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Vi è contraddizione fra il Dante della «Monarchia» e quello della «Commedia»?

Esiste un certo grado di contraddizione fra il pensiero politico dio Dante, quale è espresso nel trattato «De Monarchia», scritto nella maturità, fra il 1312 e il 1313, e quello che risulta dai versi della «Divina Commedia», e particolarmente della terza cantica, il «Paradiso», composto fra il 1316 e il 1321, cioè terminato solo alcune settimane, o forse solo pochi giorni, prima della morte del sommo poeta? Le due opere sono separate da un arco temporale che va da un minimo di tre ad un massimo di nove anni: un tempo, quindi, piuttosto limitato; eppure, il lettore ha l’impressione che le due opere appartengano a stagioni di vita e di pensiero considerevolmente lontane l’una dall’altra. Come si può spiegare una cosa del genere, in un autore, come Dante, che è contraddistinto da una notevole compattezza e coerenza di pensiero e di scrittura?

Il «De Monarchia», con la teoria dei due Soli, ossia con la teoria della reciproca autonomia e la pari dignità dei due poteri, l’imperiale e il papale, ciascuno dei quali deve inchinarsi all’altro nel campo che a quello è proprio – dunque l’imperiale a quello papale nel campo religioso e spirituale, il papale a quello imperiale nell’ambito politico e giuridico -, risente fortemente della particolare circostanza storica in cui fu scritto: vale a dire la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo e le vivissime speranze che tale evento ridestò nell’animo dell’esule Dante, non solo a livello personale, circa un rientro vittorioso a Firenze, a testa alta, di lui e degli altri esuli guelfi bianchi e ghibellini, ma anche, più in generale, per una restaurazione dell’autorità politica dell’Impero nella Penisola, vista da Dante come premessa indispensabile per la rinascita civile, sociale, morale dell’Italia stessa.

La «Divina Commedia», e specialmente la terza cantica, è l’espressione di una realtà esterna e di una dimensione spirituale soggettiva completamente mutate: tramontata, per sempre, la speranza di un rientro vittorioso in Firenze e di un ristabilimento delle condizioni essenziali di pace, giustizia e sicurezza nei Comuni e nelle Signorie italiane, sotto la comune bandiera imperiale, e concentratasi la vita interiore di Dante, sempre più, nella dimensione spirituale, religiosa e mistica, con la rinuncia ad ogni illusione terrena e con la proiezione di ogni interesse, attesa e speranza verso la dimensione ultraterrena, il Poeta sembra recuperare in pieno l’idea universalistica del papato medioevale, di un Innocenzo III e anche di un Bonifacio VIII (proprio di quel Bonifacio che lui, personalmente, così tanto aveva avversato e denunziato; ma non certo fino al punto di rallegrarsi dell’umiliazione di Anagni e della sconfitta papale ad opera del tracotante potere monarchico nazionale, in quel caso di Filippo il Bello re di Francia).

Arriviamo così alla constatazione che una svolta, nel pensiero politico di Dante, non c’è stata; non, almeno, nel senso comunemente accettato della parola: però, sicuramente, è sopravvenuta in lui una differenza di prospettiva, uno spostamento di punti di vista: finché aveva sperato, per se stesso e per i suoi contemporanei, in un riscatto politico-religioso a breve termine (di cui vi è un riflesso, fra l’altro, nella celebre e tuttora controversa profezia del Veltro), Dante aveva posto l’accento sulla dimensione politica, e dunque sul ghibellinismo, quale premessa necessaria per il ritorno dell’ordine, della pace e della giustizia nelle martoriate città d’Italia e nelle interminabili, sanguinose lotte sociali e di fazione; ma quando tale speranza cade, e a Dante non resta che l’attesa mistica di un riscatto futuro, che sarà prima di tutto morale, e poi anche politico, allora la sua aspettativa si concentra sul fattore spirituale e la sua speranza torna a rivolgersi alla Chiesa, non in quanto edificio umano e istituzione temporale, ma in quanto suprema custode e depositaria della Verità di fede, che non soffre alcuna possibile delusione, perché annunzia il Regno di Dio che incomincia, certo, in questo mondo, ma che in questo modo non arriverà mai a realizzarsi interamente, bensì nell’altro: quello della Città celeste.

Non vi è contraddizione, dunque, fra i due momenti della riflessione politica di Dante, ma diversità di prospettiva, di accenti, di scopi.

