
L’imperatore romano Valeriano fu catturato e ucciso da Shapur come punizione divina?
29 Luglio 2015
La «senectus imperii», dal punto di vista cristiano, preannuncia la «finis mundi»?
29 Luglio 2015Si è discusso a lungo, e talvolta con accanimento, fra gli storici dell’antichità classica e fra quelli delle religioni, se l’Impero Romano e il cristianesimo fossero, nella loro essenza, incompatibili, e se era inevitabile che i loro destini, dopo essersi più volte scontrati e, poi, apparentemente riconciliati, dovessero separarsi definitivamente, lasciando una distinta e opposta eredità all’Europa ed ai popoli delle età successive.
L’Impero Romano, dopo avere perseguitato a lungo la nuova religione, ma in maniera intermittente e senza una coerente base giuridica — caso di per sé unico nel corso della sua storia millenaria -, era poi divenuto un impero cristiano: di fatto, a partire dall’editto di tolleranza promulgato da Costantino e Licinio, nel 313, e di diritto, dall’editto di Tessalonica, con il quale gli imperatori Graziano, Teodosio I e Valentiniano II proclamarono il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero e bandirono tanto le eresie cristiane, quanto le antiche religioni pagane.
La "pars Occidentis", come è noto, durò fino a quando il generale barbaro Odoacre decise di porre fine alla sua esistenza ormai umbratile e di sciogliere la finzione giuridica che la teneva in vita, uccidendo il "magister militum" Oreste e deponendo dal trono il figlio di costui, Romolo Augusto, nel 476; mentre la metà greca dell’Impero, la "pars Orientis", sarebbe riuscita a sopravvivere ancora per quasi mille anni, fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi Ottomani, nel 1453. Dunque, l’Impero di Occidente, come impero cristiano, durò per circa un secolo (a differenza di quello bizantino, che durò per un millennio); Carlo Magno, peraltro, nell’800, e poi Ottone I, nel 962, lo avrebbero fatto rinascere, ma in un contesto molto diverso e con una differente prospettiva.
È difficile dire se la convivenza fra lo stato romano e la religione cristiana abbia giovato di più al primo, o alla seconda. Nel caso dell’Impero Romano d’Occidente (e senza considerare la sua "rinascita" carolingia e, poi, quella ottoniana), si sarebbe portati a pensare che abbia giovato di più al cristianesimo, che sopravvisse, mentre Roma cadde definitivamente, dopo un tempo relativamente breve, se confrontato alla durata totale della sua storia. E così, infatti, hanno concluso la maggior parte degli studiosi che si sono occupati di questo aspetto del problema circa le relazioni reciproche fra Impero e cristianesimo.
Il cristianesimo sopravvisse perché seppe convertire sia le popolazioni germaniche che invasero l’Impero di Occidente e ne scrissero la parola "fine", sia quelle che vivevano al di là delle frontiere e che non erano mai state sottomesse dai Romani; tanto che, quando altre ondate migratorie si sarebbero rovesciate sull’Occidente, proprio quei popoli, di recente cristianizzati, sarebbero stati i suoi più validi difensori. In altre parole, il cristianesimo sopravvisse perché, a un certo punto, decise di dissociare il proprio destino da quello dello Stato che lo aveva accolto e fatto suo, per concentrare la sua missione storica in un senso universalistico e non patriottico. Facendo così, esso evitò di condividere la stessa sorte dell’Impero, e si assicurò la possibilità di sopravvivere, in un mondo sconvolto, penetrando lentamente fra i popoli stessi che stavano mettendo a ferro e fuoco le antiche sedi e le più evolute istituzioni della civiltà greco-romana.
Tuttavia, non bisognerebbe avere tropo fretta di concludere che il cristianesimo svolse un ruolo puramente negativo nella storia del tardo Impero romano, come invece hanno fatto tanti storici, sulla scia di Edward Gibbon e della cultura illuminista. Tanto per cominciare, la scelta di abbandonare l’Impero al suo destino, pur di sopravvivere al suo probabile crollo, non fu fatta solo dalla Chiesa cattolica, ma anche dalla più antica istituzione dello Stato, quella che ne era, un po’, il simbolo vivente: il Senato. Anche i senatori, infatti, come il clero e i fedeli cristiani, si resero conto che avrebbero potuto sopravvivere qualora avessero dissociato il loro destino da quello dell’Impero, e non esitarono a farlo, anche se erano destinati a una fine ingloriosa e nemmeno troppo lontana: per la maggior parte essi perirono nel corso delle guerre greco-gotiche, combattute fra il 535 e il 553, e comunque se ne perdono le tracce prima della fine del VI secolo. Nondimeno, il comportamento dei senatori, che in teoria detenevano la gelosa custodia del patriottismo romano, dimostra che, davanti all’incombere della rovina totale, essi non furono all’altezza delle loro tradizioni e preferirono tentare di ingraziarsi i favori dei nuovi padroni dell’Italia, gli Ostrogoti e i Bizantini; fecero male i loro calcoli e si dimostrarono poco lungimiranti, oltre che poco dignitosi, ma ciò non fu che un errore di valutazione. Quello che importa è notare come nessuno aveva il diritto di aspettarsi che la Chiesa cattolica si mostrasse attaccata alla sopravvivenza dello stato (uno stato, si badi, che per quasi tre secoli l’aveva ferocemente perseguitata, prima di convertirsi, con Costantino, in maniera palesemente opportunistica) più di quanto non lo fossero i "padri coscritti".
