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Se lo «stato nascente» è un risveglio spirituale, davvero realizza un progresso collettivo?

Nel pensiero sociologico di Francesco Alberoni, un posto importante è occupato dal concetto di "stato nascente": espressione che designa la situazione per cui un gruppo umano, accomunato da ideali e speranze comuni, crea un "movimento", volto alla trasformazione sociale e culturale, opponendosi alle forze della conservazione, e in particolare alle "istituzioni".

Movimento e istituzioni sono, pertanto, le due polarità attorno alle quali ruota il progresso della storia: perché si tratta, evidentemente, di una filosofia del progresso. Alberoni ribadisce il concetto, sostenendo che, quanto più una società è culturalmente e spiritualmente evoluta, tanto più lo "stato nascente" le permette di intravedere nuovi orizzonti, sempre più ampi, sempre più ambiziosi, che le consentono di realizzare un ulteriore progresso, e che consentono anche ai singoli individui di attingere ad un patrimonio più ricco di beni intellettuali e spirituali.

Lo "stato nascente" si forma attraverso la scoperta, o meglio l’intuizione, da parte di alcune persone, che è possibile realizzare una esperienza qualitativamente diversa delle cose, e che il "nuovo" corrisponde a una maniera radicalmente mutata di porsi davanti al reale; e, nello stesso tempo, ad una sorta di impulso, di chiamata, per cui gli individui "sentono" che il loro destino li chiama a nuove responsabilità e verso nuove prospettive, e che, grazie a loro, l’intera società potrà dischiudersi al soffio di esperienza nuove, mai prima esperite e neppure immaginate.

Scrive, dunque, Francesco Alberoni nel suoi libro «L’albero della vita» (Milano, Garzanti, 1982, pp. 26-30):

«Nello "stato nascente" ci sentiamo attratti verso qualcosa non solo in modo più intenso, ma qualitativamente diverso. Non è un "impulso", è una "chiamata". Seguendola noi realizziamo il nostro destino eppure siamo totalmente liberi. Quella "chiamata" è, perciò, un dovere, il massimo dovere, e, nello stesso tempo, un piacere, il massimo piacere Eppure nulla è facile, anzi tutto è difficile, perché seguirla significa rompere col mondo, con le abitudini con ciò che crediamo, col nostro sapere, con la banalità in cui siamo invischiati; perché seguirla significa affrontare la morte-rinascita e davanti a noi c’è la morte; della rinascita non siamo certi. In questo stato noi ci sentiamo fusi con gli altri, disponibili ad una comunione totale in cui però la nostra individualità è ancora più forte, più consapevole, più sincera, più se stessa. In questo caso noi intravvediamo una superiorità individuale-collettiva e perfino un diverso rapporto con la natura. Questo stato, che noi tutti abbiamo sperimentato, sia pur occasionalmente, nell’amore, nella conversione, o in un movimento, è stato descritto, raccontato dai profeti e dai mistici, ed ha animato il sorgere di tutte le società umane. […]

Nessuno di noi potrebbe intraprendere nulla nella vita se qualcosa dell’energia straordinaria dello "stato nascente" non venisse a darci la forza di metterci in moto, di agire. Noi non incominceremmo un lavoro se non avessimo la speranza, sia pure remota, di trovarvi qualcosa che, finora, ci era sfuggito; non partiremmo per un viaggio se non sperassimo di incontrarvi chi abbiamo sempre cercato. Noi, addirittura, non ci alzeremmo al mattino se non avessimo nel fondo del cuore, la speranza di poter incontrare ciò di cui abbiamo sentito sempre una disperata nostalgia. Persino quando risolviamo un problema abbiamo l’esperienza di una rivelazione e assaporiamo tutto il sapore della "verità". Quando facciamo una scoperta, anche piccola, è pur sempre, per noi, come sollevare un lembo del velo misterioso del mondo e gettare una fugace occhiata sull’essere. Niente ci è però mai dato per possesso, stabilmente. Ognuno volta la rivelazione , il piacere, l’intravisione della felicità, è fugace. Cos’è cambiato in questo campo nel corso dei millenni? […]

