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Coscienza storica e coscienza mitica, la posta in gioco

È opinione abbastanza diffusa che tra coscienza storica e coscienza mitica vi sia una radicale incompatibilità: che l’una esclude l’altra; e che da esse scaturiscano due visioni del mondo diametralmente opposte, e di conseguenza due diversissimi atteggiamenti pratici nei confronti della vita. In realtà, il concetto di coscienza, nell’uso della cultura moderna, è già l’indice di una rottura della coscienza stessa: quando la coscienza si divide, vi è una coscienza che pensa in maniera storicista e una coscienza che sente in maniera mitica. Pertanto la rottura della coscienza è anteriore alla contrapposizione fra mythos e lógos, contrapposizione che trova nel’illuminismo la sua sistemazione teorica definitiva. Per gli illuministi, all’età dei miti deve succede l’età della ragione; la superiorità dei moderni sugli antichi nasce da qui: sommando la visione lineare della storia, mutuata dal cristianesimo, alla visione ottimistica della ragione, vista come eternamente perfettibile. Vico, il grande isolato, pur essendo un pensatore cattolico, rinuncia alla visione lineare della storia e torna alla visione ciclica, propria degli antichi (l’età degli dèi, l’età degli eroi, l’età degli uomini); questo gli permette di rivalutare il passato, e, nello stesso tempo, grazie al concetto dei corsi e ricorsi che non sono mai, però, ripetizione dell’uguale, di conservare l’essenza della filosofia della storia cristiana: il fatto che la storia procede verso un fine e non si limita a girare a vuoto, in una spirale senza fine. È stato osservato che, se Vico fosse vissuto a Parigi o a Londra, e non a Napoli, il suo pensiero robusto, originale, capace di comprendere sia il mythos che il lógos, forse avrebbe fatto sì che l’illuminismo prendesse un’alta direzione, non così nettamente anticristiana e quindi non così nettamente razionalistica, in senso cartesiano. Ciò è possibile, anche se, naturalmente, non si può fare la storia con le mere ipotesi. Certo è che a partire dall’illuminismo la spaccatura della coscienza implicita nel sistema cartesiano è esplosa ed è divenuta un dato permanente dell’uomo moderno; né il romanticismo ha potuto o voluto risanarla, perché esso non ha fatto che riprendere e rovesciare la contrapposizione illuminista di ragione e mito, invertendo il rispettivo giudizio su di essi, ma riproponendo inalterata quella lacerazione.

Una interessante riflessione su questo argomento è stata svolta da Hans-Georg Gadamer (1900-2002), uno dei maggioro esponenti dell’ermeneutica filosofica, nella sua opera più significativa, Verità e metodo (Wahrheit und Methode, 1960; traduzione dal tedesco di Gianni Vattimo, Milano, Bompiani, 1983, pp. 321-324):

