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Con l’abbandono della metafisica sono finite anche le filosofie della storia?

Lo sapeva Immanuel Kant, allorché infliggeva la ferita mortale al valore e al significato della metafisica, che stava colpendo a morte, nel medesimo tempo e per le stesse ragioni, anche la filosofia della storia?

Di fatto, le due cose sono inevitabilmente collegate: niente metafisica, niente più filosofia della storia. È logico: che altro sono le filosofie della storia, se non il tentativo di leggere nella storia, nel suo divenire, nel succedersi degli eventi, un disegno complessivo, un ordine metafisico, celato, appunto, dietro l’apparente disordine, dietro l’apparente frammentarietà e casualità dei fatti? Ma pensare a un disegno complessivo — e sia pure a un disegno immanente, come volevano gli idealisti tedeschi, Fichte ed Hegel in testa — equivale a pensare a una qualche forma di Provvidenza, e sia pure "laica"; il che, dopo la critica devastante di Kant alla metafisica, è divenuto quasi una bestemmia.

È vero che la filosofia della storia ha goduto ancora, per circa un secolo e mezzo, di una notevole fortuna presso il pubblico, anche se al prezzo di essere consegnata a dei filosofi di seconda scelta, il cui statuto e le cui credenziali erano quanto meno dubbi: in pratica, dopo Spengler (e dopo Toynbee) la filosofia della storia è stata abbandonata, più o meno come l’astrologia era stata abbandonata fra XVI e XVII secolo, e guardata con disdegno dalla sua erede "per bene", l’astronomia moderna. Questa lunga sopravvivenza di un sapere in agonia, che aveva potuto fingere le apparenze della salute, è stata dovuta quasi unicamente alla circostanza che lo storicismo romantico è stato ripreso sia dall’idealismo di Croce e di Gentile, sia dal marxismo e dai suoi trionfanti araldi contemporanei, da Gramsci alla Scuola di Francoforte: l’uno e l’altro, eredi legittimi dell’hegelismo, cioè di una concezione storica nata già morta a causa della svalutazione kantiana della metafisica. Un grande equivoco, insomma, tenuto in vita, tutto sommato in modo artificiale, dal comunismo e dal fascismo, che avevano bisogno della filosofia della storia per "giustificare" le proprie visioni totalitarie del mondo.

Ma quando è nata, la filosofia della storia? Evidentemente, con il Cristianesimo: e S. Agostino, nel «De civitate Dei», ne traccia il primo, grandioso affresco, dalla creazione del mondo alla fine dei tempi, passando per il sorgere e il crollare dei grandi imperi: l’egiziano, l’assiro-babilonese, il macedone, il romano. Agostino lo scrisse per confutare i pagani, che vedevano nel sacco di Roma, operato dai Visigoti di Alarico nel 410, l’annuncio della fine del mondo: no, la fine di Roma (ammesso che fosse giunta: cosa di cui egli dubitava) non significava la fine del mondo; l’impero di Roma era stato funzionale ai disegni della Provvidenza, favorendo la diffusione del Cristianesimo; ma esso ne era stato, appunto, solo uno strumento, non certo il fine.

Prima del Cristianesimo, non si può parlare di una filosofia della storia: le concezioni pagane della storia, basate sull’idea del tempo circolare e sull’eterno ritorno delle cose, non la rendevano possibile; solo una concezione lineare del tempo e solo un’idea finalistica del mondo, creano la possibilità di vedere nella storia il dispiegarsi di un disegno complessivo. Nessuno storico antico, nemmeno i più grandi — come il greco Tucidide e il romano Tacito — si sono mai posti la domanda di senso complessiva circa la storia umana. Nessuno di essi si è mai chiesto se la storia abbia un senso, perché se le cose ritornano continuamente, nessun disegno è sotteso ad esse; né se abbia un fine, perché questo presuppone quello.

Nemmeno Platone, che crede nella trasmigrazione della anime, si preoccupa molto del divenire storico: quel che gli interessa veramente è il mondo delle Idee, non il mondo della storia. Il mondo della storia è dominato dalle passioni umane: la superbia, l’arroganza: i vizi che hanno condotto Altantide alla rovina. All’uomo antico interessa soprattutto il presente: l’arte del buon governo, la Repubblica capace di assicurare ordine e giustizia; non il fine della storia. Quanto ad Aristotele, ciò che gli preme non è la storia, ma la politica: l’arte di governare la "polis". Il suo Motore Immobile è Pensiero: Pensiero che muove le cose e che attrae a sé l’universo, facendosi amare, ma, in effetti, senza amarle: perché pensa solo sé stesso ed ama solo sé stesso.

