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29 Luglio 2015La caduta delle foglie: un evento naturale che non cessa d’affascinare e suscitar domande

Nel sesto libro dell’«Iliade», durante il loro colloquio estemporaneo e commovente (un intermezzo gentile in mezzo alle stragi sanguinose sotto le mura di Troia), Omero fa dire da Glauco a Diomede che gli uomini sono come le foglie: cadono al soffio del vento e di loro si perde, un po’ alla volta, anche la memoria; una similitudine bella e giustamente famosa, che ha introdotto nella poesia occidentale delle epoche successive il tema fortunato della caducità delle cose umane e il succedersi incessante delle generazioni e delle stirpi.
Infatti, lo spettacolo autunnale delle foglie che cadono, quando soffiano con forza i venti del Nord e la pioggia flagella le chiome, finché gli alberi si spogliano di tutto il loro manto (altra immagine stupenda, creata questa volta da Dante, nel canto quinto dell’«Inferno»: «Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie…»), è uno di quelli che parlano direttamente al cuore e che suggeriscono, nello stesso tempo, anche alla persona più distratta o superficiale, pensieri profondi e un po’ malinconici: in un certo senso, suggerisce a tutti una certa quale atmosfera poetica e desta in ciascuno quella vena di romanticismo, ricca o modesta che sia, la quale sembra giacere in fondo all’anima, in attesa che qualche spettacolo offerto dalla natura, simile a questo o di pari suggestione (la notte delle stelle cadenti, per esempio), giunga a ridestarla e a ravvivarne la fiamma.
E tuttavia, ispirazione poetica a parte: perché, precisamente, cadono le foglie? È proprio vero che il vento le porta via? No: non è il vento, e neppure il freddo; tanto è vero che lo stesso fenomeno, la caduta delle foglie, si verifica pure nei paesi a clima tropicale, ma non al principio dell’autunno, come da noi, bensì al principio dell’estate, e per una ragione pressoché opposta: per la cessazione delle piogge, e non, come nei paesi temperati, per l’abbondanza di queste, accompagnata dai venti vigorosi del settentrione. Tanto basta per farci avvertiti che la causa della caduta del fogliame non può essere imputata al vento, il quale, semmai, si limita ad affrettare il fenomeno, e a far sì che si compia nell’arco di qualche giorno, o, magari – come suole accadere in occasione d’un violento nubifragio – nell’arco di poche ore appena.
Scriveva Bruno Baldi nel suo limpido e attraente corso di scienze naturali per la scuola media («Interroghiamo la natura»,Torino, Paravia, 1963, vol. 3, pp. 44-45), un testo dal quale hanno appreso l’amore per tale disciplina molti che appartengono alla nostra generazione:
«La caduta delle foglie è un fenomeno che avrai tante volte osservato: è lo spettacolo suggestivo e poetico, che l’autunno ogni anno ci offre.
Gli alberi restituiscono alla terra le loro verdi spoglie.
Nelle regioni a clima temperato, come la nostra Italia, la caduta delle foglie avviene ai primi freddi autunnali. In altri paesi tropicali la caduta delle foglie coincide con l’inizio dell’estate.
Come mai le piante si comportano in così diversa maniera?
Non è il caldo o il freddo che direttamente fan cadere le foglie. È un’altra la ragione. Tu sai che le piante traspirano attraverso le foglie, cioè eliminano vapore acqueo.
Nelle regioni tropicali il periodo estivo è caratterizzato dalla mancanza di piogge: le piante seccherebbero tutte se continuassero a traspirare regolarmente attraverso le foglie. Invece le lasciano cadere e passano il periodo di siccità in una specie di sonno estivo.
Nelle regioni temperate accade che all’inizio dell’autunno il freddo fa abbassare la temperatura del terreno: le radici delle piante, allora, non riescono più a trarre da esso quella quantità d’acqua di cui han bisogno. Se la traspirazione delle piante continuasse normalmente, le piante seccherebbero completamente. E così, più o meno rapidamente, le piante si liberano dalle foglie.
