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29 Luglio 2015
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29 Luglio 2015Pare che, da un po’ di tempo, "giudicare" sia diventato un verbo impronunciabile e che il giudizio morale, in qualunque firma e sotto qualunque prospettiva, sia diventato un’azione turpe e inammissibile: qualche cosa che né il giurista, né il sacerdote, e men che meno la persona qualunque, sono in diritto di fare.
«Chi sono io per giudicare?» è una bellissima frase a effetto: sembra un capolavoro di umiltà e chiude la bocca a qualsiasi eventuale replica, pena il passare automaticamente nella poco raccomandabile schiera dei presuntuosi e degli ipocriti, di quelli dal giudizio facile e disinvolto che usano due pesi e due misure: una per condannare gli altri, un’altra per scusare e giustificare perennemente se stessi.
Una famiglia di immigrati romeni, quattro persone in tutto, è penetrata in un appartamento non suo, vi si è insediata, lo ha eletto a propria residenza; sfrattata con la forza, è rientrata nel medesimo appartamento esattamente dodici ore dopo. Nel motivare la sentenza di rilascio, perché nessun provvedimento è stato preso a carico di costoro, il giudice ha detto che si trovavano in uno stato di grave disagio ambientale. E con ciò il proprietario dell’appartamento, un uomo che ha sempre osservato la legge e pagato le tasse, comprese quelle sulla casa in questione, è rimasto servito: come dire, perché non ha offerto loro, direttamente, le chiavi dell’appartamento? Poveretti: erano in stato di grave disagio ambientale. Come si può avere un cuore di pietra, insensibile al sentimento della pietà, davanti a un caso simile? Tutti coloro che vivono un disagio ambientale sono avvisati da quel giudice (del padovano, per la cronaca): che forzino la porta di qualche villetta o di qualche appartamento vuoto e facciano come fossero a casa propria.
Se, poi, passiamo dal diritto alla morale religiosa, vediamo che molti sacerdoti cattolici, molti vescovi e molti fedeli si sono portati su posizioni analoghe: siamo tutti peccatori, dunque non è il caso di giudicare niente e nessuno: non sarebbe cristiano. Gesù, infatti, essi dicono, non giudicava, voleva bene a tutti e perdonava tutti. Si sono fabbricati un Gesù zuccheroso e buonista, fatto sulla loro misura: si vede che hanno letto il Vangelo a modo loro. All’adultera, da Lui salvata dalla lapidazione, Gesù ha detto testualmente: «Nessuno ti ha condannata? Nemmeno io ti condanno: va’, e non peccare più.» Non è vero, dunque, che Gesù si è rifiutato di giudicare:si è rifiutato di condannare, cosa ben diversa; ma che abbia giudicato, certo l’azione dell’adulterio e non la persona dell’adultera, è chiaro come il sole: altrimenti, perché le avrebbe detto: «e non peccare più?». La donna, per Gesù, aveva peccato, e glielo dice apertamente: questo, a casa nostra, si chiama giudicare. E con ragione.
C’è stato un tempo in cui, nella civiltà europea, ciò che era mala davanti a Dio era male anche davanti agli uomini: il peccato era automaticamente un reato. I due peccati più gravi in assoluto erano anche i due reati più esecrandi: il delitto di lesa maestà, cioè l’attentato alla vita e ai diritti del sovrano, e il peccato di eresia, vale a dire la lesa maestà nei confronti della Parola che Dio aveva rivolto agli esseri umani per ricondurli a Sé. Il primo pensatore a operare una netta distinzione tra la sfera della morale e quella della politica è stato Machiavelli; dopo di lui, Hobbes, vero padre nobile del laicismo e della riduzione della religione a fatto privato; infine il giusnaturalismo di Altusio, Grozio e Pufendorf, con la sua teoria dei diritti naturali dell’individuo. Nel frattempo, il concetto del giudicare si era laicizzato e, nello stesso tempo, per così dire, relativizzato.