I criteri dell’illuminismo moderno costituiscono ancora la base della mentalità dello storicismo. Naturalmente non in modo diretto, ma attraverso una peculiare rifrazione provocata dal romanticismo. Ciò si esprime in modo particolarmente chiaro nello schema di filosofia della storia che il romanticismo ha in comune con l’illuminismo, e che proprio attraverso la reazione romantica contro l’illuminismo è assurto alla condizione di una premessa indiscussa: lo schema del superamento del mito nel lógos. Il presupposto in base al quale questo schema acquista la sua validità è quello del progressivo "disincantamento" del mondo. Esso pretende di rappresentare la legge stessa di sviluppo la legge stessa di sviluppo della storia, e proprio perché valuta negativamente questo processo, il romanticismo lo assume come ovvio. Condivide quindi il presupposto illuministico, e ne rovescia solo la valutazione, in quanto cerca di far valere l’antico come antico: il medioevo "gotico", l’unità cristiana dell’Europa, la struttura gerarchica della società, ma anche, d’altro lato, la semplicità della vita campestre e la vicinanza alla natura. In contrasto con il perfezionismo dell’illuminismo, che vede tutto in termini di liberazione dalla "superstizione" e dai pregiudizi del passato, le epoche primitive, il mondo mitico, l’unità della vita, non scissa e divisa ad opera della coscienza, propria della "società di natura", il mondo della cavalleria cristiana — tutto questo viene ad assumere un fascino romantico, anzi una vera e propria posizione di più autentica verità. Il rovesciamento dei presupposti dell’illuminismo ha per conseguenza la paradossale tendenza alla restaurazione, cioè la tendenza alla ripresa dell’antico in quanto antico, al ritorno consapevole verso l’inconscio, e culmina nel riconoscimento della superiore saggezza di una mitica epoca originaria. Ma proprio attraverso questo rovesciamento romantico del criterio di valore dell’illuminismo il presupposto illuministico dell’astratta opposizione tra mythos è lógos viene mantenuto e fissato in modo definitivo. Ogni critica all’illuminismo muoverà d’ora in avanti da questa immagine rovesciata di esso che è implicita nel romanticismo. La fede nella perfettibilità della ragione si trasforma in quella della perfezione della coscienza "mitica" e si riflette, rovesciandosi, nell’idea di una condizione originaria paradisiaca prima del peccato originale del pensiero. (…)

Un altro caso di questo rovesciamento speculare operato dal romanticismo è quello del concetto di una "società di natura", la cui origine dovrebbe essere finalmente indagata. In Marx, tale concetto appare come una specie di residuo giusnaturalistico che limita la validità della sua teoria sociale della lotta di classe, fondata su considerazioni economiche. Si può dire che questo concetto risala alla descrizione rousseauiana della società prima della divisione del lavoro e dell’istituzione della proprietà? In ogni modo, già Platone, nell’ironica descrizione dello stato di natura che dà nel terzo libro della "Repubblica", ha messo in luce il carattere di illusione di questa teoria. Da questi rovesciamenti di concetti prodotti dal romanticismo scaturisce l’atteggiamento delle scienze storiche del XIX secolo. Esse non misurano più il passato con i criteri del presente come se questi fossero assoluti, ma attribuiscono invece alle epoche passate un autonomo valore e possono addirittura riconoscere loro una superiorità sotto questo o quel punto di vista. Le grandi novità del romanticismo: il ritorno alle epoche primitive, l’ascoltare le voci dei popoli nei loro canti, le raccolte di favole e di saghe, attenzione per il folklore antico, la scoperta delle lingue come visioni del mondo, lo studio della "religione e saggezza dell’India" — tutto questo diede il via a una ricerca storica che a poco a poco trasformò la ricchezza delle intuizioni iniziali in conoscenza storica metodica. Il fatto che la scuola storica si collegasse al romanticismo conferma che la ripresa romantica delle origini ha a sua volta le proprie radici nel terreno dell’illuminismo. La scienza storica del secolo XIX è il suo frutto più superbo e l’ultimo passo e si presenta appunto esplicitamente come il compimento dell’illuminismo, come l’ultimo passo sulla via della liberazione dello spirito dalle prigioni dogmatiche, il passaggio alla conoscenza obiettiva del mondo storico, che si colloca, con pari diritti, accanto alla conoscenza della natura realizzata dalla scienza moderna. Il fatto che l’atteggiamento restaurativo del romanticismo potesse comporsi con la mentalità illuministica nel costituire la base delle scienze storiche rivela soltanto che al fondo di entrambi vi è una stessa rottura della continuità con la tradizione. Se per l’illuminismo ogni dato tramandato che per la ragione si presenti come impossibile, cioè come privo di senso, può essere compreso solo storicamente, cioè rifacendosi alla mentalità del passato, la coscienza storica che si afferma con il romanticismo rappresenta la radicalizzazione dell’illuminismo.