Nel passato lo "stato nascente" si manifestava essenzialmente come contatto col divino. L’esperienza più semplice è quella dello sciamano che scende nel regno dei morti e degli dei e ritorna e ritorna, arricchito, fra gli uomini. Qualcosa dell’esperienza straordinaria gli resta in mano: è una conoscenza mitico-magica. Mitopoietica perché il suo racconto diventa parte del mito, magica perché gli dà un potere. In società più complesse il rapporto col divino assume l’aspetto di rivelazione, come nella Bibbia. Dio si rivela a Noè, ad Abramo, a Giacobbe. Non è una rivelazione diretta, ma avviene in sogno o in uno stato oniroide. Il profeta, però, non lascia la terra dei viventi, non va nel regno dei morti e degli dei. […] In epoca ancor più recente infine vediamo lo "stato nascente" apparire alla base di una conversione politica o filosofica. E si tratta dello stesso tipo di esperienza. Per questo è possibile oggi isolare il concetto stesso di stato nascente. Qualche secolo fa sarebbe stato impossibile perché, manifestandosi sempre in termini religiosi, lo si sarebbe confuso con una esperienza mistico-religiosa. […] Ma nell’esperienza dello stato nascente abbiamo trovato delle cose (altruismo, generosità, fusione con la natura e con l’umanità ecc.) che, probabilmente, erano implicite anche nell’esperienza dello sciamano o del profeta. Esse, però, non potevano rivelarsi, dispiegarsi, perché costrette entro una angusta concezione del mondo. Il mondo dello sciamano è fatto della sua tribù e di poche altre vicine; di un territorio ridottissimo in cui la mitologia colloca anche il regno dei morti. Le esperienze sociali sono elementari, i problemi da risolvere sempre gli stessi. Ciò che lo sciamano "intravvede" deve essere descritto, calato entro questi angusto confini. Ed ecco che egli racconterà un viaggio nel paese dei morti che assomiglia , in tutto e per tutto, ad un usuale viaggio in un paese vicino. Anche se le categorie dello stato nascente in questi ultimi millenni fossero sempre state le stesse, il loro contenuto sarebbe comunque stato incredibilmente più povero. Per rendercene conto confrontiamo un viaggio sciamanico con la "Divina Commedia" di Dante. Anche la "Divina Commedia" è un viaggio agli inferi. Ma qui la ricchezza culturale e sociale è già smisuratamente maggiore ed infatti è un capolavoro che ci stupisce ancora, che ci commuove per la sua complessità. Nessuno però oggi saprebbe probabilmente scrivere l’equivalente di un viaggio sciamanico o della "Divina Commedia". L’esperienza umana è così complessa e dilatata, così ricca , che nessun singolo individuo può riuscire dove a Dante era concesso di riuscire. E già allora a lui stesso l’impresa doveva apparire sovrumana tanto da fargli dire che al poema sacro, "miser mano e cielo e terra". L’esperienza dello "stato nascente", un tempo ridotta all’estesi sciamanica, poi arricchitasi e diversificatasi nell’esperienza religiosa, si è ulteriormente arricchita nei secoli successivi ed è in via di continuo arricchimento. E quanto più l’umanità si trova in contatto attraverso gli scambi commerciali o attraverso i mezzi di comunicazione di ogni tipo, tanto più l’universalità dello stato nascente potrà espandersi pienamente. […] E che cosa avverrà, nel futuro, quando il mondo sarà ancora più unificato, quando le nostre vite saranno ancora più interdipendenti, quando tutte le voci potranno essere ascoltate in tutti i punti della terra? Non c’è progresso solo sul terreno delle conquiste materiali o biologiche. Sta già avvenendo qualcosa sul piano sociale e culturale universale.»

Nel ragionamento di Francesco Alberoni, tuttavia, c’è qualcosa che non ci convince del tutto, che ci lascia perplessi. Se lo "stato nascente" corrisponde ad una chiamata, ad una specie di vocazione a realizzare un nuovo rapporto con le cose, e a scorgere nuovi significati nell’esistenza, come è possibile che esso si realizzi per accumulazioni successive, uno strato dopo l’altro, e che sia trasmesso dall’esperienza collettiva di una intera cultura e di una intera società? Come è possibile che una maggiore ricchezza culturale possa contribuire al sorgere di un nuovo orizzonte di "stato nascente", visto che quest’ultimo si delinea in presenza di una inquietudine, di un movimento spirituale che partono dall’interno della coscienza e che sono condivisi da un numero relativamente ristretto di persone, ciascuna delle quali ha avuto l’esperienza di tale chiamata, nell’intimo della propria vita interiore?

Insomma: si tratta di un movimento individuale, basato su di una specie di epifania, di rivelazione o manifestazione prodigiosa, oppure d’un movimento collettivo, fondato su una specie di programma, e condiviso, in qualche modo, da più persone, nonché consapevolmente diretto al fine di operare una vera e propria trasformazione della cultura e della società?

