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Seneca e il progresso

Si suole dire e ripetere che il pensiero di Seneca è, come tutto il pensiero stoico, contrario al progresso; ma ciò non è esatto, o, almeno, non è completo: Seneca non aborre il progresso in quanto tale, ma diffida di un progresso privo di saggezza, puramente materiale ed egoistico, che non aiuti l’uomo a divenire migliore e più felice, ma che possa renderlo peggiore ed infelice, per cui ritiene che la filosofia debba prenderne le redini e orientarlo nella giusta direzione.

Ora, per Seneca, la giusta direzione è data dalla natura, che è quanto dire che l’uomo sarà migliore e più felice quanto più sarà capace di ritornare alla natura, di eliminare dalla sua vita ciò che è innaturale e di assecondare il flusso e i ritmi della natura, buona e perfetta in se stessa. Ma la giusta direzione è anche la via della ragione: non c’è contraddizione fra le due cose, sono le due facce della stessa medaglia. La natura è buona, perché è razionale; e la ragione è buona, perché corrisponde alle leggi naturali.

Come si vede, i giusnaturalisti del XVII secolo non hanno scoperto niente di nuovo, hanno semplicemente attualizzato le tesi degli antichi stoici: anch’essi hanno celebrato la bontà della natura e, nello stesso, la sua conformità alla ragione. Meno ancora ha inventato qualcosa di nuovo Jean-Jacques Rousseau, il quale, un secolo e mezzo dopo i giusnaturalismi, ha ripetuto, riguardo all’antropologia filosofica, le stesse cose già dette da Pufendorf, Altusio e Grozio, i quali, a lloro volta, avevano riecheggiato Zenone di Cizio, Seneca, Epitteto e Marco Aurelio:la sua tesi che l’uomo sia buono e ragionevole per natura e che sia la civiltà a corromperlo era già vecchia, quand’egli la espresse, di qualcosa come duemila anni — e, oltretutto, non è nemmeno un’idea particolarmente intelligente.

In fondo, a ben guardare ci si accorge che la genesi di questa idea è relativamente semplice e che un elemento comune apparenta la concezione antropologica degli stoici e dei giusnaturalismi: si tratta di due movimenti filosofici che sorgono in una fase storica di passaggio, da un paradigma culturale a un altro; precisamente, da un paradigma in cui la società riconosce che la morale ha un’origine non solo ed esclusivamente naturale, ma anche soprannaturale, e dunque religiosa, ad uno in cui si pensa che l’uomo possa trovare in se stesso i fondamenti del proprio agire etico. Né lo stoicismo, né il giusnaturalismo rifiutano la concezione religiosa della realtà; però, di fatto, le sostituiscono una concezione immanentistica, in cui l’uomo, presa coscienza della propria natura razionale, ardisce costruire da sé il proprio mondo e stabilire in maniera autonoma i principi morali cui attenersi: non li fa derivare dalla divinità, li cerca in se stesso ed è lì, semmai, che sente la presenza di un principio superiore, sempre, però, razionale, che conferma le sue convinzioni. Questo principio è, dunque, essenzialmente un principio naturalistico; ma, poiché la concezione religiosa non viene negata o rifiutata, ma solo collocata sullo sfondo, si finisce per attribuire alla natura quel carattere di razionalità superiore che, prima, generalmente veniva attribuito alla divinità. Nasce così una religione "naturale" che è anche, nello stesso tempo, perfettamente razionale: sicché, per essere morali, non è più necessario cercare di essere santi, basta seguire i dettami della ragione e lasciarsi guidare dalla natura, che è buona in se stessa.

Logico: come potrebbe non esser buona la natura, una volta che l’uomo, creatura di questo mondo, ha deciso che può trovare in se stesso tutto quanto gli occorre per fondare un universo morale e un progetto di civile convivenza con i propri simili? L’idea stoica del buon governo e quella giusnaturalista del patto sociale hanno origine da qui: dalla necessità di sostenere che l’uomo può vivere in armonia con i propri simili, e quindi realizzare la giustizia sulla terra, a condizione che non si allontani dalla natura, che possiede una saggezza intrinseca, una razionalità che trascende le sue singole manifestazioni (e che gli stoici chiamano "provvidenza", ma in un senso ben diverso a quello che il cristianesimo dà alla parola). Il Logos divino è, pertanto, anche Provvidenza, così come la natura originaria dell’uomo, per i giusnaturalismi, è intrinsecamente buona e felice: sono entrambe maniere di conciliare l’esistenza di una razionalità immanente alla natura con la drammatica presenza del male, la cui origine, evidente,ente, va ricercata in qualcosa che non fa parte della natura, anzi, va ricercata proprio nell’allontanamento dell’uomo dalla natura.

