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29 Luglio 2015
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29 Luglio 2015Quando si parla delle virtù morali che la tradizione europea ha ereditato dal cristianesimo, e che sono sensibilmente diverse da quelle trasmesse dal mondo classico — la mitezza in luogo della ferocia; il perdono in luogo della vendetta; la collaborazione, la benevolenza e la pace in luogo dell’eterna lotta di tutti contro tutti — si nota, sovente, una reazione che sembra partire da un riflesso condizionato: una reazione negativa, fatta di svalutazione e di derisione, come a suggerirne non solo il carattere fondamentalmente erroneo, ma anche una permanente ipocrisia.
Si prenda, per cominciare, il concetto di bontà: dire che una azione è buona, che una persona è buona, che un consiglio è buono, tutto questo suscita, quasi istintivamente, un moto di diffidenza, di sospetto, quando non di aperta e veemente ripulsa; si citano episodi della storia, medievale o moderna, che mostrerebbero la falsità del concetto cristiano di "bontà"; si tirano fuori Freud e l’inconscio, sostenendo che chi vuol essere buono, o piuttosto apparire tale, in realtà è mosso da impulsi cattivi, egoistici, inconfessabili, e che mira soltanto a dissimularli; e si conclude con un sorrisetto che vorrebbe essere furbo, come a dire: «Qua nessuno è stupido; ci vuol altro per darcela a bere: noi sappiamo perfettamente come stanno, in realtà, le cose».
Non è solo incredulità e non è solo scetticismo; è proprio una forma di risentimento, come se il parlare delle virtù cristiane suscitasse una esasperazione, una indignazione, una sacrosanta ripulsa in tutti coloro i quali — e chi non vorrebbe essere della partita? — si considerano "moderni", vale a dire figli di una società che ha fatto dell’uomo il proprio termine esclusivo di paragone e che, in nome di una scienza materialista e di un relativismo assoluto, ha abolito dal proprio orizzonte concettuale qualsiasi nozione di valori assoluti, di verità perenni, di virtù permanenti. A chiunque osi parlare di tali cose, subito si risponde indignati: «Ma come, tu credi ancora a codeste favole per fanciulli e per vecchierelle? Tu solo sei così ignorante, così arretrato, da non aver sentito la grande notizia, ormai definitivamente assodata e universalmente accettata: che Dio è morto, e che, con lui, sono morte tutte le virtù che pretendevano di fondarsi su d’un modello ideale e perfetto, un modello assoluto, slegato dalle contingenze del tempo e dello spazio, in breve, su un piano di realtà soprannaturale? Solo tu trascini ancora la tua esistenza in mezzo alle superstizioni del passato e all’oscurantismo di una morale obsoleta, basata sul tradimento del corpo e delle sue legittime esigenze?».
Ecco: c’è del risentimento, in costoro; non un freddo e lucido distacco da un paradigma culturale e spirituale giudicato ormai superato, ma un vivo e astioso risentimento, che tradisce, a ben guardare, proprio il fatto che quel paradigma, quel sistema di valori, quell’insieme di modi di sentire, di pensare, di pregare, di amare, non è poi così remoto e sorpassato, come si vorrebbe far credere. Chi si risente, si risente contro qualcosa di attuale: il passato non suscita in noi risentimento, ma, tutt’al più, noia e fastidio, anche qualora lo giudichiamo in maniera del tutto negativa. "Risentirsi", equivale a scaldarsi contro qualcosa o qualcuno, provare della rabbia, del rancore: e non si prova rabbia, né rancore per i morti, o per i moribondi. Ci si scalda quando ci si sente sfidati nell’intimo della propria anima, delle proprie convinzioni più profonde, nella sfera sacra di ciò che si ritiene essenziale, intangibile, irrinunciabile: ci si scalda allorché si sente che tutto questo è minacciato; e, se è così, allora è chiaro che non può trattarsi d’una cosa che viene dal passato, che per noi non significa più nulla, perché, in tal caso, non si proverebbe risentimento, ma solo indifferenza e, al massimo, una qualche forma d’insofferenza.
Karol Wojtyla, che era anche un fine teologo, osservava, a proposito della virtù della castità — ma il ragionamento si potrebbe estendere a tutte le altre virtù consegnateci dalla tradizione e dall’educazione cristiana (da: K. Woytyla, «Amore e responsabilità» (titolo originale: «Milosc i odpowiedzialnosc», Krakow, Wydawnictwo "Znak", traduzione dal polacco di Ambretta Berti Milanoli, Milano, Marietti, 1978, pp. 131-133):
«LA CASTITÀ E IL RISENTIMENTO.
