset").E, a poco a poco, avvenne il "risorgimento": con la conquista di Siracusa, grandiosa roccaforte punica, ad opera di Marcello nel 212 a. C.; con l’espugnazione di Taranto, formidabile alleata di Annibale, nel 209; con la guerra portata dagli Scipioni nella Spagna, che era stata interamente conquistata dai Cartaginesi. […]
Dopo Canne l’esito della seconda guerra punica sembrava ormai deciso; senonché dopo soli cinque anni Roma era riuscita a ristabilire le sorti in modo tale che "per l’uno e per l’altro contendente tutto rimaneva sospeso con speranze e timori integri, proprio come se allora la guerra cominciasse da capo" (XXVI, 37, 9). Come avvenne simile miracolo? Nessuno ce lo dice meglio di Scipione nel suo magnanimo discorso ai soldati in Spagna: "La Trebbia, il Trasimeno, Canne che altro sono se non ricordi di eserciti e di consoli romani annientati? Si aggiunga la defezione della maggior parte dell’Italia, della Sicilia, della Sardegna; si aggiunga l’ultimo tremendo terrore, l’accampamento punico posto tra l’Aniene e le mura di Roma, ed Annibale apparso fin sotto le porte da vincitore. In cotanta rovina, sola rimase in piedi, integra e fermissima, la virtù del popolo romano. Tutto giaceva prostrato a terra: fu essa che ogni cosa rialzò e sostenne" (XXVI, 41). Solo la "virtus" romana, quella facoltà di "patire le prive terribili" ("pati fortia"), può spiegare come, a breve distanza dall’immane disastro, le sorti erano state bilanciate: per terra e per mare (dice Livio in un importante capitolo dove si esamina la situazione: (XXVI, 37) gli eventi si compensavamo a vicenda: i Romani avevano subito dei rovesci in Spagna ma nello stesso tempo ottenuto splendidi successi in Sicilia con la presa di Siracusa, roccaforte cartaginese; e se in Italia avevano perduto Taranto, in compenso avevano espugnato Capua, dove Annibale aveva il suo campo principale.
Tale era dunque la situazione. In Roma erano stati eletti consoli Claudio Nerone e Livio Salinatore (XXVII, 34): e proprio in quel tempo era giunta una preoccupante notizia. Il fratello di Annibale, Asdrubale, che operava in Spagna, aveva lasciato i suoi quartieri d’inverno e stava passando le Alpi, per congiungersi in Italia con il fratello, e tentar di dare il colpo di grazia ai Romani (ib., 39). Era assolutamente necessario impedire il ricongiungimento, che poteva risultare fatale: proprio per questo il console Claudio Nerone, on parte del suo esercito operante nell’Italia meridionale, contro Annibale, mosse verso il nord, con l’intenzione di unirsi alle forze del collega Livio Salinatore, che operava nel Piceno (od. Marche) per bloccare la discesa di Asdrubale. I due consoli riuscirono a congiungere le forze nei presi di Senigallia, dov’era situato il campo del Salinatore; e decisero di attaccare immediatamente l’esercito cartaginese, prima che dal sud potesse arrivare Annibale.»
E sarà la splendida riscossa del fiume Metauro (207 a. C.), una vera e propria rivincita su Canne, nella quale i Romani, con la perdita di soli 2.000 uomini, riuscirono a distruggere pressoché totalmente l’esercito condotto in Italia da Asdrubale, forte di circa 30.000 uomini: quando Annibale si vide gettare nel proprio accampamento la testa decapitata del fratello, comprese che la guerra era entrata in una fase completamente nuova e che il nemico, da lui quasi messo a terra, si era rialzato in tutta la sua forza e si preparava ad assestargli il colpo definitivo (che sarebbe giunto con la battaglia di Zama, in Africa, nel 202, nella quale il condottiero romano, Scipione l’Africano, ritorse contro di lui la magistrale manovra a doppio avvolgimento che i Romani stessi avevano subito a Canne, e che ora vide la distruzione quasi totale dell’esercito cartaginese).
Nelle pagine di Livio, dicevamo, rivive un "epos", quella della forza morale indistruttibile di Roma, quello della sua quasi miracolosa capacità di ripresa: quella sua forza incommensurabile, che la metteva in grado di superare le prove più terribili, di medicare le ferite più crudeli, di ritrovare tutta la necessaria fermezza, senza mai sbigottirsi, senza mai vacillare, senza mai dubitare — neanche per un solo istante — della propria buona causa e della certezza circa la vittoria finale. È un "epos" del quale gli antichi Romani potevano andare giustamente fieri, perché rispecchiava un aspetto fondamentale del loro carattere nazionale: la fierezza, la fortezza, la saldezza morale, l’amor di patria spinto sino all’estremo spirito di sacrificio. Pochi popoli, nella storia antica — e, in verità, anche in quella medievale e in quella moderna — possono vantare una simile fortezza d’animo, un simile indomabile coraggio, anche nelle circostanze più avverse: tanto più che Roma non era nemmeno una nazione, ma una semplice città: una città che avrebbe realizzato il più grande impero del mondo antico e che vi avrebbe edificato il più alto monumento al diritto — almeno fino a quando la corruzione morale, determinata dalla stessa immensità e dalla sbalorditiva rapidità delle conquiste militari, con l’estensione massiccia della schiavitù e dell’economia servile, non avrebbe stravolto il carattere nazionale e preparato le condizioni per la decadenza e per l’inglorioso crollo finale.
