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Se esiste un mondo spirituale, allora il nostro non è assurdo, ma soltanto enigmatico

«Se esiste un mondo spirituale, il nostro non è assurdo, ma soltanto enigmatico»: ecco una di quelle frasi che restano scolpite nella mente e nell’anima, con forza straordinaria, perché scaturiscono dalle sorgenti più profonde del Vero, del tutto in accordo con la ragione naturale, dono prezioso dato all’uomo per aiutarlo a trovare la propria strada nell’immensità dell’universo.

È una frase del padre André Blanchet, che scrisse un libro notevolissimo per acume psicologico e finezza d’interpretazione esegetica: «La littérature et le spirituel, la nuit de feu» (Paris, Aubier, 1961): un testo apparso in libreria, in Francia, ormai più di mezzo secolo fa, con una prefazione di Henri de Lubac, e, purtroppo, mai tradotto in Italia; vi si riflette l’intensità di una cultura cattolica, come quella francese del Novecento, che, proprio perché passata attraverso il fuoco della tempesta materialista e antireligiosa, dall’Illuminismo in poi, e fino al Surrealismo, all’Esistenzialismo, al Nichilismo, si è messa in discussione ed è rinata più forte e consapevole.

Che il reale sia assurdo, o, quanto meno, incomprensibile; che il mondo sia un teatrino di pazzi e di allucinati; che la nostra stessa coscienza altro non sia che un’isoletta di false certezze e di sicurezze ingannevoli, lambita e minacciata d’ogni lato dalle torbide e incontrollabili forze dell’inconscio, tendenti a risospingerci verso il mondo primordiale e selvaggio delle pulsioni e degli istinti e che, pertanto, non valga nemmeno la pena di cercare, in tutto questo caos, un senso, una razionalità, un ordine qualsivoglia: tale è la posizione della cultura moderna che si autodefinisce progressista, illuminata, politicamente corretta, e fuori della quale non c’è salvezza.

Eppure, numerosi pensatori, scrittori e artisti moderni, dopo essersi confrontati con l’abisso dell’angoscia e della disperazione scaturito dall’aver voltato le spalle all’Essere, hanno trovato la forza di levare nuovamente lo sguardo verso l’alto, dalle bassure afose e soffocanti d’un mondo senza Dio, e hanno recato la loro testimonianza circa l’esistenza d’una realtà spirituale che illumina la nostra, le conferisce un senso, le indica la direzione. Anche se Marx e Feuerbach hanno deriso questa idea e l’hanno definita il frutto supremo dell’alienazione; e anche se Freud ha completato la loro opera, sostenendo che Dio stesso è solo una creazione nevrotica dell’uomo stesso, il quale, liberandosi dalla nevrosi, finirà per liberarsi anche di Dio, una volta per tutte. Nietzsche, almeno, si poneva questo obiettivo come un rischio supremo, nel quale mettersi in gioco con tutto se stesso, ben consapevole che solo pochissimi avrebbero potuto aspirarvi (l’eterna tentazione della gnosi, mille volte sconfitta e mille volte risorgente dalle sue ceneri!); mentre il marxismo e il freudismo hanno fatto della morte di Dio, meglio, dell’assassinio di Dio, il punto di partenza — e non d’arrivo — della palingenesi universale, l’atto che permetterà all’umanità intera, e non a singoli individui, di intraprendere vittoriosamente il proprio cammino di emancipazione.

Di quei pensatori e di quegli scrittori della speranza, però, la voce è giunta assai fievolmente al grande pubblico; la critica, la stampa, i salotti intellettuali, preferiscono rintronare gli orecchi del pubblico con gli eterni lamenti, con le urla disperate, con il digrignar di denti e con lo sberleffo amaro dei campioni della crisi: perché, oggi, l’uniforme d’obbligo per chi s’interessi di filosofia o di letteratura, è quella funebre dei profeti dell’Apocalisse: quasi che fosse incompatibile con la serietà e con la profondità d’un pensatore o d’uno scrittore avere fatto i conti con la realtà e aver concluso che un ordine, dopotutto, esiste; che una speranza non solo è lecita, ma doverosa; e che noi siamo esseri liberi e non patetiche marionette in balia d’un burattinaio sadico o pazzo.

