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La Montagna Spaccata e il senso delle pie leggende

I tre Vangeli sinottici narrano che, al momento in cui Gesù Cristo rese l’anima al Padre sulla croce, vi furono alcuni fenomeni di evidente origine soprannaturale.

Matteo (27, 51-54) dice:

^51^Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, ^52^i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono. ^53^Uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti.
^54^Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: «Davvero costui era Figlio di Dio!».

E Marco (15,38-39):

^38^Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. ^39^Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».

Infine Luca (23,44-49):

^44^Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, ^45^perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. ^46^Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre,nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.

^47^Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». ^48^Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. ^49^Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo.

I fatti straordinari, dunque, sono stati tre:

1) le tenebre scese improvvisamente sulla terra e durate alcune ore, subito dopo la morte di Cristo, in un’ora del giorno e in una stagione che le rendevano decisamente insolite;

2) l’improvvisa lacerazione del velo del Tempio di Gerusalemme, senza specificare se fosse quello posto dinanzi all’altare dell’incenso o quello che separava la parte accessibile al clero da quella del Santo dei Santi, riservata al solo Sommo Sacerdote;

3) una serie di terremoti cui seguirono apparizioni di persone ritenute more, e che si disse fossero uscite dai sepolcri.

Per quanto riguarda i terremoti, sorsero poi, nel corso del tempo, mano a mano che il cristianesimo si diffondeva nella varie province dell’Impero Romano, una serie di tradizioni e leggende che si rifacevano a quel racconto e che spiegavamo la forma strana, curiosa, di alcune montagne, come l’effetto di quei terremoti. Nella sola Italia nacquero almeno due di tali leggende (e usiamo la parola nel senso latino di legenda, cosa che si legge e perciò che viene tramandata, e non in senso limitativo o addirittura spregiativo): una relativa al luogo ove sorse il Santuario della Verna, sul Monte Penna, la montagna che fu tanto cara al cuore di san Francesco d’Assisi; ed una relativa alla Montagna Spaccata di Gaeta, caratterizzata da una triplice, spettacolare apertura nella viva roccia che si protende a picco sul mare, la quale, insieme alla cosiddetta Grotta del Turco e al Santuario della Santissima Trinità, visitato da personaggi famosi nel corso dei secoli, come san Bernardino da Siena e san Filippo Neri, da sempre ha destato un forte curiosità per le sue insolite e suggestive caratteristiche.

Nel corso dei secoli la pietà popolare ha tramandato e arricchito la tradizione relativa alla Montagna Spaccata; e contestualmente, come è ovvio, essa ha alimentato le polemiche e non di rado le ironie dei miscredenti, soliti farsi beffe della pietà popolare e considerare il miracolo, sulla scia del loro patrono Voltaire, qualcosa che è semplicemente impossibile, e dunque un racconto originato dall’ignoranza e dalla superstizione.

Leggiamo ad esempio nel libro di Donato Vaglio La Montagna Spaccata e il suo Santuario tra storia e leggenda, Gaeta, Pontificio Istituto Missioni Estere, 1968, pp. 59-62):

Parole dell’evangelista S. Matteo: «Ma Gesù lanciato di nuovo un alto grido rese lo spirito. Ed ecco il velo del Tempio si squarciò da capo a fondo, e la terra tremò, e le rocce si fendettero; e si spalancarono i sepolcri… Il centurione e quelli che erano cin lui a guardia di Gesù, vedendo il terremoto e quanto accadeva, furono presi da un grande spavento e dissero: costui era veramente il figlio di Dio!». Lo spavento che pervase quanti avevano assistito alla crocifissione del Signore, per i fenomeni straordinari che ne accompagnarono la more, ci è concordemente testimoniato anche dagli altri due sinottici. Per convincersi poi che quei fenomeni non furono localizzati alla piccola Palestina, ma interessarono una zona relativamente vasta della terra, anche lasciando tra le leggende l’esclamazione attribuita all’Areopagita, basta leggere le citazioni che il Baronio riporta da scrittori pagani, e quindi non sospettabili.

