L’uomo senz’ombra è chi perde i legami col passato
7 Dicembre 2019Quando i leoni si celavano nei boschi e i monti cretesi
8 Dicembre 2019L’improvvisa e sconcertante apparizione di Pachamama sulla ribalta del cattolicesimo, l’adorazione di questo brutto idolo pagano da parte di esponenti della gerarchia e l’ossequio, se non la venerazione, verso di esso mostrato perfino dal pontefice romano (o meglio da colui che si spaccia per tale) ha rivelato, di colpo, l’estensione e la profondità del fascino inquietante e blasfemo che il paganesimo indigeno del Sud America esercita su settori non piccoli della chiesa cattolica, partendo da quella tedesca. Tedesca, infatti, è la regia del sinodo per l’Amazzonia dell’ottobre 2019; tedesca, anzi austriaca, è la sua eminenza grigia, il vescovo Erwin Kräutler (benché naturalizzato brasiliano), quello che si vanta di in aver convertito né battezzato un solo indigeno nell’arco di quarant’anni di "missione"; e tedesca la volontà di servirsi del sinodo per operare dall’interno uno scardinamento della disciplina, della pastorale e della stessa dottrina cattolica, introducendo il matrimonio per i sacerdoti, il sacerdozio o almeno il diaconato femminile, e sdoganando i culti indigeni in vista della creazione di un sincretismo cattolico-pagano. Così come tedeschi sono in gran parte i finanziamenti che giungono in Vaticano dalle Conferenze episcopali, delle quali la più ricca è, di gran lunga, quella tedesca, cosa che evidentemente le dà l’audacia di dettare lei la linea pastorale e dottrinale, come il cardinale Marx non si stanca mai di evidenziare, anche in tema di normalizzazione e piena accettazione della sodomia. Resta, tuttavia, una domanda: se l’obiettivo dei modernisti travestiti da cattolici è di realizzare il sogno di Ernesto Buonaiuti, cambiare Roma con Roma, ossia fare in modo che l’apostasia della chiesa parta dal vertice della chiesa stessa, che bisogno c’era di pescare i materiali dell’eresia programmata e pianificata da un fondo di magazzino così remoto e improbabile? Perché questi vescovi massoni e anti-cattolici non hanno messo le carte in tavola in Europa, servendosi di argomenti europei, come la necessità di proseguire e approfondire il dialogo con il mondo moderno, che poi è il loro mantra preferito; perché prendere argomenti e provocazioni dal paganesimo dei popoli indigeni sudamericani? Insomma: perché tirar fuori proprio un idolo sconcertante e repulsivo come Pachamama, con il corpo nudo, il ventre gravido e il feto dipinto come se fosse visibile: (ma chi sarà il nascituro?, non cero il divino Bambino, Gesù Cristo). La quale Pachamama, parola che significa Madre terra e quindi è la dea dell’agricoltura e della fertilità, oltretutto non è neppure una divinità amazzonica, bensì andina, e ha tuttora i suoi attardati adoratori nella regione posta a cavallo fra Bolivia e alto Perù, terra d’origine del popolo quechua, fondatore dell’antico impero incaico, e del popolo aymarà E perché il Sud America, poi? Perché non attingere ad altre tradizioni e altre religioni del Sud del mondo, quelle dell’Africa o dell’Asia, per esempio, le quali, bene o male, sono già un po’ meno lontane dalla nostra mentalità e dalla nostra sensibilità europea? Partiamo da quest’ultima domanda.
Molti di noi tendono a dimenticarsi che da anni la maggior parte dei cattolici del mondo non vive più in Europa, ma in America Latina, fra il Rio Grande e Capo Horn: dal Messico all’Argentina e al Cile; senza contare il fatto, non certo trascurabile, che il pontefice oggi regnante (peraltro illegittimamente) è un sudamericano. E dall’America Latina viene la teologia della liberazione, massimo cedimento della teologia cattolica al marxismo, dal quale mutua tutta l’impalcatura generale dell’analisi economica e sociale, tradendo, così, sia il Magistero che l’autentica dottrina sociale cattolica. Ma perché la teologia della liberazione è nata proprio in questa parte del mondo, e non, poniamo, in Africa o in Asia, dove pure il colonialismo e il neocolonialismo hanno agito in profondità nelle strutture sociali e culturali e dove l’intensità dello sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi raggiunge un’evidenza anche maggiore? Riteniamo che la ragione principale sia la potenza e il radicamento che l’ordine dei gesuiti ha raggiunto in America Latina. Ovunque sono arrivati, sin dalla loro fondazione, i missionari gesuiti si sono contraddistinti da un lato per il loro zelo e il loro spirito d’intraprendenza, dall’altro per la loro spiccata tendenza a far parte per sé, a isolarsi dagli altri ordini religiosi e ad agire come se la chiesa cattolica fosse tutt’uno con loro, ed essi con lei. Ovunque seguirono la strategia di predicare il Vangelo in modo tale da non urtare frontalmente gli usi e le credenze locali; ogni volta che fu possibile, permisero che la gente seguitasse a praticare le sue vecchie cerimonie, pur accettando di farsi battezzare e divenire formalmente cristiana. Per i gesuiti, l’importante era espandersi in ogni regione e in ogni strato sociale, dai più umili ai più potenti, sfruttando ogni occasione e non lasciandosi imbarazzare da compromessi e calcolate ambiguità. Ma le ambiguità c’erano, e alla fine esplosero: ciò accadde sia in India che in Cina, per la questione dei riti locali — riti malabarici e riti cinesi – che essi tolleravano accanto alle pratiche della fede cattolica, ma che gli altri ordini missionari, specialmente i francescani e i domenicani, giudicavano in tutt’altro modo. La cosa fu portata a Roma presso il papa Gregorio XV, ma la decisione definitiva arrivò solo nel 1742, allorché Benedetto XIV, con la bolla Ex quo singulari, decise in favore dei domenicani, imponendo ai gesuiti di attenersi alla maniera tradizionale di evangelizzare; non solo: fissò 16 punti precisi cui tutti i missionari si dovevano attenere, e impose un giuramento in tal senso, che ricorda per certi versi quello antimodernista voluto da san Pio X nel 1910.