Quel che ci trova d’accordo, in questo ragionamento, è che illuminismo e romanticismo sono due facce di una stessa medaglia, o, per dir meglio, due modi di manifestarsi della stessa malattia, la malattia della modernità, e che perciò sono complementari, più che oppositivi; quello che non ci trova d’accordo, invece, è che la mentalità dell’illuminismo sia essenzialmente storicista, e che il romanticismo l’abbia mutuata, solo capovolgendone il senso, dall’illuminismo. Per sostenere che l’illuminismo sia stato storicista, non basta affermare che per l’illuminismo ogni dato tramandato che per la ragione si presenti come impossibile, cioè come privo di senso, può essere compreso solo storicamente, cioè rifacendosi alla mentalità del passato, per qualificarlo come tale. Questo non è storicismo, bensì razionalismo esasperato: la ragione strumentale e calcolante è il solo criterio di verità; ciò che per la ragione è impossibile, deve essere "storicizzato", cioè inserito nel contesto di un’epoca e una società irrazionali. Lo storicismo non è questo, ma il contrario di questo; storicismo è considerare la storia stessa, in sé e per sé, e non la ragione, lo strumento per comprendere e spiegare i fatti umani. Questo, però, non è l’atteggiamento degli illuministi; essi non cercano né di comprendere, né di spiegare ciò che, per loro, non è razionalmente ammissibile: lo etichettano semplicemente come ignoranza e superstizione e ci tirano un rigo sopra. A quel punto, e solo a quel punto, affermano che se cose irrazionali sono state accettate e credute come vere, la sola spiegazione possibile, non dei fatti, ma delle credenze, è che al tempo e nella società in cui l’impossibile era accettato come vero, la mentalità era quella, cioè dominata dal sentimento, dalla immaginazione e da altri fattori non strettamente razionali. Il che ci riporta solo in apparenza allo stesso punto d’arrivo dei romantici, i quali affermano che vero non è solo ciò che la ragione qualifica come verosimile, ma anche ciò che la ragione non arriva a capire, né, tanto meno, a spiegare, ma che tuttavia è dotato di un suo grado, o genere, di verità, diversi da quelli della verità razionale di ordine logico-matematico. Per cui i romantici sono, sì, storicisti, nel senso che riconoscono dignità e valore ad ogni epoca e ad ogni civiltà umana, indipendentemente dal loro grado di razionalità; ma il loro "storicismo" non è altro, in definitiva, che un mezzo per scatenare la lotta contro il predominio tirannico della ragione, accanto ad altri mezzi, come il mito, o il sentimento religioso.

Se i romantici fossero veramente storicisti, allora accetterebbero anche l’autonomia e la pari dignità di una società, quella dominata dall’illuminismo, che rifiuta e condanna ciò che non si sottomette alle categorie della ragione libera e spregiudicata; in altre parole, applicherebbero anche al mondo moderno la categoria della necessità storica e le riconoscerebbero una dignità intrinseca. Ecco il grande paradosso, che illustra come illuminismo e romanticismo non sono altro che due facce della stessa medaglia: gli illuministi sminuiscono e disconoscono il passato, imputandogli un difetto nello sviluppo della ragione critica; i romantici reagiscono contro l’illuminismo, lo contestano, lo disprezzano, per un motivo uguale e contrario: perché gli rimproverano un eccesso di razionalismo, che lo conduce alla totale incomprensione di tutto ciò che appartiene alla sfera extrarazionale. Giungiamo così alla conclusione che l’illuminismo non è stato storicista, perché disprezzava quella parte della storia in cui non si erano ancora affermati i lumi della ragione; ma non lo è stato neppure il romanticismo, perché esso ha visto nella storia l’elemento particolare, in ultima analisi il sentimento, che si contrappone al dominio dell’elemento universale, la ragione: non ha assolutizzato la storia, ma l’ha rivolta contro la tirannia della ragione. Per questo ha creato, o sviluppato, il mito del buon selvaggio: ha creduto che primitivo sia la stessa cosa che mitico, e invece il mito scaturisce da una visione del reale che non è affatto primitiva, se con questo termine a’intende rozza, semplicistica, approssimativa e irrazionale. E qui torniamo al discorso iniziale, quello sulla coscienza