In certe piante (faggio, nocciolo) la caduta delle foglie ha inizio dalla cima dei rami e va verso la base. In altre invece (tiglio, salice, pioppo) avviene il contrario: cadono prima quelle più in basso e poi quelle dei rami superiori.
La caduta delle foglie è certo una perdita di sostanze per le piante: è un danno ma presenta anche dei notevoli vantaggi. D’altra parte la pianta, prima di perdere il suo verde manto, ha compiuto una… operazione di ricupero dalle cellule delle foglie: ha portato via amidi, zuccheri, grassi, li ha messi da parte per utilizzarli poi in primavera per creare nuove e più giovani foglie. Ecco perché le foglie, prima di cadere, cambiano colore e diventano gialle o arancione o brune in infinite sfumature, creando con i loro colori il meraviglioso paesaggio autunnale. La pianta dunque cede alla terra solo gli scheletri delle foglie, ricche soprattutto di una sostanza, che si è accumulata durante l’estate, l’ossalato di calcio. Questa sostanza non solo non è più utile alla pianta, ma le riuscirebbe dannose, se la conservasse ancora.
La caduta delle foglie ha un po’ anche il compito di purificare la pianta e liberarla dalle sostanze inutili o dannose: una operazione simile alla escrezione degli animali.
Le foglie cadute al suolo lentamente si decompongono e contribuiscono alla formazione dell’humus, che, come sai, è un elemento fondamentale per la fertilità del terreno.
Come si staccano le foglie?
È forse il vento che le porta via con il suo gelido soffio?
Certo le foglie cadono più facilmente e rapidamente per lo stimolo di cause esterne; ma è la pianta stessa, che lavora per liberarsi delle foglie.
Essa forma sul picciuolo delle foglie una specie di anelo di cellule, che ha il compito di operare la separazione delle foglie dalla pianta.
Basta allora un alito di vento o il peso stesso delle foglie a determinarne la caduta.»
Gli alberi, dunque, si sbarazzano della loro chioma per evitare che la traspirazione delle foglie li depauperi di tutta l’acqua di cui hanno bisogno per vivere, seccandoli completamente; o meglio, si comportano in questo modo le latifoglie, non le aghifoglie, perché queste ultime, avendo un manto fogliare molto meno esteso quanto a superficie, non corrono il rischio che la traspirazione degli aghi le possa disseccare. Pertanto si direbbe che la caduta delle foglie sia un espediente, quasi una strategia, di cui si serve la natura per evitare alla pianta il pericolo di restare senza acqua, oltre che per eliminare le sostanze chimiche di rifiuto; e, inoltre, per concimare il terreno, favorendo la formazione e la crescita dell’humus necessario alla vita di nuovi organismi vegetali.
Tutto chiaro, dunque? Niente affatto: prima di tutto perché, come ammoniva il grande scienziato Enrico Medi, noi, a rigor di linguaggio, non dovremmo mai adoperare espressioni come: «la natura fa questo», «la natura fa quell’altro», per il semplice fatto che la "natura" non è un qualcosa a cui corrisponda una realtà oggettiva e di per sé evidente, qualcosa di unitario e di coerente, ma l’espressione di cui ci serviamo per abbracciare l’insieme dei fenomeni che si producono spontaneamente: in altri termini, un concetto destinato ad uso pratico, cui non dobbiamo, però, commettere l’errore di attribuire una esistenza indipendente. In secondo luogo, la caduta delle foglie come "strategia" della natura, oppure, se si preferisce, come "strategia" del singolo albero e della singola pianta, volta ad assicurare la loro sopravvivenza, suggerisce un finalismo che, sul piano filosofico, possiamo, sì, sostenere, ma solo dopo averlo pensato e dimostrato e non certo ponendolo, o presupponendolo, come elemento già dato e già riconosciuto.