Il titolo di questo paragrafo è desunto da Max Scheler, autore dello studio "Riabilitazione della virtù" ("Rehabilitierung der Tugend"). Sembra una provocazione. Infatti, può venir riabilitato solo colui (o ciò) che ha peso la buona fama e il diritto alla stima. Ora la virtù in generale, e la virtù di castità in particolare, hanno peso la loro buona reputazione? La castità non viene più considerata dagli uomini una virtù? Ma qui non si tratta esclusivamente della buona fama. Il solo appellativo "virtù" e un riconoscimento nominale non risolvono il nostro problema. Qui si parla del diritto di cittadinanza nell’anima e nella volontà umana, perché lì è il suo vero posto, al di fuori del quale la virtù cessa di esistere come essere reale. La stima per le parole "virtù" o "castità" non ha allora più molto valore. Scheler trovava che fosse necessario riabilitare la virtù, perché aveva intuito nell’uomo contemporaneo un atteggiamento spirituale contrario alla stima vera. Ha chiamato questo atteggiamento "risentimento".
Il risentimento consiste in un falso atteggiamento nei confronti dei valori. È una mancanza di obbiettività di giudizio e di valutazione, che ha origine nella debolezza della volontà. Infatti, per raggiungere o realizzare un valore più alto, è necessario che noi forniamo uno sforzo maggiore di volontà. Quindi, per liberarsi soggettivamente dall’obbligo di fornire questo sforzo, per convincersi dell’inesistenza di questo valore, l’uomo ne riduce lì importanza, gli rifiuta il rispetto al quale esso in realtà ha diritto, arriva perfino a vedersi un male, sebbene l’oggettività obblighi a vedervi un bene. Si direbbe quindi che il risentimento possieda gli stessi tratti caratteristici del peccato capitale di accidia. Secondo san Tommaso, l’accidia "acedia" è quella "tristezza che deriva dalla difficoltà del bene". Tuttavia, la tristezza in quanto tale non falsa il bene: indirettamente, sostiene persino nell’anima la stima per l suo valore. Il risentimento si spinge più in là: non soltanto deforma l’immagine del bene, ma, perché l’uomo non sia costretto ad elevarsi faticosamente fino al bene vero e perché possa "in tutta sicurezza" riconoscere come bene quel che gli conviene e che gli è comodo, svaluta i valori che meritano la stima. Il risentimento fa parte della mentalità soggettivistica, in cui il piacere sostituisce il vero valore.
Se c’è una virtù che a causa del risentimento ha perso il proprio diritto di cittadinanza nell’anima, nella volontà, nel cuore dell’uomo, è proprio la castità. Ci si è dati da fare per costruire tutta una argomentazione atta a dimostrare ch’essa non soltanto non è utile all’uomo, ma al contrario gli è nociva. A questo proposito basta ricordare, anche brevemente, quelle diverse riserve pseudo-igieniche e mediche, formulate riguardo alla castità e alla continenza sessuale. L’argomento: "Una castità eccessiva (è d’altra parte difficile stabilire che cosa s’intenda con questo) è nociva alla salute; un giovane deve soddisfare le proprie esigenze sessuali" è sempre attuale. Ma nella castità e nella continenza sessuale si vedono soprattutto dei grandi nemici dell’amore, e per questo fatto si rifiuta loro la stima e il diritto di cittadinanza nell’anima umana. Secondo questa opinione, la castità trova la propria ragione d’essere AL DI FUORI dell’amore dell’uomo e della donna, ma non in esso. È proprio a partire da argomentazioni del genere che il risentimento si diffonde; d’altra parte, non costituisce una particolarità della nostra epoca: un’inclinazione al risentimento sonnecchia nell’anima di ogni uomo. Il cristianesimo vede in esso una conseguenza del peccato originale. Se perciò dobbiamo liberarci del risentimento, e soprattutto delle sue conseguenze sul nostro modo di considerare il grave problema della castità, bisogna che in qualche modo riabilitiamo la castità. Conviene eliminare in primo luogo tutta quella zavorra di soggettività che grava sulle nostre opinioni a proposito dell’amore e della felicità che esso può apportare all’uomo e alla donna.