Ha scritto in proposito Paolo Brezzi, studioso di storia politica medievale (in: «Lectura Dantis Scaligera», Firenze, Le Monnier, 1967-68, Canto VI del "Paradiso"):

«[Nel "De Monarchia"] l’autore ha posto uno speciale accento sul’importanza dell’Impero, sulla sua libertà d’azione, sulla sua finzione provvidenziale che assolve dipendendo direttamente da Dio, ecc. Senza uscire dai confini della dottrina cattolica tradizionale, Dante illumina in particolar modo l’autonoma dell’istituzione, non certo nel senso di farne qualcosa di laicistico od areligioso, ma per distinguere bene le sue attribuzioni in rapporto ai fini ultimi (la "strada… del mondo" e la strada "di Deo" di Purg., XVI, 108), e quindi sovvertiva parzialmente la nozione gerarchica del Medioevo; tuttavia egli chiudeva ancora con l’auspicio di una coordinazione del potere imperiale con quello politico e di una reciproca subordinazione di ciascuno di essi all’altro in quello che è proprio dell’altro (la soggezione "in aliquo" del Principe romano al romano pontefice, di cui si parla negli ultimi capitoli del III libro della "Monarchia", non ha nulla di meno che dignitoso per il primo e non contraddice affatto lo spirito animatore generale di tutto il volume). Non dobbiamo addentrarci in discussioni di cronologia né, d’altra parte, si potrà mai sapere con esattezza a quale data risale la "Monarchia" ed a quale l’inizio della "Commedia"; nondimeno, è certo che il poema è impostato in maniera differente e, diciamo pure, antitetica al trattato. […]

Nel passaggio dall’una all’altra opera di Dante l’innovazione principale concerne il posto assai più rilevante dato alla Chiesa ed ai problemi ecclesiologici, quasi ignorati in precedenza dall’autore o visti soltanto in relazione al fatto politico imperiale, ciò che fece sì che anche il problema politico apparisse ormai in una luce diversa e che la preoccupazione principale di Dante fosse quella di porre fine alla corruzione in cui si trovava il mondo facendo leva sulla "sancta ecclesia" (la quale poi era a sua volta gravemente colpevole e necessitava essa stessa di riforma e di rinnovamento). Quale sia stata la causa della crisi spirituale dantesca, il fatto è che nel poema il suo stato d’animo era radicalmente mutato, di conseguenza — in relazione al tema centrale della presente ricerca, l’idea di Roma — anche la gloria della città eterna era più ecclesiastica che civile ed era alla Roma cristiana che andava diretto il maggiore interesse del poeta, come ben attestano celebri versi: "la quale e ‘l quale, a voler dir lo vero, / fu stabilito per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero" (Inf., II, 22 sgg.). La missione di Roma, che era stata quella di assicurare la pace nel mondo, di unificarlo per rendere più facile la diffusione dei benefici della Redenzione, diveniva in tal modo quella di avere offerto alla Chiesa la sua legittima sede, di essere la città dalla quale comanda il capo della nuova religione; forse quando Beatrice al sommo del Purgatorio rimproverò Dante d’essere caduto in vari errori, volle anche rammentargli le sue false dottrine "ghibelline", cioè l’avere atteso dall’Impero una rigenerazione dell’umanità, che poteva venire soltanto per altre vie e con nuovi fattori; il messaggio della "Commedia" fu, infatti, religioso, non politico.

Quanto si è detto finora sul canto VI dimostra che Dante non dimenticò mai del tutto il suo passato, non rifiutò il suo credo imperiale nella sua caratteristica più originale e profonda, ossia nel fare di quell’istituzione l’instauratrice della legge e dell’ordine mondiali, la garante maggiore della giustizia; l’Aquila rimase anche nel Paradiso il "sacrosanto", il "benedetto segno" e soprattutto il "segno /che fe’ i romani al mondo reverendi" (Par., XIX, 101-102 e cfr. XX), ma Dante non partecipò più attivamente alla vita politica, non difese questi o quelli con la passione che altre volte l’aveva mosso e gli aveva fatto polemizzare con tanta abilità e sottigliezza. Egli trapassava dall’Aquila alla Croce e s’immergeva nel misticismo unendo la sua anima con Dio in un supremo atto d’amore.»

Il punto essenziale è che Dante, genio universale e uomo dalla cultura vastissima e dalla sensibilità eccezionale, i cui interessi spaziano a trecentosessanta gradi e che non sa pensare un pensiero, se non in grande, ossia in una prospettiva universale, non è mai stato, essenzialmente, un pensatore politico o un filosofo della politica: e chi volesse partire da un simile punto di vista per comprendere l’evoluzione delle sue idee sull’Impero, sulla Chiesa e sulla relazione che lega i due poteri universali del Medioevo, sbaglierebbe fin dall’inizio.