Peraltro, la cultura moderna, e particolarmente la scienza moderna (galileiana), hanno sostituito la domanda, di matrice aristotelica: «A che scopo, a che fine avviene quel dato fenomeno?», con la domanda (molto più modesta e molto più pragmatica): «In che modo avviene quel tale fenomeno?», segnando il passaggio da una idea di scienza che mira all’individuazione delle cause finali, a una idea di scienza puramente descrittiva, che vuole catalogare i vari fenomeni, ma che non si arrischia a dire alcunché riguardo alla ragione ultima per la quale essi avvengono. Ciò significa che, oggi, gli scienziati non si chiedono più, in quanto scienziati, "perché" accadono i fenomeni: basta loro sapere che accadono e indagare come accadono: è uscito dal loro orizzonte concettuale, e perfino dalla loro ricerca di senso, tutto ciò che ha a che fare con la domanda ultima circa i fenomeni naturali; e, dato il prestigio indiscusso, e quasi esclusivo, di cui gode oggi il sapere scientifico, grazie alle poderose applicazioni tecnologiche cui ha dato occasione, ed allo stupefacente potere predittivo di cui si è mostrato capace, anche coloro che scienziati non sono, hanno finito per lasciar cadere la domanda ultima, compresi coloro — i filosofi — che, quella domanda, non dovrebbero mai, per statuto epistemologico, perdere di vista.
Se tutto ciò sia stato un bene o un male, non è qui il caso di discutere; per ora, ci limitiamo a prenderne atto: la cultura moderna ha smesso d’interrogarsi, o, per dire meglio, non ritiene più ragionevole interrogarsi, riguardo al senso ultimo dei fenomeni, e, in definitiva, riguardo al reale in se stesso, il famoso "noumeno" di kantiana memoria: la "cosa in sé", che in metafisica, per secoli e millenni, i filosofi chiamavano, semplicemente, "l’essere", e ne facevano il cuore pulsante del loro orizzonte speculativo.
Ciò osservato, torniamo adesso alla questione delle foglie che cadono. Si è visto che gli scienziati hanno individuato diverse "ragioni" per spiegare tale caduta, ed hanno stabilito che, in ultima analisi, è la pianta stessa, e non gli agenti esterni (i quali offrono, semmai, la semplice occasione) a lasciar cadere il proprio manto fogliare; però abbiamo anche visto che sarebbe semplicistico, e ingiustificato, una volta abolita, o comunque esclusa, la domanda ultima — perché esistono le cose ed avvengono i fenomeni? –, pretendere di vedere in queste "ragioni" una vera e propria intenzionalità della natura, o una vera e propria strategia da parte delle piante.
Qui sta il punto. Una scienza fondamentalmente descrittiva, tutta presa dall’osservazione e dalla quantificazione dei fenomeni, non può avere, della natura, che una concezione distaccata e quantitativa: li guarda come se fosse possibile separare nettamente la loro realtà, dalla realtà di colui che osserva; e si appaga di constatare che, in presenza di questo o quel fenomeno — per esempio, il raffreddamento del suolo nei climi temperati, in autunno, o la cessazione delle piogge nei climi tropicali, d’estate – provoca questo o quell’altro fenomeno — la caduta delle foglie, senza la quale la pianta rischierebbe il disseccamento. Ma questa è una visione molto povera, molto riduttiva, molto piatta dei fenomeni naturali: le manca il sale, le manca l’anima. Inoltre, nel suo distacco, nel suo meccanicismo, finisce per vedere i viventi esclusivamente dal punto di vista fisiologico: come funzionano, a quali condizioni; come fossero, appunto, macchine e non già organismi.
In realtà, i settori della ricerca scientifica più avanzati, particolarmente la fisica delle particelle sub-atomiche, hanno abbandonato, e da gran tempo, l’illusione di potersi porre dal punto di vista di un osservatore estraneo e neutrale, e hanno compreso che i fenomeni e l’osservatore formano un tutto unico e inseparabile, per cui è impossibile che l’osservazione della natura prescinda dal particolare angolo prospettico da cui la si considera. Ma la cultura scientifica nel suo insieme, o meglio, ciò che della cultura scientifica viene somministrato al grande pubblico, e va a formare l’opinione generale intorno ai fenomeni naturali, è ben diverso: una classe di divulgatori scientifici chiusi in un attardato neopositivismo auto-referenziale, e un certo numero di scienziati che amano andare in televisione o rilasciare interviste, più di quanto amino fare seriamente e modestamente lavoro di ricerca, o non se ne sono accorti, o non ne vogliono sapere, e continuano, imperterriti, a diffondere un’idea parziale e limitata della scienza.