Affinché nasca una filosofia della storia, c’è bisogna di una rottura nel "continuum" temporale, anzi, di una doppia rottura: di una Creazione e una Distruzione finale; c’è bisogno, quindi, di un Dio personale, che non si lascia soltanto amare, ma che ama attivamente gli esseri finiti, poiché li ha creati per amore e per amore li richiama a sé: e che li ama, appunto, di un amore personale, uno per uno, come persone e non come semplici individui. Il Cristianesimo ha creato il concetto di persona, vale a dire di individuo unico e irripetibile, dotato di una dignità intrinseca, di una storia "sacra", chiamato all’esistenza da un atto di amore specifico e votato ad uno scopo specifico: riconoscere, amare e servire il proprio Creatore. Per lo stesso motivo, il Cristianesimo ha posto alla base di tutto un Dio personale, come quello giudaico, e non di un Dio impersonale, come quello greco: di un Dio che prima di tutto è Amore, e non Pensiero. Il senso della storia, per il Cristianesimo, è, dunque, l’Amore: la risposta degli uomini all’amore incommensurabile di Dio, spintosi fino a diventare uomo Lui pure, a soffrire la passione e a morire sulla croce, per risorgere e liberare l’intera umanità dalla schiavitù del peccato.

Le moderne filosofie della storia riprendono questo schema fondamentale, ponendo però lo Spirito, o il Popolo, o lo Stato, al posto di Dio: così Hegel, Mazzini, Gentile; qualcuno la classe (Marx), qualcuno l’Umanità (Comte), qualcun altro la razza, sia pure in senso spirituale e non meramente biologico (Spengler) e qualcuno, infine, nuovamente Dio (Toynbee): ma è il canto del cigno della filosofia della storia. Gli ultimi due tentativi sono stati quelli di un professore americano di origine tedesca, Eugen Rosenstock-Huessy, che in Europa pochissimi conoscono (ed è un peccato, perché il suo libro «Out of Revolution» è un classico del suo genere, come «Il tramonto dell’Occidente» di Spengler e come «Civiltà al paragone» di Toynbee), che riprende, in sostanza, il modello cristiano; e, buon ultimo, l’americano di origine giapponese Francis Fukuyama, secondo il quale il trionfo della civiltà liberal-democratica pone sul tappeto, niente di meno, la questione della fine non solo delle filosofie della storia, ma della storia stessa.

Ma l’abbandono della filosofia della storia era comunque un effetto pressoché inevitabile del pensiero moderno, vista la direzione da esso presa a partire dal momento in cui, dopo aver messo fra parentesi l’ipotesi Dio e dopo la delusione avuta dallo sgretolamento della nuova religione immanentistica fondata sul Progresso, esso ha incominciato a dubitare di sé stesso, dell’unità dell’Io, della realtà oggettiva, della possibilità di una conoscenza assoluta e non relativa delle cose (tutti elementi già impliciti, lo ripetiamo, nel criticismo kantiano: il Noumeno, la "cosa in sé", essendo inconoscibile): nessuna meraviglia, quindi, che oggi, praticamente, non vi sia più un solo filosofo (o storico) il quale osi farne menzione.

Ha scritto il grande storico Georges Lefebvre, uno dei massimi studiosi della Rivoluzione francese, nel suo saggio «La storiografia moderna» (titolo originale: «La naissance de l’historiographie moderne», Paris, Flammarion, 1971; traduzione dal francese Emilio Renzi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1973, pp. 288-289):

«… Un’altra conseguenza [della rinuncia, da parte degli storici moderni, allo stile brillante]è l’abbandono completo di quella filosofia ella storia di cui abbiamo così spesso parlato. Lo storico erudito occidentale, dal momento che la pratica della critica limita la sua fiducia nella capacità di penetrazione dello spirito e gli ricorda l’impossibilità di toccare con la testimonianza della storia la causa prima delle cose, di constatare, per esempio, in modo sperimentale, l’azione della provvidenza, ha completamente assimilato la posizione positivistica. Ha sistematicamente eliminato le preoccupazioni metafisiche, di conseguenza la filosofia ella storia che non è mai altro che metafisica. Lo "Historismus" dei tedeschi si è mantenuto e più che mai li separa dall’Occidente. In Auguste Comte la filosofia della storia aveva assunto, è vero, un carattere positivo, estraneo, secondo lui, alla storia. Ma gli storici eruditi, obbligati, di fatto, a delimitare le loro ricerche a periodi circoscritti e brevi, si sono rifiutati di dedicarsi alla ricerca delle leggi della storia, come la legge dei tre stadi, che essi hanno lasciato cadere. Diventati positivisti, gli storici hanno partecipato di quello stato d’animo che ha dominato la seconda metà del XIX secolo, ma non hanno seguito Taine al punto da identificare il metodo storico con quello delle scienze naturali e da innalzarsi sino alla constatazione di leggi nel senso in cui […] lo intendeva Taine, cioè di tipi, di costanti.. Quale che sia il loro intimo convincimento sui problemi metafisici e religiosi, in misura crescente essi si sono trovati d’accordo nel non ricercare altro che fatti. Il punto è se essi debbano arrestarsi qui, se il metodo positivistico non permetta di spingersi oltre, se la storia debba restare limitata a una narrazione, a una descrizione…»