Riportiamo una pagina di Mario A. Cattaneo dedicata alla "vexata quaestio" del non giudicare (da: M. A. Cattaneo, «Riflessioni sull’umanesimo giuridico», Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004, pp. 51-53):
«Uno dei maggiori giusnaturalisti dell’età moderna, Christian Thomasius, aveva svolto delle precise considerazioni su questi problemi. Nella sua "Dissertatio de Praesumptione Bonitatis", del 1700, egli delinea con precisione il principio della secolarizzazione del diritto penale, ovvero la separazione fra morale e diritto, principio che impone di escludere dalla punizioni giuridica le mere violazioni della legge morale, che non ledono i diritti individuali altrui. Tale principio limita la pena in senso giuridico all’azione esterna, che causa una violazione di un diritto individuale. Nello stesso tempo, sul piano giuridico, non si esige un’adesione interiore alla norma, ma ci si accontenta di un comportamento esterno conforme ad essa. Thomasius afferma infatti che il giurista, a differenza del moralista, non si occupa della interiorità dell’uomo, ma si accontenta del fatto che i cittadini non violino le leggi con azioni esterne; dal punto di vista giuridico è buono colui che non delinque per timore della pena: Cogitationes enim non puniuntur, 1, 18 D de Poenis". D’altra parte , tuttavia, Thomasius considera cosa giusta il principio per cui di fronte ad un’azione illecita dal punto di vista giuridico spetti all’accusa l’onere della prova circa il dolo. A prima vista, sembra che l’esigenza della presenza del dolo, per valutare il carattere criminoso do un’azione, contraddica al principio precedentemente affermato; ma Thomasius sottolinea la necessità di distinguere al riguardo due questioni diverse, a seconda che si tratta di azioni BUONE o di azioni CATTIVE. Il principio per cui gli atti interni non concernono il foro umano riguarda la BONTÀ delle azioni: "Bona autem actio, id est, legis conformis, omnis illa Juriconsultis reputatur, quae externa cum norma legis convenientiam habet, licet ex animo oboedientiam legi praestare cupido non proveniat." Nel caso di un’azione CATTIVA, invece, non è sufficiente, per punire la PERSONA che l’ha commessa, il fatto della mera difformità esteriore dalla legge, ma si richiede che quell’azione sia stata deliberata e voluta da quella persona; d’altra parte, il dolo ha rilevanza giuridica non di per sé soltanto, ma in quanto si estinseca in un’azioine esterna: "Juriconsultos non respicere dolus, quatenus intra cancellos malitiosae animi inclinationis persistit, seu quatenus est internum quid, sed quatenus in externas actiones prorompi. Atque sic, si adcurate loqui velimus, non punitur proprie in foro humano dolus, sed actio externa ex doloso animo proficiscens".("De Praesumptione Bonitatis", §§ XI; XVIII; XX). In questo brano di Thomasius il problema è quello di conciliare il principio della separazione fra morale e diritto da un lato, e l’esigenza di giustizia di limitare l’inflizione di una sanzione penale al solo caso di una azione derivante da una volontà dolosa, dall’altro.»
E non è solo il problema di questo specifico brano, né del solo Thomasius: è il problema di tutto il giusnaturalismo e, più in generale, il problema della cultura moderna, dal momento in cui essa si è impegnata a tracciare una rigida linea di demarcazione fra ciò che avviene nel chiuso della coscienza e ciò che si manifesta come azione visibile, allo scopo di ignorare il primo aspetto — che non riguarda la legge degli uomini, ma solo quella di Dio, e che, pertanto, non va preso in considerazione in sede giuridica — e di limitare l’azione penale al secondo, a condizione che vi siano le condizioni per parlare sicuramente di dolo effettuato con malizia.
Ed è davvero un bel problema, perché la questione, posta in simili termini, pretende di sdoppiare il soggetto umano, che è unitario, in un lato interno, che riguarda solo ed esclusivamente lui, ed un lato esterno, che riguarda la collettività, a meno che la violazione della legge sia stata commessa senza dolo e senza malizia, ma in stato di necessità – come stabilisce la sentenza del buon giudice italiano di cui parlavamo in apertura. Ma l’uomo, dicevamo, è uno: una la sua coscienza, una la sua sfera morale, una la sua personalità (salvo i casi, rarissimi e gravemente patologici, nei quali si può possa parlare di sdoppiamento o di frammentazione moltiplicazione dell’io). E allora?
A partire dal XVI, e soprattutto dal XVII e XVIII secolo, la cultura europea ha vissuto l’esperienza della secolarizzazione della laicizzazione: coerente con tale premessa, ha elaborato l’idea che ciascuno è libero delle proprie idee e dei propri sentimenti, per quanto malvagi, purché essi non si esplichino in azioni esterne concrete, tali da ledere il diritto altrui: perché, a partire dalla nascita della civiltà moderna, lo Stato e la legge sono sempre più stati visti come meri strumenti per assicurare al singolo individuo il massimo della libertà e degli inalienabili "diritti naturali": concetto tanto fumoso ed equivoco, che lo stesso Rousseau, uno dei suoi massimi cultori, doveva ammettere che, nonostante il fatto che l’uomo nasca libero, ovunque, invece, di fatto egli è in catene (un autentico capolavoro di coerenza e di buon senso da parte del grande "philospohe"…).
