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Voler trovare l’autore del «De imitatione Christi» significa tradirne lo spirito e l’intento

Tutti coloro i quali si sono interessati, anche superficialmente, a quell’aureo libretto che è la «Imitazione di Cristo» («De imitazione Christi») sanno quanto sia ardua, complessa e dibattuta, la questione relativa al suo autore, anche se la rosa dei "candidati", dopo molto sfrondare, sembra essersi ridotta a tre nomi: quello del monaco benedettino Giovanni Gersen, solo da poco identificato con Giovanni da Cavaglià, nato in quel paese del biellese nel 1243; quello del teologo e filosofo francese Jean Gerson (1363-1429); e infine quello del monaco agostiniano tedesco Tommaso da Kempis (1380 circa — 1471), che resta tuttora il più probabile.

La questione, dicevamo, è ancora intensamente dibattuta; e noi, che non abbiamo né la competenza filologica, né le conoscenze storiche necessarie, ci guarderemo bene dalla pretesa di aggiungervi anche solo una parola; desideriamo, invece, portare la nostra attenzione, e quella di chi ci legge, su un’altra questione: e cioè se sia giusto, da parte degli studiosi contemporanei — anzi, da parte di tutti gli studiosi, già a partire dall’età umanistica — voler individuare ad ogni costo l’autore di quel libro, laddove egli ha deciso, con tutta evidenza, di rimanere, invece, celato.

La mentalità analitica, razionalista e scientista della cultura moderna aborre dall’incertezza, così come certi artisti aborrivano il vuoto e dovevamo riempire tutto lo spazio a loro disposizione, non lasciando "libera" nemmeno la più piccola superficie: sia che si trattasse d’un bassorilievo, o di una pala d’altare, o d’una pagina miniata di qualche codice prezioso. I moderni pretendono di esplorare tutto, di sapere i nomi, le date, i luoghi, di incasellare e catalogare ogni informazione, onde riempire la loro mappa mentale fino all’ultimo centimetro di superficie. Per fare tutto questo, non si fermano davanti a nulla, non arretrano davanti a qualsiasi azione: perfino la profanazione delle antiche tombe diventa una attività del tutto lecita e perfino lodevole, la chiamano "scienza archeologica" e se ne gloriano, senza minimamente pensare che disturbare il sonno dei morti, siano essi addormentati da pochi anni o da secoli e millenni, è pur sempre una cosa blasfema e irresponsabile. Un dato che non torna, una notizia che non risponde all’appello, un punto di domanda nella loro mappa mentale: tali cose appaiono loro come intollerabili, ed essi le vivono come una perenne sfida, in cui è in gioco la loro smania di conoscere ogni cosa, ma anche qualcos’altro, se pure non apertamente dichiarato: il loro orgoglio di studiosi, il loro amor proprio ferito, il senso di insicurezza che provano davanti all’ignoto, senso d’insicurezza che fa scattare in loro, per reazione, una vera e propria smania di porre un cartellino con il nome e la data su ogni elemento dell’umana conoscenza.

In altre parole, lo studioso moderno vuole non soltanto conoscere, ma anche inebriarsi con il proprio senso di onnipotenza: vuole avere la sensazione del dominio sulle cose, e sia pure sul passato, perché non può farne a meno; è una cosa più forte di lui, e, del resto, è questa una tendenza costante e generale dell’uomo moderno, anche al di fuori dell’ambito intellettuale: il controllo sulle cose, sugli altri, sull’ambiente, sulla politica, sull’economia, sulla scienza, sull’informazione; il controllo totale, anche sui propri familiari, sui propri amici, sui propri colleghi, sugli inquilini che abitano nello stesso condominio. Se non esercita una qualche forma di controllo sulla realtà che lo circonda, l’uomo moderno si sente perduto: alla mercé di forze paurose e imprevedibili, vale a dire tutta la dimensione dell’ignoto; dimensione che lui, figlio dei Lumi della Ragione, e sacerdote instancabile del Progresso, non vorrebbe neppure ammettere che possa esistere.

Ma c’è dell’altro ancora. Un’opera come «L’imitazione di Cristo», che ha dato pace e consolazione a generazioni e generazioni di esseri umani, non ha bisogno di venire firmata da colui che l’ha scritta; anzi, colui che l’ha scritta, molto probabilmente, non se ne considerava l’autore, nel senso preciso che noi oggi diamo a questa parola. Non se ne considerava affatto il creatore, perché riconosceva di essere stato solo il docile strumento mediante il quale la Parola divina si era indirizzata agli uomini: perciò il vero autore era Dio stesso, che è la Verità.

La pretesa dei filologi moderni di attribuire una precisa paternità, ad ogni costo, alla «Imitazione di Cristo», ben riflette la totale incomprensione della cultura moderna nei confronti di quella medievale: al punto che gli studiosi moderni (e parliamo degli studiosi, non delle persone comuni, che leggono in maniera superficiale i romanzi di Umberto Eco o guardano in maniera acritica film come «Il nome della rosa», ove l’autentico spirito medievale è denigrato secondo gli schemi più vieti e banali di certo illuminismo e di certo positivismo) non sono più nemmeno capaci di fare ciò che quell’ignoto scrittore di sette, otto o nove secoli fa, volle che facessero i suoi lettori: vale a dire, che si dimenticassero di lui e si concentrassero interamente, devotamente, fiduciosamente, sulle pagine del libro, lasciandosi trasportare dal soffio della Parola.