Osserva, molto giustamente, Michel Louis nella sua breve ma efficace monografia «Il giovane e la letteratura» (titolo originale: «Du pain et des livres», Paris, A. Fayard, 1963; traduzione dal francese di C. M. Di Scipio, Catania, Edizioni Paoline, 1966, pp. 63-8):

«Questo delicato accordo [fra Umanesimo e Riforma cattolica, rappresentato da Erasmo] era troppo perfetto per non essere fragile: con la fine dell’età classica vediamo sopraggiungere quella "crisi della coscienza europea" così ben analizzata da Paul Hazard. E questa volta perché, sotto l’influsso del giansenismo, non si tiene abbastanza conto della "natura"; si smette di considerarla come il sostrato sul quale si costruisce l’edificio soprannaturale. La natura disprezzata si vendica e reclama tutti i suoi diritti. "Voi sapete vedere l’uomo solo come peccatore" brontola Jean Jacques Rousseau, mentre Voltaire, con un sorriso, ci fa l’apologia del "mondano".

Un mondo senza profondità e senza verità, una vita religiosa senza consistenza e incapace di cogliere l’uomo nel suo universo concreto: è incominciata la grave crisi dei tempi moderni. La letteratura diventa nuovamente fine a se stessa. L’uomo da essa studiato e di cui esprime i sentimenti non ha rapporti con la fede; quand’anche la cerchi, lo fa nel campo del sentimento, dove la raggiunge solo in maniera fragile e precaria. Ci troviamo di fronte a un umanesimo scoronato, che solo lentamente e imperfettamente si accorge di quel che ha perduto. Non tenteremo ora l’analisi di quel’epoca turbata, accontentandoci di indicare il punto ultimo verso il quale va alla deriva: un mondo assurdo in cui l’uomo è "passione inutile" (J. P. Sartre) e in cui la visione della realtà strappa a Malraux quel grido disperato: "Che farne di un’anima, se non c’è né Cristo né Dio?"."La realtà assoluta è stata per voi Dio, poi l’uomo; ma l’uomo è morto e voi cercate angosciosamente qualcuno a cui poter consegnare il suo strano retaggio. I vostri piccoli tentativi strutturali, mediante nichilismi moderati, non mi sembrano destinati a una lunga esistenza".

Parola ultima e costatazione malinconica di un umanesimo destinato al fallimento: ripiegato su se stesso, quale uscita può trovare al suo imperioso desiderio dell’assoluto?

Dal canto suo la fede, perduto ogni sostrato, non ha più la stessa generosità e la stessa apertura. Ripiega su posizioni difensive, timide o feroci. […]

D’altra parte, la paura è sempre quella: l’uomo oscilla tra la bestemmia e la disperazione, lo testimonia Rimbaud, che cerca la comunicazione col mistero poetico "mediante un lungo disordine di tutti i sensi"; Isidoro Ducasse, conte di Lautréamont, nei "Canti di Maldoror" pronuncia una lunga testimonianza contro quell’Assoluto che lo domina e al quale sfugge. La bussola umana è impazzita… Dopo la fede in Dio, chiave di volta della ragione, si attacca la stessa ragione umana e questo è senza dubbio il senso profondo del movimento surrealista, movimento che non approda a nulla.

Dovremo dire che i tentativi moderni di umanesimo non ci abbiano portato nulla? Sarebbe un errore crederlo. Se la letteratura è conoscenza dell’uomo, questa conoscenza diventa più profonda e più sottile. Il nuovo umanesimo tende a conoscere tutto l’uomo, fino al suo inconscio misterioso. Il suo orizzonte si slarga a contatto con una scienza che ci mostra un universo sempre più vasto, sempre più complesso; esplora, andando molto lontano, dei temibili stati d’animo: la noia, l’abbattimento, l’angoscia, la solitudine, la disperazione; vede spuntare, come dice Heidegger, l’inquietante figura del nichilismo. E se la "ragione", l’analisi fredda e lucida, sembra talvolta dare le dimissioni, lo spirito interroga con altri mezzi, specialmente con la poesia, che ci introduce nel mondo dei simboli, per suggerire l’inesprimibile.

Si verifica allora quel che si sarebbe potuto prevedere: l’uomo che soffoca in queste tenebre guarda verso le luminose altezze che aveva disertate. "Ogni uomo, nella sua notte, sale verso la sua luce" (V. Hugo). Questa notte diventa "notte di fuoco", attraversata da strani bagliori. "Et nox illuminatio mea". La letteratura fa delle scoperte inattese. Come in un possente ribollimento del mare, certe onde si slanciano verso il cielo, succedendo agli abissi. Tutti i valori spirituali rinascono, ma più forti e più presenti. Già Balzac e Baudelaire ci avevano fatto presentire questi movimento. Ed ecco Claudel abbracciare "l’immensa ottava della creazione"; ecco Péguy alleare lo spirituale al carnale. "Sacro e segreto, popolato d’angeli sfavillanti e neri disposti su piani ascendenti all’infinito, un mondo nuovo apre le sue terribili porte" (Blanchet).