L’opera intrapresa dal giusnaturalismo è stata immane, titanica. Si trattava di sostituire le vecchie basi della morale e del diritto con le nuove, svincolandole dalla religione e dal principio di autorità; si trattava, insomma, più o meno, di rifare le stessa fondamenta su cui si regge la civiltà europea: infatti, il risultato di quell’opera ha dato luogo a un’altra civiltà (non solo giuridica), che, con la precedente, condivide unicamente il fatto di essere figlia dell’Europa. La civiltà europea medievale si riconosceva nel fondamento del cristianesimo: i Dieci comandamenti erano la base della morale, e anche della legge; la filosofia cristiana medievale ammetteva una morale naturale, sussidiaria rispetto a quella rivelata, e non contrastante con essa: seguendola, tutti gli esseri umani sono in grado di vivere in maniera etica e possono aprirsi alla verità soprannaturale.
Il giusnaturalismo nasce essenzialmente dal desiderio di allentare la pressione che lo Stato, la politica, il potere, esercitano sull’individuo; di porre un freno, una barriera, un limite, all’interno della quale egli sia tutelato e protetto. Esso crede nell’esistenza di un diritto positivo o diritto di natura, che è, in pratica, una rielaborazione "moderna" dell’idea classica (Aristotele) e cristiana (Tommaso) del "vecchio" diritto naturale. I giusnaturalisti erano disgustati dallo spettacolo delle guerre di religione e dagli abusi della monarchia assoluta e volevano fondare un diritto che fosse sciolto e svincolato dal vecchio, perché attribuivano appunto alla Chiesa e allo Stato la responsabilità di ogni abuso e, dunque, imputavano loro tutto il carico di sofferenze, sia dei popoli, sia degl’individui, che aveva travagliato l’Europa dopo il Rinascimento.
Sembra, tuttavia, che i giusnaturalisti si siano spinti un po’ troppo lontano sulla loro strada, fino a perdere di vista il fatto che il male morale può venire alla società sia da un cesso di autorità, sia da un suo difetto: e non solo di autorità in senso fisico, ma anche in senso morale. Una società preoccupata unicamente di tutelare i diritti del singolo individuo corre fatalmente incontro alla propria disgregazione, perché in essa viene meno un principio superiore che riconduca gli individui ad unità e che coltivi in loro il senso della responsabilità reciproca e della condivisione di un destino comune. E si tratta, in primo luogo, di un principio d’ordine spirituale, non materiale. Ma come trovare un simile principio una volta relegata la religione nella sfera delle credenze private, irrilevanti per la società nel suo insieme, e dopo aver operato una rigorosa distinzione fra il sentire e il pensare da una parte, e l’agire dall’altro?
Intendiamoci: non stiamo rimpiangendo il fondamentalismo religioso e la nascita di una distinzione fra la l’ambito delle leggi umane e quello della Legge divina. Ci limitiamo a constatare le conseguenze che sono derivate da quella distinzione, avvenuta,m oltretutto, in un cima di crescente noncuranza, e alla fine di autentico disprezzo, per la sfera del sacro e del soprannaturale, unica superiore garanzia agli egoismi contrastanti e scatenati dei singoli individui, ciascuno dei quali vorrebbe servirsi del diritto per sconfiggere gli altri e affermare se stesso. È accaduto, nella società, quel che vediamo accadere in quella minuscola, ma fondamentale società, che è la famiglia: il prevalere delle logiche individuali, della cultura dei "diritti" astratti, della contrapposizione incessante di ciascun "io" a tutti gli altri. E questo è un male.
Quanto alla pretesa di consentire qualunque aberrazione dell’individuo, fino a che essa non vada a cozzare contro i diritti riconosciuti di qualcun altro, si tratta di una illusione e di una follia: di una illusione, perché la natura umana non conosce un simile discrimine, e di una follia perché incoraggia, di per sé, la prevaricazione e la violenza. Come si fa a consentire, anzi, a coltivare e lusingare tutti i giorni, in ogni modo (oh, legalmente lecito!) le peggiori tendenze umane — l’avidità, la lussuria, la superbia — e poi a meravigliarsi dei frutti avvelenati che esse producono nel corpo vivo della nostra società?
Lo ripetiamo: non si tratta di rimpiangere la coincidenza della legge religiosa e del diritto positivo (del resto, gli stessi giusnaturalisti ammettevano che neanche la legge naturale si adegua mai del tutto al diritto positivo), ma di ripensare la persona umana come un tutto, che sarebbe ipocrita e ingannevole scindere in un "dentro" e un "fuori" (specie dopo che il freudismo ha ulteriormente complicato le cose, mostrando che anche sul "dentro" poco sappiamo e poco possiamo controllare) e, dunque, di rifondare una sana pedagogia, basata sulla distinzione del Bene e del Male, così come noi l’abbiamo ricevuta, quasi tutti, dai nostri genitori e dai nostri nonni: e non sulla distinzione, cavillosa e mutevole, fra lecito e illecito, buona perché qualunque sofista, qualunque dottor Azzeccagarbugli la giri e la rigiri, secondo la convenienza del caso….
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