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Se non esiste il peccato, da dove viene il Male?

La cultura moderna rifiuta l’idea stessa del peccato, giacché ritiene non necessaria l’ipotesi di Dio: le sembra che, accettando l’idea del peccato, l’uomo verrebbe caricato di un peso insopportabile, oltre che assolutamente "ingiusto", nei confronti di Qualcuno al quale dovrebbe obbedienza e rispetto; dunque, ha deciso di eliminare entrambe.

Rimane, però, una scomodissima, ingombrante evidenza: il Male esiste, il Male continua ad esistere, incurante del fatto che gli uomini abbiano deciso, per decreto, di abolire l’idea del peccato, e preferiscano, tutt’al più, parlare di "errore", espressione assai più neutra dal punto di vista morale, e quasi innocua. Ahimè, non basta cambiare le parole, per far sparire anche i problemi; così come non basta mettere la testa dentro un sacco, per non vedere la realtà, quando essa si presenta sotto un aspetto sgradevole o poco rassicurante.

Da dove viene, dunque, il Male con la "m" maiuscola: il Male assolutamente gratuito e, pertanto, apparentemente inesplicabile? Perché il male che si commette per ignoranza, o per una qualche forma di difesa, magari aberrante, lo si può, fino a un certo punto, accettare, comprendere e perfino scusare: ma che dire del Male che scaturisce da una malvagità pura, nel senso di non interessata e destinata unicamente a godere di se stessa? Che dire del Male che si commette per il puro piacere di commetterlo, senza scopo ulteriore: come nel caso Lafcadio Wluiki, il protagonista negativo de «I sotterranei del Vaticano», di André Gide (1914), il quale, senza premeditazione, getta dal treno in corsa e provoca la morte di Amédée Fleurissoire, al solo scopo di dimostrare a se stesso che è capace di compiere un delitto, il quale, essendo senza movente, sarebbe stato il più classico tipo di "delitto perfetto", destinato — cioè – a rimanere impunito?

Certo, la società può anche tentare di rassicurare se stessa con la spiegazione che casi come quello di Lafcadio Wluiki sono molto rari e che esprimono delle vere e proprie sindromi psicopatologiche, particolarmente legate al disturbo della personalità bipolare; e, invero, le cronache ci forniscono non pochi esempi di questo genere, con frequenza — si direbbe — sempre maggiore: ma davvero dovremmo sentirci appagati e tranquillizzati da una simile spiegazione? Non è forse vero che questi casi-limite, peraltro sempre più frequenti, stanno a indicare un malessere assai più diffuso, una tendenza, per così dire, enormemente più vasta, tale da farci dubitare che non dei singoli individui, ma la società nel suo complesso, sia divenuta preda di dinamiche incontrollabili e terribilmente distruttive; insomma, che la società intera sia affetta da sindromi patologiche diffuse, come un corpo impazzito, e che le persone spiritualmente e moralmente sane siano, o rischino di diventare, ormai, una minoranza relativamente esigua?

Sia come sia, molti indizi stanno a indicare che una sorta di malattia, o di impazzimento collettivo, sta deformando il modo di sentire, di pensare e di agire di un grande numero di persone; e che, sempre più spesso, si deve assistere a dei comportamenti aberranti, che nascono da una reazione assolutamente sproporzionata a delle offese ricevute, siano queste vere o presunte, o, addirittura, che hanno origine, almeno apparentemente, dal nulla, ossia che appaiono totalmente gratuite e inspiegabili, come se a compierli non fossero più degli esseri umani razionali e dotati di volontà e di libero arbitrio, ma quasi dei manichini diretti da un altrove, che, a giudicare dalle azioni e dai loro dai risultati, non può essere certamente immaginato nelle regioni superiori e luminose, ma in quelle infime e tenebrose.

E allora, torna la domanda: da dove potrà mai venire, tutto codesto Male? Quale inferno lo ha vomitato?

Per approfondire tale interrogativo, ci piace riportare le riflessioni di uno scrittore che, del male morale, un poco doveva intendersene, visto che ad esso ha dedicato una buona parte della sua vasta e molteplice produzione letteraria: Edgar Allan Poe (nato a Boston il 19 gennaio 1809 e morto a Baltimora il 7 ottobre 1849). Il maestro riconosciuto della letteratura "horror" statunitense, e forse di quella mondiale, scrive, dunque, in un suo racconto di tono e d’impostazione saggistica, significativamente intitolato «Il genio della perversione» e pubblicato nel 1845 (titolo originale: «The Imp of the Perverse»; in: E. A. Poe, «Tutti i racconti del mistero, dell’incubo e del terrore», traduzione di D.aniela Palladini e Isabella Donfrancesco, Roma, Newton Compton Editori, 1993, pp. 36-7):