Ha osservato lo studioso Gerardo Zampaglione (in: G. Zampaglione, «L’idea della pace nel mondo antico», Torino, Edizioni E. R. I., 1967; cit. in: Tommaso Di Salvo e Bianca Portogalli, «Scrittori latini», Bologna, Zanichelli, 1973, vol. 3, pp. 224-226):
«…Malgrado le persecuzioni, la Chiesa ci teneva a essere giudicata, non come avversaria, bensì come vittima della macchina amministrativa, che un giorno si sarebbe necessariamente allineata sulle sue posizioni. Per questo il Nuovo Testamento invitava i credenti a rispettare l’autorità in base all’argomento che essa era di origine divina. Strana affermazione, a rifletterci bene, che attribuiva legittimità agli atti di una istituzione terrena, rea di perseguitare i cristiani. Il più celebre ammonimento in tal senso era stato quello relativo alla distribuzione di competenze tra Dio e Cesare. Ma Paolo non era stato meno categorico quando aveva proclamato: "Ogni anima sia sottomessa all’autorità superiore, poiché non esiste autorità che non discenda da Dio e quelle esistenti sono tutte ordinate da Dio. Per questo chi si oppone all’autorità resiste agli ordini di Dio. E quanti resistono, causano la propria dannazione". Questo passo rivela un preciso interesse a testimoniare al potere civile l’inconsistenza dell’accusa rivolta sovente ai Cristiani, di voler preparare un sollevamento contro lo stato. Questa manifestazione di lealtà non restava d’altronde isolata, ma ispirava altri passi dei Vangeli e delle Epistole, i cui estensori si mostravano consapevoli dei pericoli incombenti sulla nuova religione e dell’opportunità di orientarla verso l’accordo con il potere civile. Prevaleva così nella condotta della Chiesa una opinione favorevole a un accomodamento con l’autorità imperiale, a cui si abbandonava il governo esclusivo di un certo settore di attività terrena, mentre essa si riservava ogni potestà in materia spirituale. Si tendeva a valorizzare i momenti pratici della vita religiosa, avversando ogni intransigenza e ogni misticismo eccessivo. Questa stessa tendenza era destinata ad accentuarsi e a prevalere nella tradizione cristiana posteriore. Insistendo sulla necessità che l’attesa del regno non distogliesse i credenti dalle loro attività, né li inducesse a ribellarsi al’organizzazione statale, le "Epistole" si facevano interpreti di questo orientamento. Gli inviti a rispettare le autorità s’intrecciavano a quelli di agire con moderazione nei rapporti con il mondo. Riflettevano così l’avvenuto passaggio dagli inizi difficili dell’evangelizzazione, caratterizzati dall’avversione alla concezione pagana dell’ordinamento terreno, a una fase più matura e stabile, in cui, per forza di cose, la religione si attestava su posizioni più aderenti alla realtà, tendenti a favorire un accordo con il mondo degli interessi terreni e certe sue componenti. L’invito alla moderazione era ribadito nell’"Epistola ai Colossesi" (3, 18-23), dove Paolo ammoniva i credenti a praticare l’obbedienza, prescrivendo persino agli schiavi di restare sottomessi alla volontà dei padroni. Si completavano così i precetti in materia di autorità contenuti nell’"Epistola ai Romani", dove si fissavano le regole di dipendenza gerarchica tra membri di una comunità statale. Questo invito ad accettare l’ordine costituito forniva al cristianesimo una vera e propria dottrina del potere politico. Alla visione irrequieta della vita associata doveva succederne un’altra di relativa sottomissione. Nella prima era implicito il riconoscimento che il potere civile fosse di origine diabolica, nella seconda se ne proclamava la natura divina. Come poteva, d’altro canto, una società religiosa fondata su regole morali, ritenute sicure e immutabili, raccomandare l’assoggettamento a una autorità civile,, senza riconoscere nel contempo la legittimità dei suoi precetti e la santità dei suoi propositi? Nel momento stesso in cui si favoriva l’intesa con lo stato romano, si ammetteva la legalità delle sue pretese normative e si imponeva ai cristiani di rispettarle. Su un punto comunque l’accordo non era possibile e su di esso si imperniarono le lotte tra cristiani e potere imperiale nel corso dei primi tre secoli. Si trattava del culto della persona