Insomma: se quell’anonimo scrittore, che doveva essere anche un fine teologo, ma che possedeva eccezionali capacità di porgere l’ardua materia mistica e speculativa ad un pubblico di non specialisti, volle tenere nascosto il suo nome, l’atteggiamento di chi non accetta quella scelta somiglia molto alla brutale indiscrezione, e alla vera e propria ingratitudine, di colui che, davanti a un beneficio ricevuto mentre si trovava in uno stato di estrema indigenza e necessità, da parte di un benefattore che ha scelto di conservare l’anonimato (fedele al motto di Gesù stesso: non sappia la tua destra quel che ha fatto la sinistra), si dia, invece, un gran daffare per strappargli quel velo di dosso e poterlo riconoscere per nome e cognome.

Eppure, lo spirito genuino del Medioevo è proprio quello: ci sarà bene una ragione se, così spesso, ci troviamo nell’imbarazzo allorché vorremmo individuare l’autore preciso d’un testo edificante, di una decorazione sacra, perfino di una grandiosa cattedrale. Solo con pena e con fatica, e nemmeno sempre, gli studiosi moderni sono riusciti a dare un nome a coloro i quali realizzarono alcune delle maggiori opere estetiche, intellettuali e spirituali dell’età medievale: è come se quegli uomini (e quelle donne) avessero voluto celarsi, onde non sovrapporre la loro immagine umana – e quindi, pur sempre imperfetta – all’idea sublime che volevano servire: la rappresentazione tangibile della Verità divina, dell’Amore divino, della Giustizia divina. Cosa che, del resto, è ben nota a chiunque voglia farsi guida spirituale del prossimo, anche al di fuori di una prospettiva strettamente religiosa e confessionale: guida spirituale, s’intende, e non psicanalista o consulente psicologico a un tanto l’ora; perché la guida spirituale bisogna che resti nell’ombra, in modo che tutta l’attenzione del discepolo sia rivolta non a lui, ma a ciò che egli dice.

A questo proposito ci piace riportare qui una pagina del grande studiosi di esoterismo, Elémire Zolla (da: «Imitazione di Cristo», Introduzione di E. Zolla, Milano, Rizzoli, 1958, 1974, pp. 5-10):

«La leggenda di Elsa, la vergine calunniata, e l’intero Brabante furono salvati da Lohengrin. L’eroe volle che restasse ignoto il suo nome e i saggi Brabantini si dissero che da lui proveniva loro la serenità e questo bastava. Elsa invece non resistette, domandò all’eroe il nome e l’origine, ed egli dovette abbandonare lei e il Brabante.

Così fu di questo libro felicemente anonimo, che anonimo sparse molta soavità nei cuori e per tanti tramutò il pianto dell’afflizione nel dono delle lacrime. Nel Medioevo si stava agli effetti di un’opera, senza interrogazioni curiose filologiche, avvocatesche, e all’anonimato si rimediava, semmai, con un nome d’0autore illustre qualsiasi. Non così la Cristianità umanistica; dinanzi a questo libro non si diede pace, confrontò testimonianze, scrutò le patine di pergamene e la qualità di sbiaditi inchiostri per estorcerne un nome, una residenza, una data. Ma via via, quanto più venne affinandosi e arruffandosi l’indagine, di tanto s’affievolì l’influsso, immenso, dell’opera. L’autore aveva pur voluto rimanere oscuro.

Come il gaudente soltanto dietro lo schermo d’una bautta corre all’avventura, con agio perfetto, è prudente che chi voglia confidare verità mistiche si occulti, non denudi il volto, non sveli il sigillo dei suoi limiti umani.

Il libro pure ingiunge di non cercare chi l’abbia composto.

All’ordine si disubbidì, si tentò di ricostruire la psicologia di chi forse era riuscito a non averne più una, prima d’accingersi a insegnare agli altri come si fa a liberarsi dell’io; si volle accertare l’ambiente, le tendenze sociali che influirono su chi se ne era strappato; ci s’impuntò ad appurare l’epoca precisa in cui era vissuto chi aveva trasceso il suo tempo per confondersi con uno qualsiasi e con ognuno dei momenti esemplari del’eone cristiano. Tant’è, le attribuzioni spaziano fra il primo millennio e il secolo XV. […]