Riassumendo. La cultura moderna si è sbarazzata di Dio, non però di un Dio qualunque, ma del Dio cristiano; il Dio cristiano è Provvidenza; dunque, la cultura moderna si è sbarazzata della Provvidenza, e, con ciò, della possibilità stessa di pensare la storia in termini sovra-storici, filosofici: appunto, metafisici. Niente Dio provvidente, niente metafisica; niente metafisica, nessuna filosofia della storia. Non si è tornati, però, alla concezione pagana del divenire storico, fondata sull’idea del tempo circolare; ci si è, semplicemente, arresi al regno del caos, dell’assurdo, all’estremo relativismo gnoseologico. Nulla si può conoscere veramente, perché nulla ci autorizza a pensare che esista una realtà, non diciamo ordinata, ma una realtà qualsivoglia: esiste, semmai, un flusso vitale incessante, nel quale non si può distinguere il soggetto dall’oggetto, il vero dal falso, il passato dal futuro: tutto è relativo, tutto dipende dal punto di vista, tutto è opinabile, falsificabile, contestabile, perché non c’è un "io" che se ne faccia interprete, ma l’io medesimo è scisso, frammentato, disperso in un pulviscolo di sensazioni, attimi, schegge d’esperienza. Il mondo è diventato una esplosione di coriandoli: impossibile ricomporli, impossibile scorgervi un elemento costante, un comun denominatore. La sola verità è nell’istante; dunque non esiste la Verità, ma solo tante piccole, fugaci verità relative, contingenti.

Logico, dunque, che non esista più la storia, né — meno ancora — la possibilità di fare filosofia della storia. La storia, si potrebbe obiettare a Fukuyama, non potrà mai finire, perché non è mai esistita: quel che chiamiamo storia, è un contenitore convenzionale, nel quale inseriamo, ad uso puramente pratico, i singoli eventi. La storia è un fantasma, un miraggio, un’illusione; e la filosofia della storia è stata il fantasma di un fantasma, il miraggio d’un miraggio, l’illusione di una illusione: qualcosa di paragonabile a una città riflessa nell’acqua inesistente in mezzo alle dune del deserto, vista, per giunta, non allo stato di veglia, ma nel corso di un sogno. Un doppio sogno.

Tutto chiarito, allora? Niente affatto. La domanda di senso rimane, ineludibile, tenace, imperterrita: e, finché essa rimane, rimane anche il bisogno di una riflessione filosofica sulla storia umana. La cultura positivista ha voluto espellere la metafisica in nome della scienza, e così ha espulso anche la filosofia della storia: perché la storia, checché ne dicano certi storici che vivono un permanente complesso d’inferiorità per il fatto d’aver sbagliato professione, non è una scienza: non se ne potranno mai dedurre delle leggi, né formulare previsioni, né, tanto meno, riprodurla in laboratorio. Ma espellere una cosa, non significa — di per sé — poterne fare a meno: ci sono amputazioni alle quali si sopravvive, altre che comportano la morte dell’intero organismo. L’uomo non può fare a meno di senso, perché non può fare a meno di Dio, di un Dio personale, amorevole, che è il suo fine, il suo scopo: dunque, non può fare a meno di domandarsi dove vada la storia, che senso abbia, come finirà.

Resta da vedere se il disprezzo e l’oblio della filosofia della storia siano solo il frutto dei fattori specifici sopra indicati, nonché di un dilagante e presuntuoso tecnicismo, che nega il diritto di cittadinanza ad ogni visione globale del conoscere, o se non sia, anche, il frutto di qualche cosa di più, e di peggio: un disegno tenebroso di quei poteri occulti, i quali, cancellando la domanda di una riflessione complessiva, cioè filosofica, sul senso e sul fine della storia (perché fare filosofia è guardare alla totalità del reale), vogliono votare l’umanità al dominio del suo grande Nemico, cioè di colui che, da sempre, avversa i disegni della Provvidenza; senza, però, che essa se ne renda conto.

E, soprattutto, senza che gli orgogliosi araldi della cultura moderna si avvedano di quale sia, in realtà, la posta in gioco: la loro stessa anima…

In fondo, è molto semplice: chi non vuol credere in Dio, in qualche altra cosa finisce per credere, perché l’essere umano ha bisogno di credere in un principio superiore; niente di più facile, a questo punto, che, credendo di adorare le cose, il successo, il denaro, il potere, il piacere, egli si faccia, in realtà, consapevolmente o inconsapevolmente, adoratore del Diavolo.

Ma, scusate: stiamo scherzando, si capisce.

E poi, non sta bene parlare di certe cose: sa d’ignoranza, di superstizione; e noi siamo tutti uomini moderni, civili ed evoluti: non è vero?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Pixabay from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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