Dunque: la domanda, perfettamente legittima: «perché cadono le foglie?», dovrebbe suggerirci che l’"angolo morto" dell’ultimo perché, ossia della metafisica, è stato archiviato troppo in fretta. Certo, non è compito specifico dello scienziato andarlo a rivisitare; è compito, semmai, del filosofo, e, naturalmente (e più ancora), del teologo; questo, però, non significa che lo scienziato possa restarvi del tutto indifferente. Il modo in cui lo scienziato fa le domande, riflette l’orizzonte concettuale da cui prende le mosse: in altre parole, riflette la sua "Weltanschauung", la sua visione del mondo. Ma gli scienziati, oggi, hanno una visione dl mondo? E ce l’hanno i filosofi? Ne hanno una le persone di cultura? O non succede, al contrario, che la cultura moderna, in nome di un progressismo fine a se stesso, che si risolve, di fatto, in un sempre più accentuato relativismo, ha proclamato che tutte le visioni del mondo devono essere bandite, messe in quarantena, evitate come la peste, perché non esiste alcuna verità assoluta, ma esistono soltanto le molte verità parziali delle quali, volta a volta, è possibile stendere un catalogo, e fare una lettura plausibile, ma esteriore, proprio come fa la scienza distaccata, meccanicista e descrittiva di matrice galileiana?
Il fatto è che la scienza moderna si sta infilando, sempre di più, in un vicolo cieco. Da un lato, proclama che i fenomeni accadono non per qualche ragione, ma che accadono e basta, e tutto quel che occorre fare, è osservarli, misurarli, spiegarli; dall’altro, avendo cura di escludere qualsiasi riferimento alla metafisica, la scienza moderna si preclude la spiegazione ultima dei fenomeni, nel momento stesso in cui mette in dubbio una intenzionalità della natura. Ora, se i fenomeni accadono e basta, per studiarli, prima o poi, sarà sufficiente un computer, nel quale vengano immessi tutti i dati disponibili; ma se ci si azzarda a chiedere perché accadono, non si può rispondere né che accadono per una strategia della natura, poiché questa sarebbe una forma di metafisica, né, tanto meno, che accadono per disegno divino, poiché questa sarebbe teologia.
E allora, «perché i fenomeni accadono?», finisce per diventare una domanda indiscreta, scorretta; una domanda — paradossalmente, ma non tanto — che è meglio evitare di porre. È sufficiente, dicono i seguaci della scuola neopositivista, e, ancor più, i filosofi del linguaggio, che la domanda abbia un senso in termini non già di contenuto, ma di pura e semplice logica: non è importante sapere se, in questa stanza, ci sono o non ci sono dei rinoceronti; basta sapere che una tale domanda è logicamente ammissibile: quanto al suo contenuto di verità, spetta alle scienze naturali, volta per volta, verificare se a una determinata affermazione, o a una determinata ipotesi, corrisponda una situazione di fatto, oppure no. «Vero», pertanto, finisce per essere non ciò che è vero, ma ciò che è attualmente riscontrabile e scientificamente sperimentabile e riproducibile. In altre parole, se una cosa non risulta vera dal punto di vista empirico, non viene accreditata come vera neanche dalla ragione strumentale e calcolante. Tuttavia, essa non viene, per ciò stesso, negata: semplicemente, la si valuta come veritiera, o no, dal punto di vista logico-sintattico: sicché finisce per essere vera una cosa che sia possibile formulare mediante il linguaggio, senza che vi si riscontri una qualche contraddizione logica.
Strana scienza; e strana concezione di ciò che è vero, di ciò che è sensato, di ciò su cui si ammette che sia lecito formulare delle domande. Il pensiero moderno, da Kant in poi, ha veramente consumato una forma radicale di auto-castrazione. E la nostra visione del reale, il nostro orizzonte di significato, il nostro stesso sentimento della bellezza — a cominciare dalla bellezza delle cose sensibili, ossia degli enti e dei fenomeni naturali — sono diventati terribilmente angusti, terribilmente aridi, terribilmente presuntuosi nella loro ristrettezza concettuale.
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