dell’imperatore. I Cristiani si rifiutavano di riconoscere un carattere divino, non tanto al sistema politico e amministrativo da lui rappresentato, quanto all’esperienza religiosa di cui si proclamava l’incarnazione. Al riguardo l’insegnamento di Gesù era stato categorico e non consentiva compromessi di alcun genere. Il crinale che separava i due sistemi era segnato dal granello d’incenso che i magistrati pagani ordinavano agli inquisiti di bruciare sull’ara del monarca e che essi si ostinavano a non fare, nella certezza che si trattasse dell’errore fatale, da cui sarebbe derivata la loro perdizione eterna. Da parte sua lo stato romano tendeva a rivestirsi sempre più di forme religiose e ieratiche. Quanto più l’edificio perdeva in compattezza e solidità, per cadere in balia di forze centrifughe, come l’esercito o il corpo dei pretoriani, agenti al di fuori della legalità costituzionale, tanto più i detentori del potere erano indotti a nascondere, dietro l’orpello del culto, il vacillamento della loro autorità. Così si spiega l’accanimento pagano contro il cristianesimo, che, pur dichiarandosi rispettoso del potere civile, non voleva ammettere la divinità del suo sommo rappresentante. L’opposizione contro i cristiani da parte di uno stato tradizionalmente tollerante in materia religiosa non risiedeva tanto in una impostazione giuridica sicura, anche perché incerto fu sempre il fondamento legale delle persecuzioni, quanto in un atteggiamento istintivo, per cui le magistrature romane — a cominciare da quella suprema impersonata dall’imperatore — avvertivano che la predicazione cristiana si opponeva in realtà al loro antico sistema civile e amministrativo. Dalle preoccupazioni di Paolo e dalle comunità formatesi sulla traccia del suo insegnamento, intese a provare che i cristiani si comportavano da sudditi fedeli dell’ordine costituito, non era dunque assente il proposito di precostituire un alibi atto a difenderli dalla taccia di fomentare la ribellione allo stato.»
Non ci si deve nascondere, ad ogni modo, che la questione della compatibilità, per così dire, fra Impero Romano e cristianesimo, non è, considerata da un punto di vista teologico e morale, che un aspetto particolare — certo, storicamente rilevante – d’una questione assai più ampia e complessa: vale a dire, di quale natura sia il legame che si viene a creare fra il cristianesimo e le comunità politiche nelle quali esso è diffuso, specialmente quando diviene la religione della maggioranza dei cittadini o, comunque, allorché riesce ad assicurarsi una posizione di preminenza.
In altri termini: il cristianesimo è una religione universalistica o una religione patriottica? E se è, come quasi tutti propendono ad ammettere, una religione universalistica, questo significa che esso non abbia alcun obbligo morale, nessuna forma di attaccamento, magari di gratitudine, con le istituzioni politiche che ad esso si sono aperte, che si sono incaricate di proteggerlo e di assicurare la sua pacifica diffusione? O che la Chiesa non debba minimamente sentire un legame privilegiato con la storia, la cultura, la identità di quegli organismi statali con i quali si è associato per secoli, e con i quali ha finito per condividere un certo insieme di valori?
Le risposte possono essere varie e articolate e crediamo vi sia spazio per posizioni diversificate e, forse, perfino contrapposte. Una cosa ci sembra sia innegabile: a rescindere il legame di valori, e d’interessi, fra stato e religione, è stato il primo, non il secondo, almeno nella storia moderna. È lo stato giurisdizionalista e illuminista, è l’assolutismo illuminato, seguito dallo stato giacobino, massonico, irreligioso, sorto quale eredità della Rivoluzione francese, a segnare la rottura del patto, del "foedus", tra le due realtà. Nella società odierna, secolarizzata e sostanzialmente anticristiana, dominata da poteri e da logiche che sono il diretto prolungamento dello stato giacobino (e ciò vale sia per gli Stati Uniti, sia per l’Unione europea), il cristianesimo è divenuto una religione tollerata, ma con un senso crescente di fastidio, da parte dei pubblici poteri e della cultura laicista dominante.
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