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Rudolf Kjellen e la nascita della Geopolitica

Da un punto di vista strettamente politico, protagonisti della storia sono i popoli e le nazioni, non gli individui: punto di vista che, inevitabilmente, entra in rotta di collisione con quello strettamente etico, secondo il quale è l’individuo a dover essere posto al centro e considerato come l’elemento essenziale, imprescindibile, di qualsiasi progetto della buona politica.

La sostanza del contrasto fra politica ed etica è tutta qui: perché è chiaro che un atto morale presuppone la libera volontà dell’individuo e non la disciplina delle masse, sottoposte a un dato ordine sociale e alle direttive di un sistema di governo ben preciso; niente libertà individuale, niente morale.

Viceversa, per poter funzionare, un sistema politico ha bisogno del consenso, della collaborazione e della partecipazione dei cittadini: senza di esso non vi è alcuna buona politica, ma solo un regime brutalmente totalitario, arroccato a difesa del potere di pochi, o, addirittura, a difesa del potere in se stesso, quale che sia (come nel «Principe» di Machiavelli).

Non si vuol dire, con questo, che la politica possa prescindere completamente dalla morale, né che la morale dell’individuo possa far finta che non esista la politica, perché l’individuo, comunque, è inserito in un contesto sociale, e, dunque, anche in un sistema politico; si vuol dire, semplicemente, che, nel mondo della storia, a prevalere è l’elemento politico, di per sé finalizzato a salvaguardare l’interesse dell’intero corpo sociale, non solo nei rapporti fra gli individui, ma anche nelle relazioni con gli altri corpi sociali e con gli altri sistemi politici, mentre, nella dimensione individuale, è e deve essere l’elemento etico a prevalere rispetto a qualsiasi altro, senza di che il bene dell’individuo stesso andrebbe perduto, e, contemporaneamente, anche la pace e la proficua collaborazione fra i diversi soggetti individuali.

Ognuno vede come, per questa via, l’interesse del corpo sociale e quello dell’individuo, teoricamente, vengono ad avvicinarsi, fino quasi a coincidere; ma è altrettanto vero che, nello stesso tempo, l’esperienza pratica ci mostra quanto spesso accada il contrario, e ciò per la buona ragione che, nei rapporti reciproci fra l’interesse del corpo sociale e quello dell’individuo, si crea una possibilità di conflitto dovuta, appunto, ai due sistemi divergenti di valutazione di ciò che deve considerarsi il vero bene e l’interesse primario di ciascuno.

Se, per il corpo sociale, il bene supremo consiste nell’armonia interna e nella capacità di inserirsi vantaggiosamente nel contesto internazionale dei diversi soggetti politico-sociali, e dunque si proietta principalmente verso la dimensione del bene esteriore, materiale, per l’individuo, al contrario, il bene autentico non può essere che quello della piena realizzazione del suo essere morale, e dunque si configura essenzialmente come un bene interiore, spirituale.

Ed ecco le due città, di cui parlava quel grande filosofo della storia, e quel grande teologo, che è stato Sant’Agostino: l’una è la città terrena, fondata sulla forza e sull’ingiustizia, perché cerca ostinatamente l’amor di sé; l’altra è la città di Dio, fondata sulla vera giustizia e sulla pace, che si realizza nell’abbandono dell’amore di sé e nella scoperta dell’unico amore che comprende ogni altro amore: quello per Dio.

Se, ora, da queste sublimi altezze, scendiamo nella dimensione concreta, sofferta, e, non di rado, ingrata e sgradevole, della realtà politica, non possiamo non vedere come essa sia soggetta a una serie di fattori esterni, che la influenzano e che tendono a condizionarla fortemente, proprio come la vita del singolo è influenzata e, in parte, condizionata, da fattori esterni, quali l’ambiente, la salute fisica, le condizioni economiche; e che, tra quei fattori esterni, un ruolo assolutamente primario è svolto dalle condizioni geografiche, geologiche e climatiche.

I popoli e le nazioni non si formano e non vivono in uno spazio "neutro", astratto, ma in uno spazio concreto: il fatto che tale spazio sia vasto o ristretto, aperto o chiuso (cioè caratterizzato da frontiere naturali più o meno ben definite), continentale o marittimo, tropicale o temperato, e via dicendo, non è certo indifferente per la vita e per il "destino" di esse.