Se si tratta di un movimento personale, come va che più persone si trovano, nello stesso momento storico, a condividere la medesima ansia di rinnovamento, lo stesso bisogno di voltare pagina ed aprirsi a un nuovo modo di vedere e di sentire? Se, viceversa, si tratta di un movimento collettivo, come è possibile che esso trasmetta un progresso spirituale e intellettuale, visto che è proprio la realtà sociale, quella delle "istituzioni", a fare da elemento di resistenza nei confronti del cambiamento, rappresentato dai "movimenti"?

Delle due, infatti, l’una: o le "istituzioni" sono ciò che i "movimenti" si propongono di abbattere, di superare, di lasciarsi dietro le spalle, e allora non si capisce come avviene che lo "stato nascente" diventi patrimonio comune di una data società, cosa che sarebbero proprio le istituzioni a rendere possibile; oppure i "movimenti" sono in un rapporto dialettico con le "istituzioni", vogliono abbatterle, o quanto meno modificarle profondamente, però hanno anche bisogno della loro opposizione, della loro resistenza, perché solo così possono dispiegare tutte le loro energie, possono far maturare sino in fondo le loro potenzialità innovatrici e rivoluzionarie.

Ora, per non procedere in maniera astratta, proviamo a fare degli esempi concreti. Se abbiamo compreso il pensiero di Alberoni, un gruppo di artisti d’avanguardia; un gruppo di scienziati sostenitori di un nuovo paradigma culturale; un gruppo di politici rivoluzionari, desiderosi di accendere la miccia di una deflagrazione sociale: tutti costoro sono i portatori di una volontà di cambiamento, condividono un medesimo orizzonte di obiettivi e di speranze, hanno in comune una sensibilità, un orientamento spirituale, una metodologia che ne fanno una forza collettiva, e dunque una forza temibile, di cui è necessario tenere conto (o meglio: di cui le istituzioni dovrebbero tener conto, se fossero intelligenti: cosa che sovente non sono). Insomma, esprimono lo "stato nascente" Quest’ultimo, allora, corrisponderebbe, a livello di psicologia collettiva, a qualche cosa di molto simile a ciò che, nella psicologia individuale, è l’innamoramento: una fase in cui la realtà si presenta come del tutto nuova e in cui il soggetto è spinto a mettersi in gioco, sperimentando una pienezza esistenziale mai prima vissuta, e sentendosi attore e protagonista di qualcosa di grande, qualcosa che è perfino più grande di ciò che egli possa razionalmente comprendere sino in fondo. Egli, cioè, si sente preso, afferrato, da un destino più grande di lui: non sa esattamente dove stia andando, sa solamente che deve andare, che deve rispondere alla chiamata, costi quello che costi, perché non può resistere, e, anche se lo potesse, non si perdonerebbe mai di non aver seguito il proprio impulso, di non aver risposto alla vocazione. E, come colui che s’innamora prova l’illusione di sperimentare una cosa unica, che non ha alcun equivalente (ma la cosa si ripete ad ogni innamoramento), così un movimento rivoluzionario – politico, artistico, scientifico, religioso – vive l’illusione di portare nel mondo qualche cosa di assolutamente inedito, e, naturalmente, di prezioso e di salvifico; qualcosa che è necessario, indispensabile, e che realizza l’autentico progresso.

Ecco, allora, che quanti si abbandonano alla sensazione e alla "missione" di dare un contenuto allo "stato nascente", sono, in buona sostanza, coloro i quali, presi dall’impazienza rivoluzionaria, ritengono di poter cambiare il mondo, proiettando su di esso il riflesso dei loro sogni e dei loro bisogni: coloro i quali si sentono interpreti del Progresso, e, dunque, le vere guide dell’umanità, che non dubitano neanche per un istante del proprio ruolo e del proprio destino, e che si aspettano — se non subito, almeno in prospettiva — l’eterna riconoscenza dei loro simili meno evoluti e meno "illuminati", ai quali hanno deciso di portare, generosamente, quel mondo nuovo che hanno avuto il privilegio di scorgere per primi.

I rivoluzionari, dunque, come gli innamorati, sono degli egocentrici potenzialmente pericolosi: non vedono che se stessi, non ascoltano che la voce imperiosa che li spinge sempre avanti, quasi come sonnambuli, senza curarsi di nulla, tranne che del loro obiettivo. Il fatto, poi, che gli innamorati diventino dei mariti pantofolai, e che i rivoluzionari diventino dei burocrati pienamente soddisfatti, non può essere attribuito al caso. Il fatto è che si diventa quel che si era destinati a diventare…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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