La vicenda si era trascinata così a lungo perché i gesuiti avevano puntato i piedi e, a un certo punto, avevano addirittura attuato una specie di sciopero missionario, sospendendo l’amministrazione dei sacramenti, poiché sostenevano che, se si fosse adottata la linea di Roma, evangelizzare i popoli indigeni sarebbe divenuto impossibile. Già allora essi avevano assunto una posizione di superiorità rispetto agli altri ordini religiosi, i quali negavano una cosa del genere; atteggiamento che non li avrebbe più abbandonati e che riemerse, in tempi a noi vicini, col padre generale Pedro Arrupe, basco, gran fautore della teologia della liberazione, della chiesa dei poveri e della critica radicale, di segno marxista, all’ordine sociale ed economico esistente. Ma con padre Arrupe torniamo in Sud America: ci resta da spiegare perché qui, e non già in India o in Cina, e neppure in Africa, ha preso corpo la fascinazione missionaria nei confronti del primitivo, dell’esotico e del barbarico, che da ultimo abbiamo visto riemergere e trionfare nel grottesco culto della dea Pachamama durante i lavori del sinodo per l’Amazzonia, sotto l’occhio compiaciuto del signor Bergoglio. La spiegazione ci pare questa: in America Latina, e non altrove, i gesuiti raggiunsero un grado di potenza e di autonomia quale mai ebbero nelle altre terre di missione. In particolare, durante l’esperimento delle reducciones del Paragay, nelle quali erano pressoché liberi di costruire una teocrazia del tutto autonoma da qualsiasi altro potere o interferenza, si abituarono a gestire le questioni indiane come se loro fossero la suprema istanza in fatto di pastorale missionaria, e si ritagliarono quel grado di libertà che non avevano potuto avere, o conservare, in India e in Cina. Le reducciones vennero chiuse per le manovre della massoneria portoghese nella seconda metà del XVIII secolo e lo stesso ordine dei gesuiti venne sciolto, ma l’esperienza era rimasta e aveva lasciato un profondo ricordo sia nelle popolazioni indigene, sia nei gesuiti stessi. La teologia della liberazione, più tardi, non ha fatto altro che riprendere e rivitalizzare una sensibilità e un orientamento missionario che avevano le loro radici nei tempi in cui l’ordine di Sant’Ignazio era una vera e propria potenza secolare, e le reducciones, per certi aspetti, erano degli Stati veri e propri, prosperi e ben amministrati. Abituati a far da sé, a decidere da sé, e a considerare una sciagura l’intervento del pontefice nella loro linea pastorale, i gesuiti hanno fatto il passo successivo e in fondo il più logico: quello di prendere in prima persona il timone della chiesa, sorvolando sull’insignificante dettaglio che ciò viene escluso in maniera esplicita del loro stesso statuto, e di ottenere così non solo di poter seguitare per la loro strada incuranti di critiche e opposizioni (l’ultima seria opposizione che dovettero affrontare era stata quella di Giovanni Paolo II, che dopo averli commissariati giunse a un passo dalla decisione di scioglierli), ma addirittura di riformare la dottrina oltre che la pastorale. Cosa che hanno cominciato a fare col Concilio Vaticano II, allorché sono riusciti a sostituire al tomismo la teologia di Karl Rahner nei seminari e nelle facoltà teologiche. Quanto all’America Latina come scenario della svolta, non si dimentichi la sopravvivenza, colà, di un mito tenace: che le società precolombiane fossero un paradiso in terra prima dell’arrivo dei bianchi e che pertanto quel modello abbia molto da insegnare in fatto di giustizia sociale, rispetto delle risorse naturali e tutela dell’ambiente.