Ed ecco qui un altro concetto ostico, ma ineludibile, della geopolitica, la quale studia in che modo quei fattori geografici condizionano, e in che modo possono essere dominati e sfruttati: il concetto di "destino". Il fatto che esso sia stato messo al centro della riflessione da regimi politici totalitari, che hanno impresso una scia di sangue nella storia mondiale recente, ha provocato, per reazione, il suo successivo abbandono, o meglio il suo parcheggio a tempo indeterminato nell’area di ciò che è considerato politicamente scorretto (al presente); il problema, però, rimane. Se esiste un destino nella vita degli individui, non si vede perché non dovrebbe esisterne uno anche nella vita dei popoli e delle nazioni. Ebbene, la geopolitica è, precisamente, la scienza che studia in quale modo i fattori geografici possano essere valutati, ed eventualmente utilizzati, affinché i popoli e le nazioni possano realizzare il loro destino.

Facciamo l’esempio delle Repubbliche marinare italiane del Medioevo. Sarebbe ingenuo pensare che la configurazione geografica dell’Italia non abbia svolto, nella "vocazione" commerciale di quelle città, un ruolo decisivo: ebbene, ciò è quanto dire che Genova, Pisa, Amalfi e Venezia hanno realizzato il proprio destino di repubbliche marinare secondo le naturale linea di sviluppo che i fattori geopolitici esistenti indicavano loro. Si potrebbe anche fare l’esempio opposto, quello dei Paesi Bassi, che divennero, nel XVI e XVII secolo, una grande potenza marittima e commerciale, proprio lottando contro delle sfavorevoli condizioni geopolitiche; ma, a ben guardare, si tratta, considerato da un altro punto di vista, dello stesso principio: i fattori esterni sono decisivi, anche se i popoli e le nazioni (come gli individui) possono reagire ad essi entro un certo margine di libertà d’iniziativa, o per assecondarli, o per tentare di modificarli.

Scrivono Claudio Minca e Luiza Bialasiewicz in «Spazio e politica. Riflessioni di geografia critica» (Padova, Cedam, 2004, pp. 162-65):

«Il termine [geopolitica] viene coniato nel 1899 non da un geografo, ma da uno studioso di scienza della politica, lo svedese Rudolf Kjellen, il quale voleva con esso far riferimento a "un interesse generale nei confronti dei rapporti tra geografia e politica". […]

Nell’annunciare la nascita di una nuova ‘scienza della Geopolitica’, Rudolf Kjellen si propone infatti di applicare le idee dei geografi politici accademici — e di Friedrich tratte in particolare — alle considerazioni strategiche e, più in generale, ai bisogni e agli interessi dei singoli Stati. È interessante osservare che, benché membro conservatore del Parlamento svedese, Kjellen sviluppa le sue argomentazioni con la mente rivolta probabilmente più ai bisogni dell’allora emergente potenza tedesca che a quelli del suo Paese […]

Nel suo libro "Der Staat als Lebensform", apparso inizialmente in Svezia nel 1916, Kjellen recupera le idee ratzeliane di lotta per lo spazio e le applica alle questioni strategiche che si ponevano agli Stati europei all’inizio del nuovo secolo. Questa nuova forma di conoscenza geografica, la geo-politica, secondo Kjellen, doveva diventare la "scienza dello Stato", una scienza applicata e strategica. Come Raffestin, Lopreno e Pasteur («Géopolitique et histoire», 1995) fanno giustamente notare, la modalità conoscitiva proposta dal politologo svedese porta in sé una serie di importanti ‘effetti’: innanzi tutto, essa PRIVILEGIA (E QUINDI NATURALIZZA DANDOLO PER SCONTATO) LO STATO IN QUANTO ATTORE PROTAGONISTA negli affari internazionali e ‘contenitore’ dei processi sociali, politici ed economici; in secondo luogo, nella nuova scienza della geopolitica lo Stato diviene "una categoria primordiale e trascendente" (Raffestin et al., 1995, p. 96). Kjellen, interpretando Ratzel, concepisce lo Stato come un organismo naturale, un organismo più grande della somma dei suoi componenti, nonché il prodotto di un’interazione secolare tra un popolo e il suo ambiente naturale […]