Il mondo in cui questo libro era lettura di tutti è ormai scomparso. Ripenetrarvi fra non molto sarà altrettanto arduo come ripristinare con la forza d’una retta fantasia, per esempio, una scena di uomini dal berretto a punta che in cima ad un colle etrusco scrutino, cin estatica attenzione, in un fegato violaceo, liscio e palpitante, il cosmo e il destino. Vanno infatti impallidendo, dileguando via via che la morte falcia le ultime vive memorie, le scene che bisognerebbe rievocare intorno alle pagine di questo libretto. Scene un tempo quotidiane — come il canto virile che si alza a vespro verso le buie materne volte d’una cattedrale o il delicato fruscio di saî fra l’uno e l’altro rintocco della campana — giova riconvocare nell’orecchio; il mite sapore di cibi certosini giova immaginare ancora sul palato; e rivedere con l’occhio monache dal volto celato in perpetuo dal cappuccio nero, esalanti da dietro una grata la loro compassione per i viventi nel mondo, per citare brandelli a caso di quel che era un vivido arazzo, inghiottito dalla corruzione e dalla morte ormai al pari dei delicati riti isiaci o delle messe nestoriane delle steppe asiatiche, dei riti manichei, tutti ormai riassorbiti nel cielo delle forme formanti donde erano calati in forme formate e visibili, forse destinati in nuovi eoni a riassumere forme caduche o forse viceversa a rimanere, ormai, nell’eterica, intangibile perfezione dell’infinita possibilità. […]

A passare dall’anima alo spirito insegna questo libro, non alla maniera complessa e argomentante di certe altre opere di Tommaso da Kempis, bensì mercé un miracolo: uno stile di assoluta accessibilità. E dire che il trapasso dall’anima alo spirito è un concetto fra tutti difficilissimo. Quasi nessun moderno è capace di coglierlo. Come non afferrarlo però nell’esposizione di queste pagine (III, 33), là dove esse invitano a notare quel fermo e puro occhio dell’intenzione (intenzione di purità e chiarezza interiore), quell’occhio che contempla, grazie all’intenzione incrollabile, la propria psiche oscillante e mutevole? Altrove questo libro tenta di destare la stessa conoscenza dello spirito, distinto dall’anima, proponendo quello che potrebbe essere un perfetto "koan": "Dove sei tu quando non sei presente a te stesso?"[…]

Il libro è ascetico prima che mistico, eppure addita sobriamente alle gioie spirituali, a quel pleroma di cui le voluttà terrestri e le delizie note al mondo profano sono offuscati frantumi. Per avvicinare a tali gioie, suggerisce in uno scorcio operazioni vertiginose: se tu vedessi tutte le cose dinanzi, sarebbe vana visione. I segreti magici taoisti del non agire eccoli in un guscio di noce, esposti da questi libro che un tempo andava per le mani di tutti, là dove suggerisce — mettiti sempre in fondo e ti sarà data la cima, perché non c’è cima senza fondo -; oh candido Nietzsche, convinto, come un illuminista qualsiasi, che questa esoterica dottrina fosse una morale da schiavi!

In una vignetta dell’"Amphitheatrum", il secentesco libro di figure alchemiche del Khunrat, si vede il Ricercatore che insegue un coniglio bianco che s’è infilato in una buca del terreno da cui si passa ai regni arcani e mistici. Per schiere di morti questo libro fu — e forse sarà per nuovi lettori ancora — un tal coniglio bianco, fecondo, fulmineo mediatore.»

L’uomo moderno, dunque, non riesce nemmeno a capire perché l’autore di questo libro abbia voluto rimanere ignoto; non è capace di ascoltare, ha smarrito l’attitudine contemplativa. È dominato dalla febbre di fare, di agire; e, sopra ogni altra cosa, dal narcisismo dell’Ego: deve far sapere a tutti quanto è bravo, quanto è bello, quanto è intelligente, quanto è ricco. Avere dei doni, dei talenti, delle qualità, e tenerli nascosti, gli riesce semplicemente inconcepibile. Ecco perché, se viene a sapere che un ragazzo o una ragazza hanno deciso di seguire la loro vocazione mistica e di entrare in un convento, magari di clausura, non riesce a pensare se non che essi abbiano paura del mondo, oppure che siano afflitti da qualche problema psichico. Fino a tal punto è arrivata la devastante malattia dell’egotismo, che lo acceca e lo rende frenetico — e infelice.

Il fatto è che la «Imitazione di Cristo» offre consolazione: e l’uomo moderno non vuol essere consolato. Offre una via per santificare la sofferenza, ed egli non vuole santificare nulla, perché non riconosce a Dio il posto che Gli spetta e giudica la sofferenza come una beffa, un non-senso. Offre la medicina: ma lui non vuole essere curato; offre l’acqua fresca e viva, ma lui preferisce soffrire la sete nel deserto, e bere, quando può e come può, nelle pozzanghere salmastre e fangose, giusto per non morire, ma trascinando la propria vita come in una perenne agonia. È un infelice, ma un infelice che rifiuta anche solo l’idea della redenzione: non vuole essere redento, perché pensa di essere Dio. E Dio, si sa, non ha bisogno di farsi redimere.

Eppure, quanto bene farebbe, all’uomo d’oggi, la lettura di un libro come quello. Potrebbe donargli un bene incommensurabile, che non ha prezzo. Ma, per giovarsene, egli dovrebbe innanzitutto riconoscersi indigente: dovrebbe essere capace di un atto di umiltà, lui, gonfio di superbia com’è diventato a causa degli effimeri successi della sua ragione calcolante e strumentale.

Altre strade per uscire dal vicolo cieco, tuttavia, non ve ne sono…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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