Il clero latino-americano ha introiettato un forte senso di colpa per il modo in cui ebbe luogo l’acculturazione degli indigeni; per liberarsi dal rimorso di esser stati troppo docili alle richieste del potere coloniale e dei proprietari terrieri, i gesuiti degli ultimi decenni si sono messi all’avanguardia di un orientamento nel quale trovano ampio spazio sia il rancore di quanti si sentono discendenti di popoli vinti e umiliati, sia il senso di colpa e il bisogno di espiare di quanti si sentono gli eredi morali dei conquistatori e degli sfruttatori. Ancor oggi molti bianchi, pur essendo i discendenti dei conquistatori, hanno coltivato un così bruciante senso di colpa da identificarsi coi conquistati, e volentieri parlano di se stessi come di chi ha subito un’invasione e un genocidio culturale. Abbiamo notato personalmente tale curioso atteggiamento mentale, il che spiega il fatto che i gesuiti sudamericani si sentono gli araldi di una riscossa delle popolazioni indigene contro il peso della colonizzazione, del quale è parte essenziale il cristianesimo. Come recita la canzone dedicata a Pachamama che si insegna agli indios e che un missionario italiano ha avuto la geniale idea di far cantare ai fedeli di una parrocchia veronese, i preti cattolici in America Latina si sentono colpevoli per aver contribuito alla sottomissione e allo sfruttamento delle popolazioni indigene e per aver imposto ad esse gli usi e le credenze europei, di cui la fede cattolica è parte non certo secondaria: paradossale situazione per cui i missionari, invece di convertire gli indigeni, si auto-mortificano e si convertono alle loro credenze, vuoi per senso di colpa, vuoi per il mito del Buon Selvaggio sempre duro a morire (cfr. il nostro articolo: Radici psicologiche e culturali del neoprimitivismo, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 25/11/19).
Tuttavia non bisogna credere che il fascino torbido degli antichi dèi precolombiani abbia contagiato solo i gesuiti o i cattolici. Anche la cultura laica ne è stata investita in pieno, perfino in quegli ambienti ove memo lo si sarebbe creduto. Uno degli scrittori europei che meglio lo ha saputo cogliere e rappresentare è stato l’inglese David Herbert Lawrence (1885-1930), il quale era lontanissimo dal cattolicesimo, però era un uomo intelligente e un acuto osservatore e, durante un lungo soggiorno in America, mentre si trovava in un ranch del Nuovo Messico, scrisse nel 1924 la sua opera più strana e intrigante, Il serpente piumato (The Plumed Serpent, 1926), in cui descrive il tentativo da parte di due enigmatici personaggi, il generale don Cipriano e lo studioso don Ramon, di riportare in vita l’antica religione messicana, presentandosi al popolo l’uno come la resurrezione del dio della forza vitale, Quetzalcoatl, l’altro del crudele dio della guerra, Huitzilopochtli, coi suoi sacrifici umani e i cuori strappati alle vittime. Fra loro, una ragazza inglese, Kate Leslie, attratta e al tempo stesso inorridita dal progetto tenebroso che vorrebbe fare piazza pulita di quattro secoli di cristianesimo, e che si trova, non sa bene neppure lei come, a fidanzarsi con don Cirpiano, quasi a celebrare la fusione mistica del vecchio mondo con il nuovo che dovrà risorgere dalle profondità abissali del passato pre-cristiano. Ecco cosa pensa Kate del popolo messicano (da: D. H. Lawrence, Il serpente piumato; traduzione di Elio Vittorini, Milano, Mondadori 1935, 1970, pp. 194-196):
Era un popolo incompiuto, lasciato a mezzo nella sua creazione, ed era alla mercé delle nere, vecchie influenze che riposavano come feccia al suo fondo. Se erano calmi, erano dolci e gentili con una specie di timida ingenuità. Ma appena qualcosa li scuoteva, agitandone il fuoco, s’alzavano le nere nuvole e così venivano ripresi dalle antiche passioni terribili di morte, dalla voluttà del sangue e dell’odio. Un popolo incompiuto e alla mercé dei continui ritorni di antiche concupiscenze. In qualche angolo remoto delle loro anime ci doveva essere un impenetrabile risentimento. Kate lo sentiva: un risentimento pesante iniettato di sangue, di uomini che non sono mai stati capaci di conquistarsi un’anima, di fari un’integrità individuale in mezzo al caos delle passioni e delle energie vitali, e della morte. Erano rimasti presi nella rete delle vecchie concupiscenze e delle vecchie abitudini come nelle spire di un serpe che strangola il cuore; sotto il pesante, maleodorante peso dell’indomito passato. (…)
Gesù non è un salvatore per i messicani. È un Dio entrato morto nella loro tomba.
E ora, in questo risorgere della concupiscenza pre-cristiana, proprio la chiesa vuol farci adorare gli dèi tenebrosi del passato indigeno? È questo il significato del ritorno di Pachamama e del suo culto?
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