Che alla morte del Signore si fosse verificato un terremoto, a parte la testimonianza evangelica, il Baronio lo conferma con la citazione del Flegonte. Che, per quel terremoto, le rocce restassero spaccate, sempre a parte la testimonianza evangelica, ne faceva fede S. Cirillo Gerosolimitano (secolo IV) quando scriveva: «Acteius Golgota monstrat, ubi propter Christum petrae scissae sunt», alludendo alla scissura esistente sul Calvario, della quale l’Ollivier dice che anche oggi «si può osservare una spaccatura larga 25 centimetri, che taglia in modo trasversale le vene di cui è ripiena la roccia». Si comprende agevolmente come dopo soli tre secoli e nella stessa città che aveva visto morire il Cristo, non sarebbe stato agevole a S. Cirillo né inventare, né dar credito ad una tradizione che non avesse avuto il suffragio universale degli ascoltatori.

Il terremoto che lasciò un segno sul Calvario, poteva lasciarne anche altrove e, che effettivamente ne avesse lasciati, ce lo conferma il plurale così generico dell’evangelista: «alcune rocce si spaccarono». Egli non scriveva una cronaca affrettata, cui preme che la notizia sia stampata possibilmente prima del verificarsi del fatto: quando egli scriveva, aveva avuto ben agio di sentore le impressioni, i ricordi e le testimonianze che, di quanto era successo quel giorno, potevano dare altri, sia presenti alla tragedia divina, sia vicini, sia anche lontani. Se l’evangelista non ha detto che «il Golgota si spaccò», è perché sapeva, e voleva noi si sapesse, anche altrove essersi verificato consimile fenomeno.

Altrove. Ma dove? L’evangelista non specifica. Si tratterà, quindi per le altre spaccature causate dallo stesso terremoto, di tradizioni locali, che potranno essere più o meno ben garantite da documento storici, ma che sarà molto pericoloso disprezzare o voler relegare tra le leggende, solo perché «non è Vangelo».

Lo stesso Baronio parla di un’altra montagna che si ritiene essersi spezzata alla morte del Signore: la Verna, in Toscana. Quando Cristo moriva in croce, la Verna poteva essere nota ai lupi; ma se pure un montanaro si fosse trovato lassù nel momento in cui il terremoto produceva il terribile effetto, come avrebbe mai potuto capire che ciò avveniva per la morte del Dio Incarnato? E non comprendendolo, come avrebbe potuto passarne la voce ai discendenti? Che la Verna si sia spaccata in quel terremoto, lo crediamo su testimonianza dei "Fioretti", dove si racconta come Dio rivelasse a S. Francesco «che quelle fessure così meravigliose erano state fatte miracolosamente, nel’ora della Passione di Cristo»: rivelazione che rese al Santo così caro quel monte; ma semplice rivelazione privata.

Al pari della Verna, il Baronio nomina anche il promontorio di Gaeta, come uno dei monti spaccatisi in quella medesima circostanza, e ciò, dice egli, «incolae firmissima traditione testantur». Ma la montagna di Gaeta ha qualche vantaggio sulla Verna, perché vi è più evidente l’azione del terremoto, specialmente la centrale delle tre spaccature del monte Orlando, nella quale si può comodamente accedere ad esaminarne e palparne e misurarne sporgenze e rientranze, così vicine e così fedelmente corrispondenti, che il visitatore vede quasi le due parti dividersi, staccarsi, allontanarsi, e la protuberanza uscire dal suo concavo. In molti punti né azione demolitrice delle intemperie, né azione chimica dell’aria, né azione solvente dell’acqua e neppure la mano dell’uomo è riuscita a cancellare la fedele corrispondenza. Sì che se per la Verna all’esame esterno appare possibile l’azione ed’un terremoto, a Gaeta un movimento tellurico è l’unica spiegazione plausibile della spaccatura: l’unica cosa che resterà da dimostrare, sarà che fu QUEL terremoto e non un altro qualsiasi.