Come nominare tutti coloro che ci hanno reintrodotti in questo mondo? Sono legione coloro che hanno instaurato un umanesimo più vero e più profondo. Forse è meglio citare, a mo’ di conclusione, questa bella frase di Padre Blanchet: "Se esiste un mondo spirituale, il nostro non è assurdo, ma soltanto enigmatico". O, meglio ancora, queste due affermazioni di La Tour de la Pin: "Inconoscibile a te stesso, se non in Dio".

La Rivelazione ci ha dato un lume sulla composizione e l’economia del mistero umano, che non è cosa vaga e astratta, ma il sistema d’amore più preciso che esista" ("La Contemplation errante", pp. 117 e 37).»

L’uomo, proveniente dall’Essere, a un certo punto se ne è distaccato, ha rinnegato le sue origini, ha risolutamente affermato non esservi altra realtà all’infuori di se stesso, della sua ragione, dei suoi valori: così facendo, egli ha reciso le sue stesse radici e si è votato alla sterilità — una sterilità contrassegnata dall’angoscia, dal "taedium vitae", dalla disperazione.

Avere fede nell’esistenza di un mondo spirituale significa ammettere che vi è una dimensione invisibile del reale; che il reale, pertanto, è fatto di cose visibili e di cose invisibili; e che la scienza, per sua natura, e tutta la cultura moderna, che prende la scienza come unico strumento di lettura del reale, ignora l’invisibile, solo perché non può vederlo. Non è che non voglia: non può; e non può, perché la dimensione spirituale non rientra nelle cose che la scienza possa riconoscere, studiare, comprendere.

È stata fatta una grande confusione, e non sempre in buona fede: uomini colti, uomini intelligenti, autodefinitisi "intellettuali", hanno sentenziato che lo spirituale non esiste, perché non è visibile, e ciò che non è visibile, non esiste. Ragionamento estremamente rozzo, che essi si sono ben guardati dal tentar di spiegare: piuttosto, hanno denigrato sistematicamente, calpestato e deriso la concezione opposta alla loro: che vi sia una realtà spirituale, e che ne derivi l’esistenza di un mondo invisibile. Hanno messo a tacere, preventivamente, qualunque obiezione: e, dopo aver fatto in modo che opinioni diverse dalla loro non siano neppure ritenute degne d’essere prese in considerazione, si sono affrettati a chiudere a chiave la porta della Verità, decretando che oltre di essa non c’è niente, perché non esiste la Verità, ma esistono solo delle verità umane, volta per volte modificabili, volta per volta storicamente determinate. Hanno instaurato, così, il regno del relativismo, e hanno stabilito, per decreto, che nessun pensatore ragionevole, anzi, che nessuna persona seria, può prescindere da esso: o si ragiona stando al suo interno, riconoscendone la sovranità universale , oppure non si ha diritto di cittadinanza.

Di conseguenza, è necessario che l’uomo dei nostri giorni riparta letteralmente da zero; che metta fra parentesi le pretese conquiste intellettuali della cultura moderna, o molte di esse, e sgombri la mente ed il cuore dai pregiudizi, dagli sproloqui e dalle mezze verità con le quali essa lo ha circuito, ingannato, manipolato; che ritorni a respirare un poco d’aria pura, saltando a pie’ pari innumerevoli inganni e sofismi, e ritornando alle pure fonti dell’Essere, onde abbeverarsi alle acque perenni del Vero, del Bene, del Giusto, le quali soltanto possono placare la sua sete divorante di assoluto, la quale è il segno inequivocabile della sua natura spirituale.

Per fare una cosa del genere, occorre molta umiltà intellettuale; e, naturalmente, una certa dose di coraggio morale, perché si tratta di andare decisamente controcorrente: si tratta di esporsi alle critiche, alle incomprensioni, alla derisione della cultura dominante — e, forse, perfino dei propri amici. Se c’è una cosa che la cultura oggi dominante, scientista, razionalista e materialista, non può perdonare, è l’apostasia di coloro che credeva essere dei suoi. Non ha importanza che lo credesse, ma che così non fosse: perché la cultura oggi dominante è talmente arrogante, che non arriva nemmeno a concepire che qualcuno possa dissentire dai suoi stessi presupposti intellettuali.

Ma non importa. La solitudine e l’incomprensione altrui sono un prezzo modesto da pagare, a paragone dei tesori inestimabili che un simile cammino potrebbe dischiudere a colui che cerca la Verità con animo puro, senza secondi fini. Ne va della cosa più preziosa: il senso della nostra vita…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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