Non sono molti, dicevamo, i popoli che hanno saputo mostrarsi altrettanto grandi nel momento della prova più dura: nel caso dell’Italia, come abbiamo visto, Augusto Serafini propone il parallelismo con la resistenza sul Piave, dopo la disfatta di Caporetto. Qualche analogia, in effetti, c’è; ma esiste anche una differenza sostanziale: a Canne, i Romani avevano combattuto con il massimo slancio e con la ferma volontà di vincere, e si erano fatti massacrare sul posto; a Caporetto, l’esercito italiano — salvo qualche episodio isolato — combatté poco e male, e, anche a causa di una serie di gravissimi e quasi inconcepibili errori degli alti comandi (come il silenzio delle artiglierie pesanti nel settore decisivo dello sfondamento), si lasciò prendere dal panico assai prima che l’esito della lotta fosse deciso, facendo sì che una sconfitta tattica si trasformasse, nel giro di pochi giorni, in una catastrofe strategica che avrebbe pesato come un macigno, non solo sul buon nome dell’esercito e del Paese, ma anche sulle effettive possibilità di ripresa. Eppure, poco dopo, fra novembre e dicembre, sul Piave, sul Grappa e sugli Altipiani, quello stesso esercito che era ignominiosamente fuggito, lasciando dietro a sé 250.000 prigionieri e 2.300 pezzi d’artiglieria, scriveva pagine gloriose, addirittura eroiche, nell’arrestare l’avanzata nemica: pagine che, però, non hanno potuto cancellare l’onta di Caporetto, anche se la l’hanno certamente vendicata. L’Italia, inoltre, in quel drammatico frangente, poté avvalersi dell’aiuto delle altre potenze dell’Intesa e, poco dopo, anche degli Stati Uniti d’America, da poco entrati in guerra, con tutto il loro immenso potenziale industriale; mentre Roma, all’indomani di Canne, non poté contare sull’aiuto di nessuno, anzi, dovette assistere alla defezione di numerosi alleati, che si unirono ad Annibale, il probabile vincitore.
No: per fare un paragone efficace con la disfatta di Canne e con la straordinaria ripresa della Repubblica romana dopo il 216, bisogna andare all’8 settembre del 1943: ma è, purtroppo, un amarissimo confronto, che ci porta ad una conclusione del tutto negativa circa l’Italia moderna. La dissoluzione pressoché totale, non solo delle Forze Armate, ma anche dell’apparato statale, che si verificò dopo l’armistizio di Cassibile, sottolineata dalla fuga ignominiosa del re e del capo del governo dalla capitale (capitale ove il rapporto delle rispettive forze militari era decisamente a favore degli Italiani rispetto ai Tedeschi), dimostra che gli Italiani non possedevano nemmeno la centesima parte dello spirito nazionale che animava gli antichi Romani. Non solo: quello stesso armistizio, che operava un capovolgimento di fronte rispetto agli ex nemici ed agli ex alleati, gettava una macchia incancellabile sull’onore della nostra classe dirigente, una macchia che quest’ultima non ha mai saputo veramente riscattare nei decenni successivi, pur essendole stata offerta più volte l’occasione: dalla lotta alla mafia e alla corruzione, sul piano interno, a tutta una serie di scelte nella politica internazionale, sul piano esterno, essa è rimasta sostanzialmente quella dell’8 settembre. Ecco perché la Repubblica Italiana odierna dovrebbe riconoscere come padre della Patria non Garibaldi o Vittorio Emanuele II, ma il maresciallo Pietro Badoglio: un uomo per tutte le stagioni, il quale, uscito misteriosamente indenne dall’inchiesta su Caporetto (nonostante le sue gravissime responsabilità nella disfatta), salì i più alti gradi della gerarchia politico-militare, accumulò gloria, titoli e ricchezze sotto il fascismo, e poi si rifece, dalla mattina alla sera, una verginità anti-fascista, tenendo a battesimo la "rinascita" democratica dopo la ventennale dittatura.
Questa è la bruciante, rimossa verità: l’Italia democratica nasce dal mantello di Pietro Badoglio, dalle trame massoniche, dagli opportunismi di un re senza coraggio e senza onore, dai complotti di una gerarchia politica e militare e di una classe di finanzieri e grandi industriali che avevano scientemente perseguito la sconfitta militare e politica del Paese, per costruire, sulle macerie della nazione e sull’annientamento dei suoi futuri destini, le proprie carriere, per inseguire le proprie misere ambizioni, al servizio di poteri stranieri nemmeno tanto occulti (basti pensare al vergognoso articolo 16 della Trattato di pace di Parigi del 1947, con cui l’Italia s’impegnava a «non molestare, né perseguire» quanti avevano fiancheggiato l’azione degli Alleati durante il conflitto).
Perché, nelle prove supreme attraverso le quali, talvolta, i popoli (come gl’individui) sono passati al setaccio, il buon esempio deve partire dalle classi dirigenti: e una classe dirigente di traditori non può che generare l’umiliazione nazionale. Il problema non è Canne: ma come si reagisce a Canne…
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