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Esso esalta il la novità, qualunque novità, come una conquista; e la magnifica tanto più quanto più essa ha carattere rivoluzionario, nel senso che recide drasticamente e intenzionalmente le radici col passato, mentre disprezza o ignora la tradizione. Ogni volta che si realizza un salto in avanti, ci si preoccupa di tagliare i ponti dietro le spalle, affinché divenga impossibile, se qualcuno ne avesse la tentazione, ritornare indietro; anzi ci si premura anche di avvelenare i pozzi, così che, se per caso qualcuno si fosse attardato e per accertarsi dei risultati, non troverebbe nulla per sostentarsi e perirebbe abbandonato nel deserto.
La logica sottostante a questo modo procedere è che il Progresso non sa che farsene dei timidi, dei recalcitranti, dei poco persuasi: chi non abbraccia subito la sua causa, incondizionatamente, col fervore del neofita religioso, non è degno di servirlo, e merita di essere eliminato, perché sarebbe solo un peso superfluo. Anche da ciò si capisce che essere moderni è una scelta, una scelta ultimativa e drammatica. O di qua o di là, non ci sono altre posizioni possibili: o pro, e goderne i vantaggi, o contro, ed essere trattati da nemici. Da nemici non solo del progresso, ma della società e del bene comune: perché il Progresso, nella mente dei suoi fautori, è tutt’uno con la società, con il solo modello di società possibile e legittimo, e quindi è un tutt’uno anche col bene comune, essendo il bene un effetto diretto del Progresso.
L’avanzata (ir)resistibile del Progresso procede a salti e sbalzi e non di moto uniforme. Tali salti e sbalzi sono le rivoluzioni: la rivoluzione scientifica, la rivoluzione francese, la rivoluzione industriale, la rivoluzione digitale… E tutte queste rivoluzioni, che, nonostante le apparenze, non hanno nulla di spontaneo, ma sono accuratamente pianificate in una cabina di regia, sono dirette a confluire in un collettore che le integra e le rafforza a vicenda: la globalizzazione, ove ciascuna di esse trova la sua meta vera ed ultima; mentre nelle loro fasi iniziali esse parevano voler esprimere indirizzi e contenuti diametralmente opposti.
I progressisti procedono ad impadronirsi delle nuove scoperte scientifiche e tecniche, dei nuovi paradigmi cosmologici, delle nuove acquisizioni geografiche o filosofiche allo scopo di brandirli come armi contro le precedenti idee e i vecchi valori, per spianare il terreno e farne una tabula rasa, sulla quale riedificare il mondo di bel nuovo (bisogna rifgare e’ cervelli, diceva tranquillamente Galilei nel Dialogo sui due massimi sistemi), ovviamente per svolgere il ruolo di sacerdoti e pontefici massimi nel nuovo ordine di cose. I registi delle rivoluzioni sanno sempre più cose di quante ne sappiano gli operai (e fra gli operai mettiamoci anche gli scienziati, ad esempio quelli che hanno messo a punto la bomba atomica, poiché essi lavorano sui dettagli ma non conoscono gli scenari d’insieme négli obiettivi futuri). Insomma il fine delle rivoluzioni è un segreto dei pochi che le hanno messe in moto, le hanno incoraggiate e finanziate, le hanno affiancate sul piano culturale e patrocinate su quello giuridico, ma la stragrande maggioranza della popolazione non ne Sa nulla: si limita a seguire il flusso della corrente, a reclamare diritti, e inscenare proteste e manifestazioni, scioperare nelle scuole e occupare le fabbriche o le aule universitarie, bloccare la partenza dei treni nelle stazioni ferroviarie, e così via. Di regola, gli studenti non sanno affatto cosa c’è dietro il boicottaggio rumoroso di un professore che qualche sedicente comitato ha qualificato "fascista", magari perché aveva richiamato gli studenti a vestire in modo più consono all’ambiente scolastico; così come le grandi folle di manifestanti che scandiscono slogan e parole d’ordine sanno poco e niente di quel che bolle realmente in pentola, di quali colpe si è macchiato il ministro tal dei tali e quali obiettivi si propongono le organizzazioni nelle quali sono stati inquadrati e debitamente indottrinati. Una vera consapevolezza richiederebbe spirito autonomo e senso critico: proprio ciò che fa difetto.