Abbiamo detto che il predominio della coscienza sul fatto del conoscere indica che vi è già una rottura nell’io: uno sdoppiamento fra l’io che vive e l’io che osserva; inoltre, uno sdoppiamento fra l’io razionale e il mondo, che viene ridotto a oggetto passivo del conoscere. Questo sdoppiamento è tipico del pensiero moderno: inizia con la dicotomia cartesiana di res cogitans e res extensa e culmina nell’idealismo, che riduce l’essere a una funzione del pensiero; passando per il criticismo kantiano, che mette fra parentesi la cosa in sé rispetto al fenomeno, cioè mette fra parentesi l’essere. Ci resta da vedere come questo sdoppiamento, rispecchiandosi nella contrapposizione di mythos e lógos, abbia provocato infiniti danni non solo all’unità del pensiero, ma anche all’unità del cosmo (nel senso etimologico di Kosmos = ordine). Un caso fra i tanti ci sembra specialmente illuminante, quello della teologia. La teologia moderna, figlia della coppia illuminismo/romanticismo, accoglie in pieno la contrapposizione di mythos e lógos e così, a un certo punto (Bultmann), si mette in testa che bisogna demitizzare il cristianesimo, ossia liberarlo dalle sovrastrutture mitiche, per restituirlo alla sua purezza originaria. Da tale storicizzazione radicale, naturalmente, il cristianesimo non può che uscire distrutto: e così è stato. I teologi moderni non hanno voluto capire (o l’avevano capito fin troppo bene?, in tal caso si tratterebbe d’una congiura vera e propria) che il cristianesimo è fondato su una visione mitica, ma che il mito cristiano non è affatto una sorta di leggenda, bensì la divina Rivelazione agli uomini per mezzo di simboli. Togliere i simboli vuol dire non già togliere il mito, ma togliere tutto, perché il mito è la Verità divina espressa nella forma universalmente comprensibile agli uomini, quella del simbolo; mentre la ragione, che pare universale, è in realtà la ragione moderna, propria di una singola civiltà, diversa da tutte le altre e quindi comprensibile solo a pochi.

Ecco perché diciamo che o si è moderni, o si è cristiani: il lógos moderno è incompatibile con il Lógos di san Giovanni: questo è Dio che si fa Parola agli uomini; quello è la pretesa degli uomini di farsi parola a se stessi, cioè di farsi dio. I teologi moderni non sono più cristiani, anche se dicono e forse credono di esserlo. Certamente non lo è Karl Rahner e certamente non lo è il signore argentino travestito di bianco: qualsiasi cosa affermino di se stessi, ciò che appare evidente è il loro essere non cristiani e post-cristiani, figli, in tutto e per tutto, della ragione illuminista e del sentimentalismo romantico. La ragione illuminista li porta a considerare il mito come una semplice sovrastruttura, superflua e inaccettabile per la mentalità dell’uomo moderno; il sentimentalismo romantico li porta a vedere tutti i miti religiosi come equivalenti, per cui il cristianesimo è solo uno fra gli altri: ed ecco il pluralismo religioso, glorificato e ufficializzato da Bergoglio nel documento di Abu Dhabi. Questi signori sono troppo figli dell’illuminismo per avere l’umiltà di riconoscere che il mito non è qualcosa di meno, ma qualcosa di più della ragione; e troppo romantici per ammettere che i miti creati dalla sapienza umana sono una cosa, mentre il mito cristiano è tutt’altra cosa: non prodotto della storia, ma Rivelazione di Dio nella storia.

Possibile che non se ne rendano conto? È molto, molto improbabile. Sembra piuttosto che agiscano seguendo una precisa tabella di marcia nella direzione stabilita, una volta per tutte, da Voltaire e da Rousseau: i due philosophes così diversi fra loro, ma anche, a ben guardare, così terribilmente simili…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Pixabay from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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