Per gli stoici, dunque, il Logos è un modo di chiamare la Natura divinizzata, poiché la divinità che essi ammettono non è diversa, in ultima analisi, dalla natura medesima: il loro è un razionalismo panteista e il loro Dio, come lo sarà quello di Spinoza, non è, a ben vedere, che una maniera di pensare e di vedere il mondo. Per i giusnaturalisti, d’altra parte, il Dio che si può e che si deve riconoscere non è il Dio di una religione rivelata, ma una divinità puramente razionale, cartesiana, che parla agli uomini per mezzo delle sue opere razionali: essi sono figli del nuovo paradigma scientifico galileiano, che vede il reale come espressione di una mente matematica.

Ma torniamo a Seneca. Che cos’è il progresso, per il filosofo romano? È una condizione di saggezza che può crescere, che può espandersi, magari per mezzo delle arti, vale a dire della tecnica? La risposta a questo interrogativo è sicuramente negativa: il progresso non può crescere, se per progresso si intende il progredire di tutto l’uomo, e non solo delle sue conoscenze tecnologiche; dal punto di vista interiore, morale, spirituale, non si dà progresso in senso storico, cioè non si dà accrescimento dagli antichi ai moderno, ma solo in senso soggettivo, come cammino verso la consapevolezza e, di conseguenza, verso la saggezza. La filosofia, per Seneca, è lo strumento per diventare saggi, mentre la tecnica non rende gli uomini più saggi, li rende solo più autonomi rispetto alla natura: il che, peraltro, non va inteso come un vantaggio, o non solo come un vantaggio, se è vero, come è vero, che, quanto più si allontana dalla natura, l’uomo perde il proprio equilibrio interiore, si abitua a contrarre delle cattive abitudini, a sviluppare esageratamente la propria parte egoistica e disordinata.

Ha osservato, in proposito, Giovanna Garbarino (in: G. Garbarino, «Opera. Letteratura, testi, cultura latina», Milano, Paravia, 2004, pp. 161-4):

«… Ripercorrendo in "tópoi" moralistici della civiltà come decadenza, Seneca mostra che la tranquillità e la libertà originarie hanno ceduto il passo, nei tempi moderni, alla fatica, accresciuta piuttosto che ridotta dal progresso tecnologico. La vita agiata esclude irreparabilmente la felicità proprio perché è molto lontana dalla natura: trovando pronta ogni cosa, gli uomini disimparano ad apprezzare ciò che è facile e si rendono tutto difficile. Ai moderni, frastornati dalle preoccupazioni materiali, ansiosi di possedere ricchezza e onori e disposti a vergognose bassezze per conseguirli, Seneca oppone dunque gli uomini primitivi felici e appagati. Citando direttamente Virgilio quando nel libro II delle "Georgiche" descrive i fortunati agricoltori italici, egli non esita a giudicare lo stato di natura come "aurea aetas" per quanto riguarda la condizione esistenziale degli uomini […].

Procedendo con l’intento di argomentare l’apparente paradosso dell’infelicità moderna, Seneca insiste poi nella rappresentazione idealizzata di un’originaria armonia tra l’uomo e la natura e degli uomini tra loro, riproponendo immagini e temi desunti da Virgilio e da Ovidio: Non solo la terra stessa, non coltivata, era più fertile e soddisfaceva generosamente i bisogni dei popoli che non si davano a ruberie, ma anche la vita comunitaria si fondava su uno spontaneo riconoscimento reciproco: non esisteva la proprietà privata, bensì la divisione dei beni tra gente in pieno accordo; il più forte non prevaricava sul debole; ciascuno si curava degli altri come di se stesso. Si disprezzavano le armi e le mani non macchiate da sangue umano lottavano esclusivamente contro le bestie; gli uomini vivevano nei boschi, ma non temevano la notte che trascorrevano senza ansie.