Questo è il punto di partenza: quando Dante pensa la politica, non la pensa mai come un fattore isolato e indipendente della vita umana, sia individuale, sia sociale: la pensa sempre all’interno di un universo concettuale e di una esigenza morale che comprende la politica, ma che lega la pur necessaria autonomia di essa alla realizzazione di un bene più alto: la salvezza delle anime e dell’amore di Dio in terra. Per Dante, la politica è il prolungamento diretto della morale, e più precisamente della morale cristiana: Dante è, per così dire, l’anti Machiavelli per eccellenza (ci si passi l’incongruenza cronologica); nel senso che il pensiero politico di Dante è, in assoluto, il più lontano da quello che contraddistinguerà il segretario fiorentino. Per quest’ultimo, politica e morale non hanno niente a che fare l’una con l’altra; per Dante, la politica senza la morale cristiana è, semplicemente, qualcosa d’inconcepibile: una mostruosità, essendo priva di scopo, di direzione, di validità oggettiva.

Dante è, prima di tutto, un’anima religiosa, anzi, un mistico: si sente un profeta, un annunciatore del Verbo: tutto il resto, politica compresa, si colloca all’interno di questa prospettiva e di questo bisogno fondamentale della sua anima. Certo, la dimensione mistica, in lui, s’è accentuata: via via che la sua esperienza umana gli ha mostrato la caducità e la fragilità delle aspettative legate a quella terrena. Dante si è gradualmente innamorato dell’assoluto, concentrando il suo pensiero e la sua vita interiore in Dio solo, fonte di ogni grazia e origine di ogni perfezione: così come, parallelamente, egli è venuto staccandosi da ciò che lo teneva legato al mondo, ivi comprese la sua ambizione poetica e la sua aspettativa, pur sincera e generosa, di una restaurazione morale dell’Italia e del mondo. Mano a mano che ha potuto toccare con mano la piccolezza, la provvisorietà e la labilità dei beni terreni, compreso l’amore nella sua dimensione puramente terrena, egli si è volto nella sola direzione da cui ha visto sgorgare una fonte perenne di verità e di vita, che non delude mai e che non lascia l’amaro in bocca.

Dante, comunque, è un’anima forte, volitiva, estremamente energica e battagliera: il suo ritorno totale a Dio, la sua fiducia totale in Dio (per il tramite di Maria Vergine, alla quale ha dedicato i versi più belli che mai furono vergati da mano umana), non hanno nulla del ripiego, della rinuncia, della stanchezza: non per debolezza o per scoraggiamento Dante ha smesso di credere in una salvezza proveniente da questo mondo (il Veltro, e Arrigo VII di Lussemburgo, e Cangrande della Scala, e chissà chi altro ancora), ma per un atto meditato e consapevole di umiltà, di riconoscimento della creatura nei confronti del Creatore. Dante è colui che, avendo intravisto, e assaggiato, l’acqua divina che spegne ogni sete, ha smesso di desiderare qualunque bevanda di questo mondo: e in ciò non vi è alcun disprezzo verso la dimensione terrena — perché quello di Dante è uno spirito mistico, ma non ascetico! -, bensì, semplicemente, l’ovvia preferenza nei confronti di ciò che proviene dalla realtà soprannaturale, fonte e causa di ogni bene e di ogni gioia.

Così, il lettore contemporaneo — il quale, intellettualmente, culturalmente e spiritualmente, è figlio di Machiavelli ed al quale il senso della civiltà cristiana medievale rimane oscuro, se non incomprensibile, fintanto che non prova a spogliarsi almeno dei suoi pregiudizi più tipicamente "moderni" – fatica alquanto a comprendere la svolta, o piuttosto l’evoluzione, del pensiero politico dantesco, fra il periodo del «De Monarchia» e quello della «Commedia», specialmente quale appare nel «Paradiso». Per Dante, lo scopo di ciascuna cosa, di ciascun pensiero, di ciascuna azione, è sempre uno ed uno solo: instaurare, come dirà Pio X sei secoli più tardi, tutto in Cristo; perché solo in Cristo, in Dio Padre e nello Spirito Santo, vi sono la salvezza, il bene, la felicità.

La politica a questo serve, a questo deve concorrere: senza di ciò, essa diventa la lotta per un potere brutale, feroce, spietato, che nulla può giustificare moralmente e cui nulla può conferire una dignità o un significato. Dante ha compreso che l’Amore sorregge tutto; mentre, senza di esso, tutto crolla…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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