Si sa che l’amore deve essere integrale, tanto in ciascuna delle persone che si amano, quanto tra loro. […] L’amore non può restare soltanto una relazione soggettiva, in cui si manifestino le energie della sensualità e dell’affettività ridestate dalla tendenza sessuale; perché allora non raggiunge il proprio livello personale, né può unire le persone. Perché possa unire veramente l’uomo e la donna e raggiungere il proprio pieno valore personale, bisogna che abbia una solida base nell’affermazione del valore della persona. Partendo di lì, è facile arrivare a designare realmente il bene della persona amata — un bene degno della persona — grazie al quale l’amore apporta la felicità, è "eurogeno". L’uomo e la donna desiderano l’amore perché contano sulla felicità che esso offrirà loro.»
Ci fermiamo qui, perché non intendiamo, in questa sede, addentrarci nel discorso specifico sulla natura dell’amore, sulla relazione che esso presuppone fra due esseri umani, sui bisogni da cui nasce e sugli scopi che realizza; è sufficiente, ai fini del nostro ragionamento, prendere il caso della castità come un esempio tipico della maniera in cui la cultura contemporanea si comporta nei confronti delle virtù cristiane. Semplicemente, le pone come antitetiche alla realizzazione dell’uomo, dei suoi bisogni autentici, perfino della sua salute fisica e psicologica; e, partendo da questo pregiudizio — che, a sua volta, si giustifica col pregiudizio che l’uomo non abbia bisogno di Dio, né di fondare nel soprannaturale la propria dimensione naturale, e dunque anche la propria legge morale — svaluta, deride e disprezza quelle virtù, non prendendosi la briga di mostrare in che cosa esse sarebbero contrarie al bene dell’uomo, ma, piuttosto, volendo giustificare la propria debolezza di fronte ai vizi contrari, che non vuole chiamare vizi, ma che vuole promuovere al rango di "nuove" virtù, precisamente allo scopo di rimuovere il senso di colpa.
Non basta, insomma, abbandonarsi al vizio; bisogna anche fare in modo che la coscienza non rimorda: allora si proclama che il vizio è cosa "naturale", e dunque buona in se stessa: si dà per scontato, infatti, che la "natura" sia buona in quanto tale, senza tener conto né del fatto che la "natura", così concepita, ossia come un super-individuo, non esiste, ma ciò che indichiamo con quel nome è l’insieme dei fenomeni naturali; né del concetto cristiano del peccato originale, che si innesta sul tronco di una natura buona, deviandola, però, in una maniera tale, da rendere impossibile alle sole forze umane di ristabilire l’equilibrio originario.
Wojtyla, peraltro, ci sembra attribuire troppa importanza al fatto della volontà: non basta dire che le virtù vengono svalutate e denigrate, perché non si ha più la forza di volontà di perseverare in esse: bisogna chiedersi perché tale volontà si è indebolita. Certo, per lo smodato desiderio d’inseguire il proprio piacere; ma, di nuovo: quando la cosa è divenuta talmente forte, da rendere necessario che, per legittimarla, si son dovute sovvertire e capovolgere le virtù e degradarle ad altrettanti vizi, come fa, appunto, Giovanni Boccaccio nelle sue novelle, allorché dichiara l’amore una forza "naturale" e, dunque, non solo irresistibile, ma buona in se stessa, sempre e comunque, e presenta come "male", per conseguenza, tutto ciò che vi si oppone, fossero pure le più sacre leggi morali e le più radicate norme del vivere sociale? Se fosse stato coerente — ma i suoi epigoni, alla fine, hanno imparato ad esserlo — avrebbe dovuto celebrare ed esaltare non solamente l’adulterio, ma anche l’omosessualità, la pedofilia, il sadismo, l’incesto e qualunque altra forma di "amore", visto che, per lui, l’amore non è altro che la soddisfazione del desiderio sensuale.
Ecco, il punto è questo: la volontà si indebolisce, quando la morale si relativizza; e la morale si fa relativa, quando si perde di vista l’unità della coscienza (celebrando il pirandelliano «non si sa come»), cioè, a ben guardare, l’unità della persona. Solo se si tiene fermo all’unità della persona, si comprende perché le virtù non possono essere capovolte a piacere, e non basta porvi accanto un segno "più" per nobilitarle, né un segno "meno" per svalutarle: la persona, infatti, non vive di capricci, di impulsi bruti, di pulsioni selvagge che bisogna soddisfare a ogni costo, in nome della "salute": ma è un essere individuale, ragionevole, dotato di libertà e volontà, che può comprendere quale sia il vero bene solo se non rompe la sua relazione ontologica con l’Essere. Diversamente, essa si trasforma in una scheggia impazzita, abbandonata alla tempesta degli istinti primordiali e delle passioni disordinate, che, per non sentire più il richiamo della coscienza, si corazza e s’indurisce di risentimento contro il bene: e diventa, così, la peggiore nemica di se stessa…
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