Poi l’Autore prosegue con simili argomentazioni induttive, ad esempio osservando che Gaeta era una zona assai popolata e che se ab antiquo sorse la tradizione di un terremoto, e che quel terremoto era proprio lo stesso che si verificò alla morte di Cristo sulla croce e in conseguenza di essa, facilmente si può immaginare come i primi cristiani abbiano raccolto la tradizione del terremoto e l’abbiano collegata con quel particolarissimo evento, del qual erano a conoscenza per conto loro. Argomentazioni, come si vede, fragilissime, per non dire inconsistenti, poiché proprio l’assenza di una precisa e incontrovertibile testimonianza che la spaccatura del monte di Gaeta si sia originata in quel tale momento storico, per non parlare della difficoltà di collegarla a quella causa e non solo a quella sequenza temporale, è di per sé un elemento a sfavore della tradizione che collega la forma della montagna di Gaeta con un sisma verificatosi per la morte di Cristo. Il fatto è che l’Autore, a nostro avviso, compie l’errore uguale e contrario a quello dei razionalisti e degli scettici per partito preso: pretende cioè di dimostrare qualcosa che non è dimostrabile, e, peggio, accosta la credibilità di tradizioni assai dubbie a quella certissima dei Vangeli, peraltro prendendo anche quest’ultima in un senso a nostro avviso troppo letterale. Ma così facendo non si arriva da nessuna parte e si rischia di screditare tutto e non solo quanto vi è di opinabile e d’incerto nelle tradizioni cristiane: talché gli scettici e i nemici della Rivelazione hanno poi buon gioco nel mettere in dubbio e nel far apparire stravagante anche quanto vi è di solido ed evidente nella tradizione. Insomma, quando ci si arrampica sugli specchi per dimostrare quel che non può essere dimostrato, si rende un cattivo servizio alla fede: la quale trova nei fatti riportati dalla pietà popolare un aiuto morale e non storico, né delle certezze che garantiscano la sua veridicità. Senza contare che altro è il contenuto delle rivelazioni private, specialmente di quelle riconosciute come autentiche, e dunque soprannaturali, dalla Chiesa, e altro è quello delle tradizioni e delle leggende di origine popolare, le quali, per quanto pie e non di rado commoventi e profondamente istruttive, nondimeno non possono aspirare ad essere riconosciute come ispirate da Dio, ma solo viste come testimonianza di credenze popolari molto antiche, e nulla più.

Quel che occorre fare, dunque, dal punto di vista dell’apologetica, non è voler dimostrare che la Verna o la montagna di Gaeta possono effettivamente aver conosciuto dei terremoti che ne hanno segnato il profilo, e che quei terremoti sono gli stessi di cui parlano i Vangeli Sinottici allorché descrivono la morte di Cristo sulla croce, perché si tratta di un compito impossibile e di dubbia utilità. Si tratta invece semplicemente di accettare con rispetto quelle tradizioni, considerarle come parte di un pio patrimonio di credenze di origine cristiana e, in pratica, una visibile allegoria che accompagna la fede, ma non la dimostra. Anche perché la fede è indimostrabile, sebbene si possa mostrare, come hanno fatto grandi filosofi, e su tutti san Tommaso d’Aquino, che i contenuti della Rivelazione non contrastano MAI con la ragione naturale e che, se un contrasto si verifica, esso è causato dalla ragione o meglio dall’uso scorretto di questa, o per ave invaso un ambito che non le appartiene, o per aver preteso di trarre conclusioni maggiori delle premesse. Insomma una pia tradizione locale non può in alcun caso confermare ciò che il cristiano crede per fede, ma solo attestare quanto radicata e diffusa fosse la fede dei nostri progenitori, i quali vedevano in quelle tradizioni — ad esempio nell’episodio del lupo di Gubbio narrato dai Fioretti — un sostegno alla devozione nei confronti dei Santi, di Maria Vergine e di Gesù Cristo, e non certo qualcosa che fosse necessario a sua volta dimostrare, perché in tal caso non sarebbero più state un aiuto alle verità della fede, ma una pietra d’inciampo, offrendo sin troppo facile materia di contestazione ai razionalisti e agli scettici.

Pertanto, così come questi ultimi errano quando credono, dimostrata l’inconsistenza storica di una certa tradizione, di aver inferto un colpo decisivo anche alla fede, errano anche quanti si aggrappano alla verità letterale delle pie tradizioni, perché la fede non ha bisogno di esse per sussistere nei cuori e nelle menti dei credenti, e anzi essa sarebbe una ben misera cosa se bastasse confutare qualche leggenda per metterla seriamente in difficoltà.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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