Mentre insiste sull’idea di decadenza della storia implicita nello stesso mito dell’età dell’oro, Seneca radicalizza la polemica morale contro la corruzione dei costumi e i falsi valori moderni, ma al contempo ripropone anche la questione del giudizio complessivo sullo sviluppo della conoscenza. Infatti, come aveva fatto anche Lucrezio, Seneca non può esimersi dal chiarire il valore della filosofia e della tecnologia nella storia dell’umanità, convinto com’è che gli uomini primitivi erano s’ innocenti, ma per ignoranza delle virtù non ancora svelate. Nel I sec. a. C. […], la riflessione sulle "artes" aveva indotto alcuni intellettuali a sostenere che proprio il sapere tecnico esprimesse al massimo grado le potenzialità razionali degli uomini e che, di conseguenza, l’agricoltura o l’architettura o l’astronomia fossero altrettanto degne della filosofia. Per Seneca la distanza fra "artes" e sapienza filosofica rimane invece netta: non si tratta di demonizzare le "artes" in quanto connesse con il progresso e dunque responsabili della decadenza della civiltà; esse non sono intrinsecamente negative, ma l’uomo, senza l’ausilio della filosofia, non ha saputo, né sa, farne buon uso. […] La conoscenza è destinata a crescere e con essa il dominio dell’uomo. Ma Seneca, come Lucrezio, ritiene che per stoltezza gli uomini convertano in danno quel che potrebbe essere a loro vantaggio, perché non sanno far buon uso di quanto, con l’aiuto della natura, hanno scoperto. In un passo delle "Quaestiones naturales" (18,4), ragionando sui venti e sulla loro utilità, Seneca arriva a dire che la natura avrebbe fatto meglio a costringere gli uomini a rimanere ciascuno nella propria terra, anziché consentir loro di correre ovunque facendo soffiare i venti, dal momento che la comunicazione tra popoli diversi rivela spesso la pazzia umana, liberando la cupidigia e lo spirito di sopraffazione. Ma se la tragedia "Medea" allude al vicolo cieco in cui è finita l’umanità, inseguendo una civiltà chiaramente identificata con il progresso tecnico e con la logica del potere, per Seneca c’è un altro tipo di progresso da cui può giungere la salvezza dell’umanità, ed è il viaggio verso la saggezza. Sempre nella lettera 90 delle "Epistulae ad Lucilium", egli affronta direttamente il rapporto tra civiltà e filosofia, dimostrando che solo lo sviluppo della seconda consente di giudicare superiori gli uomini moderni rispetto ai primitivi e chiarendo definitivamente che la conoscenza filosofica non può essere confusa con quella tecnico-scientifica. Seneca prende le distanze da Posidonio, il filosofo di Rodi (135 a. C. circa — 51 a. C. circa) che Cicerone aveva conosciuto personalmente e che aveva contribuito a interpretare la storia umana come svelamento della razionalità universale. Posidonio vedeva come due facce di un unico progresso la crescita della saggezza filosofica e quella delle "artes": per Seneca, invece, non è la presenza della "ratio" a sdegnare la civiltà, ma la facoltà di disporne bene o male. E questa facoltà è sviluppata dalla filosofia, il cui compito è quello di "trovare la verità intorno alle cose divine ed umane: da essa non mai si allontana la religione, la rettitudine, la giustizia ed il seguito di tutte le altre virtù intimamente congiunte tra di loro" (90,3; trad. U. Boella). Contrariamente a quel che riteneva Posidonio, l’invenzione delle arti non rappresenta affatto il culmine della civiltà, che è raggiunto soltanto più tardi, con la nascita della filosofia. Le arti non sono state prodotte dalla saggezza, ma da una qualità inferiore, la "sagacitas" dell’ingegno, continuamente sollecitato a ricercare soluzioni pratiche per migliorare le condizioni di vita, e tanto più vivace negli uomini che operano, piuttosto che nei filosofi, disposti a una vita secondo natura e indifferenti al lusso e al superfluo. Nella sua descrizione delle arti, Seneca lascia trasparire un pesante pregiudizio negativo nei confronti di tutto ciò che è tecnico, manuale, meccanico; un pregiudizio largamente prevalente, soprattutto a quell’epoca, nelle cultura dominante. […] Questa svalutazione si può estendere a tutto il progresso: una sorta di offuscamento della ragione, la "caligo mentium", ci impedisce di capire qual è il vero bene e dunque, vivendo secondo natura, di raggiungere la felicità, perché non sappiamo fare buon uso delle conoscenze. La vita secondo natura rimane, nella civiltà progredita, appannaggio del saggio, che non dà valore assoluto alle cose che servono a migliorare le condizioni materiali della vita. Il progresso che davvero interessa a Seneca è quello spirituale e non quello tecnico.»