A partire dalla sua concezione organica dello Stato, Kjellen trae una serie di importanti considerazioni. La prima riguarda il ruolo che gli Stati più grandi e gli imperi saranno destinati a giocare nel nuovo secolo: in virtù della sua fiducia nel darwinisno sociale e nel determinismo ambientale egli ritiene che il futuro appartenga necessariamente a grandi organismi statali destinati ad assorbire o a dominare quelli minori. Il nuovo secolo si annuncia quindi come l’epoca delle ‘grandi potenze’, ciascuna delle quali dominerà la propria rispettiva area di influenza, cioè lo spazio essenziale per la propria sopravvivenza in quanto organismo territoriale. Ritroviamo qui il riflesso della concezione ratzeliana delle "pan regioni". A differenza di Ratzel, Kjellen è tuttavia molto più esplicito nel sostenere le pretese di grande potenza mondiale avanzate dalla Germania: nella mente di Kjellen il ‘destino’ della Germania è quello di diventare la potenza dominante nell’Europa continentale e di spingere la Russia verso la periferia, lontano dal Vecchio Continente, riducendola al ruolo di ‘potenza orientale’.

Questo destino è inoltre chiaramente quantificabile: per il politologo svedese, la politica territoriale di uno Stato è infatti l’esito di una naturale relazione matematica tra spazio e società. In questa prospettiva, la guerra è semplicemente una delle arene in cui si negozia la politica territoriale degli Stati: "une grande école de maîtrise de l’espace […] domaine d’epérimentation pour la géopolitique", cit. p. 91). L’arena internazionale è quindi concepibile in termini di equilibrio ‘matematico’ di potere. L’argomentazione di Kjellen porta pertanto a ritenere che un equilibrio politico globale possa essere definito sulla base di un insieme di attributi geopolitici ‘oggettivi’. […]

Mentre propone un’interpretazione scientifico-matematica dello Stato e delle sue ambizioni territoriali, il lavoro di Kjellen rappresenta al contempo una sfida straordinaria ALLE INTERPRETAZIONI LEGALI E ISTITUZIONALI DELLO STATO E DELLE RELAZIONI INTERSTATALI adottate fino a quel momento dagli studiosi di scienze politiche, dai geografi politici e dagli statisti in genere. In "Der Staat als Lebensform", Kjellen mete infatti in discussione il concetto legale di Stato, giungendo alla conclusione che tale concetto sia semplicemente un prodotto derivato dal pensiero repubblicano borghese e un’espressione del razionalismo radicale tipico dell’illuminismo francese; in altere parole, un erede della rivoluzione francese. Il geopolitico svedese sostiene infatti che lo Stato potrebbe — e dovrebbe — invece essere qualcosa di molto di più. Lo Stato, nella sua visione, dovrebbe rappresentare il veicolo delle speranze, dei sogni e delle aspirazioni di un popolo […]

Kjellen afferma infatti che "tutto ciò che ciascun uomo è […] lo deve allo Stato […] è qui che risiede il suo spirito. Il suo valore, la sua dimensione spirituale non hanno alcun significato senza lo Stato. […] La Nazione, e non l’individuo, è il vero eroe della storia" (Kjellen, 1924, pp. 86, 117).

Nel clima di panico geopolitico che caratterizza il passaggio al secolo nuovo, le idee di Kjellen, con la loro propensione a fondere un’interpretazione scientifica e matematica delle relazioni statali con un appello romantico agli alti ideali dello Stato e della nazione, si rivelano particolarmente attraenti. Questo spiega anche come mai finiranno per diventare la principale fonte d’ispirazione — come è noto — per la scuola di pensiero geopolitico tedesco che emergerà e si affermerà negli annui successivi alla Prima Guerra Mondiale e, in particolare, per il lavoro del leggendario fondatore della geopolitica tedesca, Karl Haushofer, […]»

È una cosa ben strana, e, tutto sommato, ipocrita, che la geopolitica sia stata bollata con un marchio d’infamia (almeno dalle piccole e medie potenze: non certo dalle grandi), perché, piaccia o non piaccia, essa è una scienza preziosa, addirittura indispensabile, affinché gli stati possano condurre una politica davvero confacente al proprio interesse.

I governi passano; gli stati durano molto più a lungo, talvolta per millenni; i popoli e le nazioni, rimangono. Anche le condizioni geografiche, in linea di massima, permangono (almeno finché gli uomini non le mutano radicalmente, cosa che talvolta accade): è illogico, dunque, ignorare il peso che esse svolgono nella vita dei popoli, delle nazioni e degli stati.

All’arte del buon governo, infatti, compete di fare in modo che quel peso sia incanalato e utilizzato in senso favorevole, e che non incomba come una biblica maledizione, sulla vita dei popoli e delle nazioni: e, per fare questo, è necessario conoscerlo, dunque studiarlo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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