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Kafka: un trapezista del nulla dall’ego smisurato, che ha disgusto per la vita

La letteratura della crisi: che espressione roboante! E come viene pronunciata con sussiego, con rispetto, con ammirazione, quasi che si trattasse di quanto di meglio ha prodotto la storia letteraria dell’Occidente negli ultimi mille anni. Quando poi si passa ad elencare i nomi — Proust, Svevo, Pirandello, Kafka, Musil, Thomas Mann, Joyce, Woolf — c’è chi arriva a provare, saremmo pronti a scommetterci, dei brividi segreti di piacere, qualcosa di assai simile all’orgasmo. Quelli, sì, che erano scrittori; quelli sì, che erano dei giganti! Hanno strappato la maschera delle apparenze "borghesi", hanno mostrato l’inconsistenza, la putredine della vita, la dissoluzione della società, la decomposizione di tutti i valori. Che grand’uomini! Che coraggiosi, che intrepidi, che cavalieri solitari, senza macchia e senza paura! Quando ancora tutti gli altri scrittori si attardavano a coprire con le loro misere bende l’atroce realtà, loro, sdegnosi di ogni finzione e di ogni ipocrisia, laceravano i veli e mettevamo a nudo, nella maniera più impietosa — ma per essere buoni, chirurghi, si sa, bisogna anche saper essere spietati — la cruda verità, l’arido vero di leopardiana memoria, sfrondato di ogni menzogna e di ogni finzione.

Certo, dei grandi distruttori. Ma sapevano anche costruire, sapevano anche indicare una strada, una possibile via d’uscita, una qualunque forma di redenzione? Eh, via, che domande stupide! Di quando in qua uno scrittore deve improvvisarsi anche maestro di morale? Chi potrebbe pretendere da lui che si faccia maestro di saggezza, che sostituisca ilo prete, o il teologo, o il metafisico — professioni già abbastanza screditate, peraltro, perfino sul loro stesso terreno — figuriamoci su quello della letteratura. N, n, cari signori: a ciascuno il suo. Allo scrittore l’arte di scrivere, al prete, semmai, o al mistico, l’arte (ingannevole, o addirittura interessata) di consolare. Non facciamo confusioni. Lo scrittore ha già la sua nobile missione: quella di descrivere le cose come stanno. Non è forse abbastanza? Si potrebbe pretendere da lui qualcosa d’altro? Ci penserà il politico, semmai, o l’economista,m o il sociologo, a trovar le soluzioni; e se proprio si vuole andare a fondo, c’è sempre pronto il lettino dello psicanalista. Del resto, non è forse vero che tutti costoro — i Kafka, i Proust, i Joyce, gli Svevo — vengono fuori dal lettino di Freud, così come i grandi romanzieri russi del XIX secolo vengono fuori dal cappotto di Gogol?

Insomma: uno scrittore non è grande, anzi, non è nemmeno un vero scrittore — e lo stesso discorso vale per i filosofi, i teologi, gli artisti, i musicisti, persino gli scienziati – se non mostra piena consapevolezza del fatto che la vita è una cosa orribile, detestabile, odiosa; che il mondo è frutto del caso, se non di un dio maligno e beffardo; che il nostro esserci è semplicemente privo di senso, e che il nulla è la destinazione finale di tutte le nostre speranze e di tutte le nostre lotte, i nostri sacrifici, la nostra capacità di amare. Opinare diversamente, o anche solo dischiudere una tenue prospettiva di speranza, è indegno di un uomo ragionevole e responsabile, è indegno, soprattutto, di un vero intellettuale; infatti è il mestiere dei preti, un mestiere ormai obsoleto e abbondantemente screditato, perché fondato sull’impostura e sulla malafede. Il vero scrittore è colui che esprime il male di vivere, che parla di noia, di tedio, di vuoto esistenziale; che manifesta nausea e disgusto per il fenomeno vita, sospetto e fastidio nei confronti del prossimo («l’inferno sono gli altri», ammonisce Sartre, il grande guru dell’esistenzialismo); che guarda alla vita come si guarda a una pianta aliena, a un animale schifoso, a un pianeta incomprensibile e assurdo: colui che non si lascia prendere in giro dalle dottrine della consolazione, che disprezza anzi, dal profondo, qualsiasi forma di consolazione. Egli non vuole consolare, né essere consolato: vuole soffrire e bere sino in fondo l’amaro calice dell’esistenza. È un eroe del nulla, un fachiro della dissoluzione, un profeta dell’annientamento cosmico, che non fa sconti a nessuno, tanto meno a se stesso.