«L’induzione a posteriori avrebbe condotto la frenologia ad ammettere, come innato e primordiale principio delle azioni umane, un qualcosa di paradossale che possiamo chiamare "perversione", in mancanza di un termine più specifico, nel senso che intendo io, cioè di fatto un "mobile" senza movente, un motivo non "motiviert". Per effetto dei suoi impulsi noi agiamo senza uno scopo comprensibile; oppure, se ciò può sembrare una contraddizione in termini, possiamo modificare la proposizione e affermare che, a causa di questi impulsi, noi agiamo per la ragione che "non" dovremmo. In teoria non c’è ragione più irragionevole, ma, di fatto, non ce n’è una più forte, e, per alcune menti, in determinate condizioni, essa diventa assolutamente irresistibile. Non sono più sicuro di respirare di quanto non lo sia del fatto che la certezza del torto o dell’errore di una qualche azione è spesso un’invincibile "forza" che ci sospinge, e sola ci spinge verso il compimento di una tale azione. Né questa incontenibile tendenza a fare il male per il gusto di farlo, ammette altri elementi di analisi o di soluzioni: è un impulso radicale primordiale, elementare. Si dirà, ne sono certo, che quando persistiamo i certe azioni perché sentiamo che "non" dovremmo farlo, la nostra condotta non è che una variante di quella che ordinariamente scaturisce dalla "combattività" dei frenologi: ma un breve argomento basterà a mostrare la fallacia di questa idea. La combattività della frenologia ha a sua essenza nella necessità di auto-difesa, è la salvaguardia contro l’offesa, il suo principio riguarda il nostro benessere e quindi il desiderio di star bene viene eccitato insieme al suo svilupparsi. Ne consegue che il desiderio di star bene non può che crescere simultaneamente ad ogni principio che sia una semplice variante della combattività mentre nel caso di quella che io chiamo "perversione" non solo non sorge il desiderio di star bene, ma esiste un sentimento fortemente antagonistico.

Un appello al proprio cuore è, dopo tutto, la migliore risposta al sofisma ora riportato. Nessuno che consulti lealmente e interroghi a fondo la propria anima, sarà disposto a negare la radicalità della propensione di cui parliamo. Essa è tanto incomprensibile quanto spiccata. Non esiste tra i viventi un uomo che in qualche momento non sia stato tormentato, per esempio, da un forte desiderio di sottoporre a un supplizio di Tantalo l’ascoltatore usando lunghe circonlocuzioni. Chi parla si rende conto di essere spiacevole; eppure ha tutta l’intenzione di piacere. È di solito conciso, incisivo, chiaro; la sua lingua lotta a fondo per conservare un linguaggio laconico, luminoso; soltanto con difficoltà si vieta di lasciar fluire le parole, teme e depreca la collera di colui al quale si rivolge; tuttavia lo colpisce il pensiero che si possa provocare questa collera con certe involuzioni e parentesi. Questo solo pensiero è sufficiente per lui. L’impulso diventa volontà, la volontà desiderio e questo si trasforma in un incontrollabile anelito, anelito a cui egli soggiace (con suo dispiacere o mortificazione a dispetto di tutte le possibili conseguenze).»

Mostrando una rigorosità di ragionamento che certi lettori, forse, non si aspetterebbero da lui, considerandolo solo come un romantico morbosamente attratto dalle atmosfere malinconiche o paurose, mentre invece egli è stato uno scrittore dalla razionalità ferrea ed esigentissima (come si vede nei suoi racconti polizieschi, meno celebri di quelli gotici, ma altrettanto abilmente costruiti), Poe respinge la facile spiegazione che il delitto assurdo e gratuito sia in qualche modo collegabile a un eccesso o ad una qualche forma di esuberanza del naturale istinto di conservazione, che rende le persone, e alcune più di altre, predisposte alla combattività e, quindi, anche ad un certo grado di aggressività "naturale". Poe si sbarazza facilmente di questa ipotesi di lavoro, osservando, semplicemente, che l’istinto della combattività è posto dalla natura a difesa della vita, e che, pertanto, esso è intrinsecamente benigno; mentre il delitto gratuito scaturisce da una violenza che è in se stessa maligna, in quanto non ha nulla di "naturale", ma sembra piuttosto compiacersi della propria artificiosità e della propria assoluta imprevedibilità.