Il Progresso, in quanto tale, è un’astrazione. Ogni volta che un essere umano o una famiglia o una comunità realizzano un’innovazione atta a rendere il lavoro più efficace, gli scambi più frequenti e la vita più comoda, si ha un progresso: ma nessuna di tali cose è ancora, di per se stessa, il Progresso: il Progresso è un’ideologia che prende a prestito i frammenti di fatti reali e li confeziona col collante "magico" della grande parola liberatrice: Progresso. Solo allora il progresso diviene Progresso. In altre parole, quando gli intellettuali e qualche gruppo ristretto, ma potente, delle classi dirigenti, decide che deve essere considerato tale, cioè rottura col passato e svolta radicale nel modo di vivere. Va da sé che le condizioni propizie a tale narrazione si verificano in presenza di una rivoluzione effettiva, cioè di un evento che effettivamente taglia i ponti con la tradizione tende a proiettare la società, non senza resistenze e punti critici, in un orizzonte del tutto nuovo. Le rivoluzioni tecnologiche sono le più efficaci, perché le più irreversibili. Dopo la rivoluzione francese ci fu, o ci almeno ci fu un tentativo, di restaurazione del vecchio ordine sociale; ma dopo la rivoluzione industriale, a parte la disperata resistenza dei luddisti e il dramma di milioni di emigranti, messi in moto dal meccanismo della discesa dei prezzi dei cereali americani, nessun ritorno al passato fu più possibile. Perciò la vera rivoluzione è quella che getta via pressoché tutto del passato, come fosse carta straccia; e si gloria di marciare avanti senza mai voltarsi, senza alcuna ombra di dubbio o di ripensamento, animata da una fede — o meglio da un fideismo — tipicamente religioso. E infatti essa è la Religione del Progresso, che non prevede alcuna salvezza per chi non l’accoglie adorante come fosse il Verbo divino.
Attenzione: non vogliamo dire che il potere occulto – quello, eterno, del grande capitale finanziario – abbia sincronizzato tutto fin nei minimi particolari: ad esempio, che abbia programmato l’invenzione, o quantomeno la diffusione, della spoletta volante al tempo della tessitura meccanica, primo passo della rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo. Anche se siamo persuasi che in alcuni casi le cose siano andate, e vadano tuttora, proprio così, cioè che il potere tenga da parte certe invenzioni e le tiri fuori quando ne ha convenienza (come nel caso di un misterioso siero genico sperimentale che salta fuori quasi miracolosamente proprio quando è in atto una pandemia che il potere stesso aveva largamente prevista e preannunciata), di regola è probabile che il potere si limiti a sfruttare prontamente le occasioni favorevoli che gli si presentano per attuare la sua rivoluzione, ma con soddisfazione di tutti, perché tutti o quasi tutti sono stai persuasi, dall’opera assidua dei mezzi d’informazione, a salutare la rivoluzione come liberatrice, anche se l’esperienza storica mostra che è vero il contrario.
Ma perché, si chiederà, il potere occulto della grande finanza è così interessato a favorire le rivoluzioni, al punto che le finanzia generosamente, come ha fatto, ad esempio, sia col bolscevismo, sia col nazismo, e ha seguitato a fare anche dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale (tant’è vero che i piloti alleati avevano ordine di non bombardare le fabbriche tedesche di proprietà delle multinazionali anglosassoni)? La risposta risiede nel fatto che i nuovi paradigmi, azzerando la tradizione, rendono una società più cedevole e malleabile, più atta a farsi manipolare e condizionare secondo l’interesse dei registi di tutta l’operazione. pertanto, vi è una faccia pubblica delle rivoluzioni, le cui parole d’ordine sono libertà, progresso, diritti, civiltà, quella per il popolo bestia, e una faccia oscura, conosciuta e manovrata dalle élites che se ne stanno ben nascoste dietro le quinte di cartone, la cui sola parola d’ordine è: avarizia. È la lupa di Dante, la cupidigia, la brama di accumulare sempre nuove ricchezze, da spremere alle ignare popolazioni in qualunque modo, sempre facendo loro credere che ogni sacrificio, ogni sforzo, sono loro richiesti esclusivamente per il bene comune.
Un esempio tipico di come la storiografia accademia, per molto tempo, ha avuto la tendenza a presentare le svolte di paradigma come gioiose processioni di popoli risvegliati dal sonno della tradizione, è quella relativa all’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento. Per secoli si è detto e ripetuto che la civiltà medioevale aveva frenato l’intelligenza, aveva compresso le energie vitali e mortificato lo slancio individuale, costringendo l’intera società nella camicia di forza di abitudini cristallizzate e immodificabili; salvo poi aprirsi a un soffio d’aria nuova (proveniente da chissà dove, se non dal Medioevo stesso?) e "scoprire" le meraviglie della modernità, sulla scia di Lutero, Machiavelli, Francis Bacon, Galilei, Newton, ecc.). Ma questa ricostruzione, questa interpretazione del fatto del sorgere della cultura rinascimentale, così, apparentemente quasi dal nulla, è credibile, è accettabile?