Il problema, dunque, per Seneca, non è il progresso tecnico in se stesso, ma il cattivo uso che l’uomo, a causa dell’offuscamento della sua ragione, è portato a farne; la sua incapacità a servirsi in maniera saggia e costruttiva delle scoperte scientifiche e delle nuove tecnologie.

È strano che un pensatore come Seneca si sia accontentato di fermare la sua riflessione a questa soglia. Se la natura è buona in se stessa, e se la razionalità è ad essa connaturata, com’è che l’uomo non sa fare buon uso della propria ragione? Da dove viene questa misteriosa "caligo mentium"? è forse qualche cosa di simile al peccato originale dei cristiani? Sembrerebbe proprio di sì: anche Seneca, come i cristiani, afferma che l’uomo possedeva uno stato di perfetta felicità, ma lo ha rovinato con le sue stesse mani; anche lui svaluta il progresso materiale e vede, anzi, nel progredire della storia e della civiltà, un costante allontanamento dal vero bene, una diminuzione o una perdita della bontà originaria e della felicità dei tempi antichissimi.

La filosofia cristiana, però, ha il diritto di vedere le cose in questo modo, perché, appunto, ammette il peccato originale, anzi, fa di questa dottrina il punto centrale a partire dal quale l’uomo diventa più che mai bisognoso di Dio, del suo creatore,. Senza il quale non sarà in alcun modo capace di ritrovare il proprio equilibrio, il proprio senso nella storia, la propria ragione ultima di esistere. Insomma l’uomo, per il cristianesimo, non può redimersi da solo: il male è entrato nel mondo, e possiede una consistenza ontologica, una vera e propria personalità: è il Diavolo, che, con le sue suggestioni, cerca di sviare gli uomini dalla via che li riporterebbero a Dio e alla beatitudine originaria, come già avvenne per Adamo ed Eva.

Lo stoicismo non ha il diritto di vedere le cose in questo modo, perché si ostina a proclamare, per l’uomo, la possibilità di una auto-redenzione, purché egli sia capace di ritornare alla natura, seguendo i dettami della ragione: ma come spiegare, allora, che l’uomo non sappia rettamente servirsi della sua propria intelligenza, e che volga a suo danno anche quelle scoperte e quelle innovazioni tecniche che potrebbero, teoricamente, rendergli la vita assai più facile, e, con ciò, sollevarlo dalle necessità materiali dell’esistenza, lasciandogli tutto l’agio di concentrare le sue energie per uno scopo più alto: la conquista della saggezza e, con essa, della virtù e delle condizioni che potrebbero assicurargli una esistenza felice, benedetta dalla Provvidenza?

Delle due, infatti, l’una: o l’uomo non ha in sé gli strumenti per redimersi, oppure li ha. Se li ha, perché non è, di fatto, capace di servirsene? Se non li ha, perché non li cerca nel principio dal quale egli, e la natura tutta, trae origine e verso il quale si dirigono i suoi giorni, da quando apre gli occhi sul mondo: l’Essere?

Tale è il dramma, e il circolo vizioso, di ogni immanentismo e di ogni panteismo. Se la natura fosse interamente buona in se stessa, non vi sarebbe il male. Ma il male c’è, e gli uomini ne fanno amara esperienza, perfino quando vorrebbero compiere il bene. Gli stoici affermano che gli uomini possono raggiungere la saggezza, spogliandosi dalle passioni: ma perché dovrebbero farlo? Non vengono, le passioni, dalla natura, che essi suppongono buona, e che identificano, in fondo, con il Logos? Ed essi non sostengono che, per essere felici, bisogna vivere secondo natura, cioè secondo il Logos?

Come potranno, allora, gli uomini, redimersi da se stessi? Sarebbe come immaginare che un individuo, sprofondato nel fango, possa trarsi d’impaccio arrampicandosi sulle proprie spalle, e tirandosi fuori con la forza delle sue stesse braccia: cosa manifestamente impossibile, in assenza di un punto d’appoggio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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