Ecco: tale è il problema; e, come si vede, rischia di rimanere per sempre insoluto, finché si continua a porlo nel contesto di una cultura razionalista, secolarizzata e anti-teistica. Se non esistono il Male e il Bene; se non esiste l’amore infinito di Dio, e neppure la malvagità incommensurabile del Demonio, si rimane davvero impotenti di fronte a certe fredde, inumane, perverse manifestazioni di cattiveria, che si spingono fino all’orrido compiacimento di se stesse. Non c’è niente da fare: se non vi sono né Dio, né il Diavolo, non ci si dovrebbe imbattere mai né nel Bene con la "b" maiuscola, né nel Male con la "m", del pari, maiuscola, ma solo nel bene e nel male quotidiani e, per così dire, di carattere ordinario: un bene ed un male che si possono spiegare benissimo con il gioco delle forze puramente umane, immanenti, e contingenti: quelle di carattere psicologico, sociale, economico, politico, e così via.

È pur vero che il racconto, nella seconda parte, là dove abbandona il tono saggistico e si abbandona al piacere della narrazione, approda ad una visione morale "classica", basata sul rimorso e sulla necessità dell’espiazione, come sarà in «Delitto e castigo» di Dostoevskij (1866) e ne «La sonata a Kreutzer» di Tolstoj (1889), e come già si era visto ne «La ballata del vecchio marinaio» di Samuel Taylor Coleridge (1798). Il protagonista, infatti, rivela di avere assassinato un uomo, ponendo delle candele velenose nella sua camera da letto, in modo da provocarne la morte attraverso le loro esalazioni, perché ben conosceva la sua abitudine di leggere prima di addormentarsi; e di essere stato spinto a confessare il suo perverso delitto da una forza misteriosa e incontrollabile, dopo aver ereditato la tenuta della sua vittima ed averla fatta franca per parecchi anni, mentre ora si trova chiuso in carcere, dopo essere stato processato e condannato a morte, in attesa dell’esecuzione della sentenza del tribunale.

Tuttavia, non è questo il punto più importante nel racconto di Poe; esso va ricercato piuttosto nella estrema acutezza dell’analisi psicologica e morale svolta nella prima parte dello scritto. Poe, infatti, parte da una esperienza molto più frequente e, apparentemente, molto più innocua di quella di un delitto perverso e gratuito: l’esperienza comune, e perfino banale, di voler provocare l’irritazione e la collera del nostro prossimo, tediandolo deliberatamente con discorsi lunghi e involuti, anche se noi saremmo, in via ordinaria, delle persone alquanto stringate e concise nel parlare. E Poe si domanda, quasi con sgomento, anzi, con autentico terrore: ma da dove viene, da quale inferno verrà mai questo impulso maligno di provocare, di indisporre, di esasperare il nostro interlocutore, impulso che noi tutti, qualche volta, abbiamo provato nella nostra vita, e che in certi casi abbiamo anche assecondato, trattenuti solo, eventualmente, non dalla sconvenienza, o peggio, di quel che stavamo facendo, o che desideravamo fare, ma solo e unicamente dal timore della possibile reazione del nostro infuriato ascoltatore?

Quanta verità, dolente e impietosa, nella riflessione di Poe; e quanto mistero. Il male che talvolta sgorga da dentro di noi, sembra scaturire da qualche sorgente invisibile e tremenda: lascia noi stessi sbigottiti, attoniti, a domandarci chi siamo veramente, se una così deliberata e inutile malignità è capace di nascere all’improvviso e da esigere da noi una immediata soddisfazione, al punto da poter travolgere, in un attimo, tutte le nostre difese, che credevamo così solide e sperimentate; se siamo capaci di godere, o di desiderare il nostro godimento, da qualcosa di male che infliggiamo agli altri — non importa se non si tratta di un male, dopotutto, così grave; importa che esso è sottile, caparbio, e, soprattutto, che è perfettamente gratuito: vale a dire che non lo desideriamo e non lo mettiamo in pratica in vista di qualche altro fine, ma così, unicamente ed esclusivamente per il piacere di fare agli altri del male, tanto o poco che sia.

Così, il fatto che il protagonista del racconto di Poe provochi la morte di un uomo allo scopo di impadronirsi delle sue proprietà, è l’espressione di un male ordinario: si compie un delitto per ottenere un qualche vantaggio dalla scomparsa della vittima. Ma quale vantaggio ci verrà mai se siamo capaci, e perfino desiderosi, di compiere un delitto dal quale non ci verrà il benché minimo vantaggio, magari ai danni di’uno sconosciuto, al solo ed unico scopo di godere del male che stiamo facendo e della sofferenza che stiamo provocando? Qui c’è assai più che un errore: c’è il peccato…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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