Osservava a questo proposito lo storico Armando Sapori (1892-1976) nel suo saggio Il pensiero sul lavoro dal mondo antico al Cinquecento (in: A. Sapori, Studi di storia economica, Firenze, Sansoni Editore, 1967, pp. 509-510):
Eccoci al Quattrocento e al Cinquecento, che secondo la storiografia mossa dal Burckhardt sarebbero stati secoli di innovazioni così profonde da caratterizzare un intero periodo storico, il "Rinascimento". Siccome la questione è interessante per il nostro argomento, mi sia consentito, pur senza entrare nel tema spinoso della "periodizzazione", di formulare due domande. Una: questo balzo in avanti di così vasta portata è provato dalla considerazione del comportamento, sotto tutti gli aspetti, della società nel suo insieme, o risulta piuttosto lo scatto generoso di alcune menti di eccezione assunte — da una storiografia che non riesce a liberarsi da premesse aristocratiche centrate sulle élites – a rivelatrici di un’epoca? La risposta non mio sembra dubbi: un cambiamento radicale della mentalità generale non si ebbe affatto. La seconda domanda si concreta così: quelle stesse "punte" moventi dalla celebrazione del mondo classico – grande senza dubbio ma non, come pretendevano, unico modello di vera grandezza se non si voglia rinunziare alla realtà del Progresso- è vero o no che fece naufragare il concetto di Fio nel loro cuore, a segno che si è parlato e almeno per un po’ si continua a parlare di ritorno al paganesimo e di Rinascimento pagano? In realtà questo era successo: in loro, sull’aspetto di Dio, giusto nel punire e nel premiare l’uomo dotato di libero arbitrio, e misericordioso nel perdonare il sinceramente pentito (configurazione di gran peso nella confessione cattolica) prevalse l’altro (comunque sempre cristiano) di Dio creatore di se stesso e della natura; e, continuando a credere nella perfezione della divinità, essi ebbero la certezza che l’uomo possa riprodurre la divinità stessa nel regno concluso della Terra. Forse fu atto di orgoglio; non certo apostasia. In realtà la creatura, non paga di sapersi per rivelazione partecipe delle divinità attraverso all’anima, si ritiene tale in virtù anche di un altro attributo, quello del cervello: la forza intellettuale la quale trova applicazione attraverso ad ogni tipo di lavoro.
Anche se il nostro autore ha la tendenza a leggere in chiave decisamente positiva lo scatto generoso, come lui lo chiama, di alcune menti di eccezione, resta il fatto che nei dinamismi rivoluzionari che conducono al cambio di paradigma la gran massa delle popolazioni resta tagliata fuori da ogni spazio decisionale: a lei non compete altra possibile scelta che quella di accodarsi alle magnifiche sorti e progressive e manifestare il suo consenso più o meno convinto, più o meno dubbioso. Nessuno le domanda il suo parere, se non pro forma, come avviene in certi referendum plebiscitari, del resto largamente manipolati.
In realtà, il potere finanziario sa che da ogni rivoluzione vi sarà un enorme aumento di potere e di ricchezza per sé, ma un notevole peggioramento delle condizioni di vita della popolazione: per cui non gli resta altra via che mentire, mentire sistematicamente, fare promesse che non verranno mantenute, e tutto ciò grazie al completo controllo dei meccanismi dell’informazione e della stessa istruzione scolastica. Chi controlla le notizie, vere o fasulle, controlla l’immaginario collettivo, ed è in grado di far credere come vera e giusta qualsiasi assurdità e qualunque atrocità.
Una cosa è certa. Il popolo comune non segue immediatamente i rivoluzionari, non plaude ipso facto ai novatori, salvo circostanze eccezionali. Il popolo resta fedele alle tradizioni e alle vecchie forme di vita, soprattutto ai vecchi valori, quanto più a lungo possibile: e a volte, per farlo cedere, è necessario agire militarmente contro di lui, come in Vandea nel 1793 o nel Mezzogiorno d’Italia nel 1861. Gli storici progressisti confondono Parigi (e le sue rivoluzioni) con la Francia; ma le popolazioni delle province, specie se rurali e cattoliche, hanno resistito a lungo prima di cedere e lasciarsi omologare. Possiamo attestare che nel Friuli della nostra infanzia — regione fortunatamente marginale — la gente viveva ancora, alla vigilia del boom, in un’atmosfera complessiva pre-moderna.
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