Prendiamo Kafka, che la cultura oggi dominante fa passare per un grande maestro, per uno che ha saputo vedere lontano, strappando i veli della finzione. Ogni tanto perfino i critici politicamente corretti si lasciano uscire dalla penna la definizione giusta: trapezista del nulla lo definisce Pietro Citati, che evidenzia come sia forte, nello scrittore ebreo praghese, il disgusto della vita; come esso sia, anzi, la nota dominante di tutta la sua scrittura e di tutta la sua concezione del reale. Solo che essi, naturalmente, non ne traggono le debite conclusioni: hanno sfiorato la verità, ma non l’hanno saputa, o piuttosto voluta, vedere: perché ciò contrasterebbe con tutti i loro pregiudizi "moderni", con la loro professione di fede nichilista e auto-referenziale. Formano un circolo esclusivo, nel quale si entra solo alle loro condizioni. Uno scrittore che non presenti le caratteristiche sopra descritte, semplicemente non viene riconosciuto: tale la sorte che è toccata, tanto per fare solo un nome, ad Eugenio Corti e al suo «Cavallo rosso»: un caso letterario che avrebbe dovuto decretare l’ingresso di un nuovo autore nel Pantheon dei classici, e che invece è rimasto lì, nel Limbo, nella terra di nessuno, perché Corti è uno scrittore cattolico e perché la sua visione del reale non è nichilista e disperatamente pessimista come quella di Kafka., Svevo o Pirandello.

Ma lasciamo parlare lo stesso Citati (da: P. Citati, «Kafka», Milano, Rizzoli, 1987, pp. 19-20, 23):

«Non aveva basi né radici; non aveva suolo sul quale posarsi;, nemmeno quel poco terreno sul quale gli altri posano i piedi e dove vengono sepolti; non aveva patria né famiglia nP cuore né sentimenti; e se tentava di pensare, tutte le idee non gli venivano dalla loro radice, ma da qualche punto verso la metà. "Provatevi allora a tenerle", gridava allora, "provatevi a tenere e ad aggrapparvi a un filo d’erba che cominci a crescere soltanto a metà dello stelo." La sua vita era come un esercizio dei giocolieri giapponesi, i quali s’arrampicano su una scala che non posa sul terreno ma sulle piante sollevate di un compagno che sta disteso, e la scala non è appoggiata alla parete ma si leva ritta nell’aria. Cosa poteva fare allora, se non imitare quei trapezisti del nulla, che rimasero il simbolo più fedele della sua arte? E salire anche lui sulla scala senza radici? Così, imparò a poco a poco i suoi esercizi. Camminava sopra la trave, che lo conduceva sull’abisso dell’acqua, senza avere nessuna trave sotto i piedi. Non vedeva che la propria immagine riflessa nell’acqua, e quella proiezione diventava il suolo sul quale muoversi: il suo ego irreale era alle volte così forte da parere uno dei cinque continenti conosciuti, e gli permetteva di tenere unito il mondo con i piedi. Camminava, camminava, con le braccia distese nell’aria, che gli tenevano luogo del lungo palo dell’equilibrista. […]

Lo Scapolo, lo Straniero, che era in Kafka, , aveva disgusto della vita: proprio l’esistenza di ogni giorno, quella che sembra più toccante e indifesa, suscitava in lui l’odio tremendo dello gnostico. Non poteva vivere nel disordine e nel caos: non poteva sopportare la residenza estiva dei suoi, dove l’ovatta igienica stava accanto al piatto pieno di cibo, dove camicie da notte, vestiti e maglie si accumulavano sui letti sfatti, dove il cognato chiamava teneramente la moglie "tesoro mio" e "mio tutto", dove il bambino faceva i suoi bisogni sul pavimento , dove il padre urlava, cantava e batteva le mani per divertire il nipotino. "Mi annoio a fare conversazione", diceva Kafka, "mi annoio a far visite, le gioie e i dolori dei miei parenti mi annoiano sino in fondo all’anima. La conversazione toglie a tutto ciò che penso la sua importanza, la serietà, la verità".»

È un ritratto sostanzialmente esatto, perfino acuto: e, come si vede, non è il ritratto di un maestro; non è nemmeno il ritratto di un uomo maturo, che abbia raggiunto il suo equilibrio e un minimo di saggezza. La base della saggezza è la compassione: e compassione, in questo triste entomologo dell’anima umana, non se ne vede. Si vede, si percepisce il fastidio, l’uggia, la noia (Moravia è uno dei suoi tanti discepoli); nessuna tenerezza, nessuna umana pietà; e, in fiondo, nessuna vera curiosità umana. Gli uomini lo interessano, per così dire, dall’esterno: li osserva con un misto di curiosità e di ribrezzo, poi li ripone sullo spillone della sua collezione, insieme a tutti gli altri. Un collezionista di cadaveri, non un vero osservatore della vita. Eppure non è un necrofilo, nel senso che non priva alcun piacere nel sezionare i suoi cadaveri, le sue anime in putrefazione: non prova alcun piacere perché non prova altro piacere che sia quello di osservare se stesso, di contemplare se stesso, di vedere ovunque il riflesso di se stesso,. Anche in questo, Citati ha fatto centro. Il mondo, per Kafka, è un immenso gioco degli specchi: in qualunque direzione si volga, non vede che la propria immagine; e, del resto, null’altro gli interessa. È costituzionalmente incapace di uscire da se stesso: per farlo, sarebbe necessario un minimo di simpatia umana, un minimo di tolleranza e di "pietas"; e lui non ne ha. Gli esseri umani gli fanno schifo; la vita, per lui, è un disgustoso e incomprensibile incidente, un incubo a occhi aperti, un sortilegio di qualche sinistro negromante, che si fa beffe di noi e di tutto quel che possiamo sentire o pensare.

Pure, questo sacerdote del nulla non rimane freddo e impassibile davanti a tanto orrore: avverte la tragicità della situazione, e, da buon ebreo che non crede più nel Dio dei suoi padri, ma che ne trasferisce l’immagine su tutto ciò che glielo ricorda (a cominciare, proprio come piace tanto a Freud, dal suo stesso padre, che diventa il Padre del Vecchio Testamento, corrucciato e debordante, infinitamente amato e odiato, perché infinitamente invidiato), avverte un terribile, inesorabile, torturante senso di colpa. Egli stesso si sente in colpa, non sa di che cosa; sente che è colpevole, sente che deve espiare, sente che dal suo sacrificio potrebbe dipendere, forse, la salvezza di tutti – anche se degli altri poco o nulla gli importa: però essi possono almeno rendergli il servizio di divenire indispensabile per il mondo, mediante il proprio stesso sacrificio.

Anche qui, Citati va dritto al cuore della cosa: Kafka è colui che vorrebbe offrirsi in sacrificio per la salvezza altrui:; come Gregor Samsa, il protagonista de «La metamorfosi», che, divenuto un orrendo scarafaggio, rifiutato e lasciato morire di fame dai suoi familiari, compie il miracolo postumo di rinsaldare la propria famiglia, di redimerla dalle ombre minacciose del Nulla. Ma poi non tira le somme, non fa due più due: critico troppo raffinato, troppo colto, troppo acuto, vede bensì le foglioline, ma gli sfugge la foresta, la palizzata dei tronchi secolari. In questo desiderio d’espiazione che non nasce da una lucida coscienza della colpa, ma solo da una oscura sensazione di colpa, c’è tutto Kafka e tutto il dramma della cultura moderna: perché non esiste possibilità di redenzione senza un vero desiderio di espiazione; e il desiderio di espiazione presuppone la coscienza di non aver risposto alla chiamata, di aver eluso il proprio destino. Ma per chi non crede né alla vocazione, né al destino, per chi crede solo al caos, non può maturare alcun desiderio di espiare: espiare che cosa, poi?

Ed eccolo la spirale viziosa, il corto circuito esistenziale. La vita è assurdo e genera noia e disgusto; ma vivere così non è possibile, bisogna trovare il modo di redimere la vita: e che altro fare, se non offrirsi in olocausto? Eppure un tale sacrificio non sere a nulla, non è nemmeno un vero sacrificio: si sacrifica chi ha qualcosa di valore da sacrificare, non chi possiede solo la propria angoscia e la propria disperazione. Quello non sarebbe un sacrificio, ma una liberazione dal peso della vita: e farlo passare per un sacrificio di espiazione non sarebbe che una misera furbizia. Il sacrificio ha valore, se è sacrificio di qualcosa; non serve a niente, se è sacrificio di niente. Se la vita é niente se la vita è solo un peso e una maledizione, una beffa atroce, uno spettacolo di marionette messo in sena da un burattinaio pazzo, il sacrificio non serve a nulla e non redime nessuno. Nel migliore dei casi è un bel gesto da esteta decadente; nel peggiore, uno spaccio di moneta falsa.

L’uomo non può redimersi da sé, specialmente se non crede nella vita. Se la vita lo condanna all’insignificanza, allora qualsiasi sacrificio che egli compia, non possiede il benché minimo significato: men che meno un significato di salvezza. Del resto, io non posso sacrificarmi, se non mi so colpevole: e nessuno è così innocente da poter recitare la parte di Cristo. Kafka è uno scrittore che ha visto l’abisso, sul cui ciglio si muove la civiltà moderna, e ne è rimasto ipnotizzato. Non ha visto altro, non ha capito altro. Non è un uomo delle altezze, ma solo delle vertigini. Non facciamone un maestro. Né di lui, né di quelli come lui. Hanno visto la crisi, l’hanno descritta con gli strumenti che il loro ego sconfinato metteva loro a disposizione: non hanno saputo andare oltre, hanno visto solamente la loro stessa immagine riflessa in cento specchi.

Il problema, naturalmente, non è Kafka. Il problema è che la cultura europea abbia decretato per scrittori come Kafka la qualifica di maestri: come dei ciechi che si facciano guidare da altri ciechi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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